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Pierluigi Ciocca, Recensione a L. Segreto, L’economia mondiale dopo la guerra fredda, il Mulino, Bologna, 2018.

di - 4 Febbraio 2019
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I temi che solleva questo bel libro, a un tempo problematico e sintetico, sono di grande rilievo e di un duplice ordine: alcuni riguardano il capitalismo in generale, altri singole economie, sul filo dell’evoluzione avviata dalla guerra fredda. Il quadro che il libro traccia è chiaroscurato, non certo idilliaco.

A. Il capitalismo odierno.
Se molto come sempre cambia, i quattro tratti di fondo del capitalismo restano invariati: sviluppo produttivo formidabile unito a instabilità, iniquità, inquinamento.
Questi tratti permangono, nonostante le tanto demonizzate  globalizzazione e finanziarizzazione, che secondo molti avrebbero mutato – in peggio – il capitalismo. Le statistiche precisano la dimensione dei due fenomeni. Negli ultimi due-tre decenni il commercio mondiale è aumentato del 5% l’anno. Quindi ha rallentato, anche rispetto al reddito, dal primato dell’8% del 1950/1973. Gli immigrati sono rimasti sul 3% della popolazione del globo. I flussi lordi dei capitali, che erano saliti dal 10% del Pil al picco del 45% nel 2007, sono poi ridiscesi all’attuale 10%. Nei paesi del G 7, più che le attività finanziarie delle famiglie e le passività finanziarie delle imprese, sono aumentati – raddoppiando rispetto al Pil di quei paesi – i rapporti fra gli intermediari. Dilatandosi, hanno più strettamente integrato i mercati finanziari. Ma i tassi d’interesse erano arrivati a convergere, tenuto conto dei premi al rischio, già nel 1913, sebbene le transazioni lorde fossero allora molto minori.
Commercio, emigrazione, movimento dei capitali e finanza non hanno impedito la crescita. Negli ultimi decenni, pur con la pausa del 2009, la progressione del Pil mondiale ha sfiorato il 4% l’anno. La previsione dell’IMF al 2023 è del +3,6%. E’ l’espansione più rapida della storia, inferiore soltanto al 5% degli irripetibili anni 1950-1973. Cina e India sono uscite dall’arretratezza. La crescita ha ridotto la povertà assoluta nel mondo (2 dollari al giorno) dai 2,4 miliardi di esseri umani del 1980 ai 700 milioni di oggi. Per questo il capitalismo continua a vincere. Manca solo la Corea del Nord…
Vince nonostante l’instabilità, l’iniquità, l’inquinamento che per sua natura genera. Queste negatività si sono in realtà accentuate, anche perché la globalizzazione e la finanziarizzazione non sono state regolate, gestite. La crisi del 2008-2009 ha confermato quanto il sistema sia esposto all’instabilità. La sperequazione dei redditi all’interno dei singoli paesi è tornata ad aumentare e la mobilità sociale spesso si è ridotta. Le emissioni di gas nocivi e il riscaldamento del pianeta sconvolgono il clima e l’ambiente.
Peraltro globalizzazione e finanziarizzazione non impediscono agli stati nazionali, grandi e meno grandi, di attuare le politiche capaci di contenere l’instabilità e l’iniquità. Diverso è il caso del cambiamento climatico. La tecnologia e le risorse necessarie sono disponibili, ma solo un impegno coordinato a livello mondiale può sottrarre il pianeta al dramma ambientale.

B. I “capitalismi”.
B.1) L’Unione Sovietica (ex-sfidante degli Stati Uniti).
I sovietici hanno semplicemente rifiutato il fatto che, in un’economia in transizione dalle produzioni pesanti alle leggere in cui i consumi risalgono la “curva di Engel”, andava affidata alle banche la selezione delle imprese realizzatrici dei progetti d’investimento stabiliti dal Piano, ovvero indicati dal mercato. Nel volgere degli anni Ottanta il crollo dei prezzi di oro e petrolio e gli alti tassi d’interesse hanno dato il colpo di grazia all’economia sovietica. La Perestroika fallì. Il risultato è stato che oggi la Russia di Putin, con più mercati spesso oligopolistici, pesa solo il 3,2% del reddito mondiale, mentre ancora nel 1973 l’URSS pesava il 10%. Naturalmente l’Armata Rossa è dotata di 7mila testate nucleari, pari a quelle degli Stati Uniti…
B.2) Il Giappone (altro ex-sfidante degli Stati Uniti)
Dopo la “bolla” immobiliare, azionaria e bancaria del 1990 il Giappone si è fermato, economicamente. Dal 1994 al 2018 la crescita annua del Pil non è arrivata all’1%, solo di poco meglio della Cenerentola italiana (0,6%). La stasi, seguita ai progressi vertiginosi del dopoguerra, resta inspiegata da forze meramente economiche. Michio Morishima – scomparso nel 2004 – previde nel 2000 che il ristagno sarebbe proseguito, essendo i giapponesi culturalmente incapaci di passare dall’above al below: da un’economia gestita e da una società corporativa a un’economia di concorrenza e a una società pienamente democratica. Quindi Japan at a Deadlock – il titolo del suo libro – a causa delle specificità nella religione, nell’istruzione, nelle istituzioni del Sol Levante, specificità difficili da valutare da parte di un occidentale.
B.3) La Cina (ultimo sfidante degli Stati Uniti)
L’economia cinese cresce pur sempre del 6% l’anno e può ancora avvalersi di una riserva di sottoccupati in agricoltura prossima al 20% delle forze di lavoro. Quindi la Cina dispone e disporrà delle risorse per comporre i suoi profondi squilibri economico-sociali. Nel volume della produzione (18% del Pil mondiale) ha già superato gli Stati Uniti (15%) e li distaccherà. La posizione creditoria netta della Cina verso l’estero si aggira sui 2mila miliardi di dollari ed è in prevalenza a fronte di debiti statunitensi. I rapporti fra le due potenze si giocheranno soprattutto sul piano geo-politico e militare. L’Africa è già ampiamente penetrata dai cinesi. La Via della Seta si sta aprendo. Persino il Giappone – che fu di McArthur – si sta orientando a stabilire migliori relazioni con Pechino, il nemico del passato, anch’esso discretamente armato di testate nucleari.
B.4) Gli Stati Uniti (gli sfidati)
Oltre che nel volume della produzione, gli Stati Uniti sono esposti su altri fronti.
Attualmente l’economia americana cresce a discreti ritmi (3%), la disoccupazione è sui minimi (3,5%), l’inflazione resta bassa (2,3%). Ma rispetto al Pil il disavanzo pubblico sfiora il 5%, il debito pubblico il 110%, il deficit della bilancia dei pagamenti il 3%, la posizione debitoria netta verso l’estero il 50%.
I prodotti americani non sono competitivi. Dagli anni Settanta del Novecento il tasso d’innovazione e progresso tecnico è scemato. Nonostante computers, ICT, big data, robotica, intelligenza artificiale nel 2004-2014 la produttività totale dei fattori è aumentata solo dello 0,4% l’anno, molto meno dell’1% del decennio precedente e soprattutto dell’1,9% del 1920-1970 (Gordon).
L’aggressività del Presidente Trump è quindi difensiva della primazia americana. Una guerra fredda Stati Uniti/Cina è già in atto. Trump non può non opporsi al dumping sociale cinese, come pure allo sfacciato neomercantilismo tedesco, alla svalutazione competitiva dell’euro cercata dalla banca centrale europea. Minaccia l’aumento dei dazi e tuttavia sa che sbaglierebbe se lo attuasse ulteriormente. L’aumento finora osservato è trascurabile, con il valor medio delle tariffe salito nel mondo solo dal 2,7% – minimo storico – al 3,2%.

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