Imposta come home page     Aggiungi ai preferiti

 

La via della crescita

di - 31 Maggio 2018
      Stampa Stampa      

3. Il diritto dell’economia dev’essere ripensato in modo organico e ampiamente riscritto. L’ordinamento attuale appesantisce i costi del produrre e frena la produttività. Nel rispetto dell’art. 41 della Costituzione vanno posti al servizio delle imprese le branche del diritto societario (valorizzare la funzione imprenditoriale ben oltre l’art. 2082 cod. civ., l’istituto della trasformazione della veste giuridica delle imprese, l’exit più che la voice nelle società), fallimentare (stile Chapter 11 USA), amministrativo (accentramento della grande spesa e nuovo codice degli appalti), del processo civile (rapidità e certezza delle sentenze).

4. È cruciale promuovere la concorrenza, statica e soprattutto dinamica. Non è solo questione di un antitrust capace di contrastare posizioni dominanti e intese collusive. Come insegna Schumpeter, la concorrenza a colpi d’innovazioni ancor più della concorrenza attraverso i prezzi è il propellente della “distruzione creatrice”, della riallocazione delle risorse, quindi dello sviluppo delle economie di mercato.

5. Dev’essere avviata a correzione una distribuzione dei redditi, dei patrimoni e soprattutto delle opportunità individuali altamente sperequata. Al di là dei profili morali e d’equità, essa taglia fuori i cittadini svantaggiati dal contribuire al progresso anche economico del Paese, che per questa via ne risulta anzi frenato, specialmente al Sud.

6. Urge una strategia per il Sud. Essa non può che imperniarsi su una rinnovata dotazione delle infrastrutture, fisiche e immateriali. Sono drammaticamente carenti nel Mezzogiorno, con pesante svantaggio per i cittadini e per le imprese meridionali. Il moltiplicatore degli investimenti pubblici (1,9) è, non a caso, maggiore al Sud che nel resto d’Italia. Per il clima, per le bellezze naturali e il patrimonio artistico, per la sua storia il Sud d’Italia potrebbe proporsi come la Florida d’Europa se lo si dotasse delle migliori opportunità di turismo e soggiorno in particolare per gli europei meno giovani. Occorrerebbe che le splendide città del Meridione offrissero tutta la gamma dei necessari servizi: sanità, assistenza, sicurezza, trasporti facili sia urbani sia con le località di mare e di montagna, conferenze, luoghi di cultura, mostre, manifestazioni dalle musicali alle sportive. È, questo, non un problema, ma una straordinaria chance di avanzamento sia dell’economia sia della società dell’intero Paese.

7. Nell’Eurozona all’attuale rigore alla Hayek occorre sostituire il rigore alla Keynes: equilibrio di bilancio, sì, ma unito a investimenti pubblici utili e capaci di autofinanziarsi, anche ammettendo la golden rule per la parziale copertura con debito di quegli stessi investimenti. Il problema non è l’euro, ottima moneta che ha assicurato il bene prezioso della stabilità dei prezzi unita a bassi tassi d’interesse. Il problema è nel governo dell’economia dell’Euroarea, nell’impostazione di fondo della sua politica economica, a cominciare da quella tedesca. Dal 1999 al 2016 il Pil tedesco è progredito solo dell’1,4% l’anno, imponendo un ritmo di crescita altrettanto basso all’intera Euroarea. Ciò anche perché in Germania la dinamica della domanda interna (1,1% l’anno) è stata inferiore a quella del Pil. L’ha frenata il taglio del disavanzo e soprattutto degli investimenti pubblici. Il sostegno al Pil tedesco è quindi provenuto dalle esportazioni nette (+8% del Pil), a scapito della domanda globale negli altri paesi. Questo neomercantilismo si è tradotto in un attivo nella posizione netta verso l’estero della Germania giunto nel 2017 a sfiorare il 60% del Pil: 2000 miliardi di dollari, come la Cina, poco meno del Giappone. L’attivo conferisce alla Germania creditrice un enorme potere politico di condizionamento dei paesi debitori, in stridente contrasto con l’idea di un’unione europea tra pari. Il punto chiave analitico è che Keynes non è affatto lo spendaccione inflazionista considerato da chi l’ha studiato su mediocri manuali, non ha letto i suoi scritti o se li ha letti non li ha compresi. Keynes aborriva i disavanzi pubblici di parte corrente, lo “scavare le buche”, il debito dello Stato. Predicava investimenti pubblici, col bilancio in tendenziale equilibrio. Poneva un problema di composizione della spesa, un freno alle uscite correnti ovvero al limite maggiori imposte purché si effettuino buoni investimenti pubblici in infrastrutture.

Alcuni sostengono che l’economia italiana è destinata a un ineluttabile declino perché la popolazione ristagna, è invecchiata, invecchia. Gli ultra 65enni sono già il 22% del totale, 3 punti più dell’Europa. Limita, ciò, la crescita? Secondo me, no. È un’assoluta sciocchezza che una popolazione di anziani sia destinata solo per questo al ristagno o addirittura all’involuzione.
In una sessione della 26ma riunione annuale della Società Italiana degli Economisti guidata da Giorgio Fuà – i cui atti sono raccolti in G. Fuà (a cura di), Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, il Mulino, Bologna, 1986 – Sergio Ricossa sostenne la tesi secondo cui stazionarietà e invecchiamento della popolazione dischiudono prospettive di “crescita qualitativa, non quantitativa: incessante crescita qualitativa” (p. 55). L’idea è, ancora una volta, schumpeteriana. I bisogni degli anziani sono diversi da quelli dei giovani. Gli anziani consumano di più per alimenti, energia, sanità, abitazione, servizi domestici; consumano di meno per abbigliamento, tempo libero, trasporti. Inoltre il paniere dei consumi presenta un’alta varianza fra gli stessi anziani. La gamma va da chi, in salute, fa turismo a chi necessita della badante, di cure, di una casa di riposo, a chi è malato terminale. Muta, così, la composizione della domanda. Il suo mutare è il presupposto della distruzione creatrice, molla dello sviluppo se colta dalla imprenditorialità dei produttori. È l’analogo di un’innovazione, come il motore a vapore e a scoppio, l’elettricità, l’automobile, gli elettrodomestici, la ICT…
Ma, invecchiamento a parte, basteranno le sette “cose”, qualora si realizzassero come i governi di cui si parla in queste ore non sembrano orientati a fare cianciando di fuoruscita dall’euro, sgravi fiscali, flat tax, reddito di cittadinanza?
No. Le sette “cose” non basteranno se le imprese italiane continueranno – come è avvenuto a partire dal deprezzamento della lira nel 1992 – a non rispondere alla sfida, ad attendere facili guadagni dal cambio svilito, dal salario moderato, dai tassi d’interesse stracciati, dai trasferimenti pubblici, dall’evasione fiscale. È questa la ragione vera del ristagno tendenziale della produttività presso le nostre aziende, al di là delle piccole dimensioni e del controllo famigliare.
Le imprese devono ottenere che la politica, i governi, agiscano. Al tempo medesimo, devono ricercare il profitto al loro interno: l’accumulazione di capitale, la scala efficiente del produrre, l’innovazione, il progresso tecnico sono loro responsabilità. Nel Novecento, precluso il guadagno facile, l’hanno fatto in due occasioni: l’età giolittiana (Giolitti vietò ai carabinieri di sparare sui lavoratori, pareggiò il bilancio, tenne il cambio, limitò il protezionismo, contrastò rendite e monopoli) e il secondo dopoguerra (lo spettro del Mercato Comune d’Europa costrinse le imprese per sopravvivere a investimenti prossimi al 30% del Pil).
Smettano, le imprese italiane, di confidare in facilitazioni, sussidi, sgravi, spesa pubblica, bassi salari, folli uscite dall’euro, profitti facili. Decidano, finalmente, di contare in primo luogo su se stesse!

Pagine: 1 2


RICERCA

RICERCA AVANZATA


ApertaContrada.it Via Arenula, 29 – 00186 Roma – Tel: + 39 06 6990561 - Fax: +39 06 699191011 – Direttore Responsabile Filippo Satta - informativa privacy