La via della crescita

Nonostante progressi recenti la condizione di debolezza dell’economia italiana permane[1]. È molto preoccupante. Una delle economie più vivaci del dopoguerra ha perso smalto, ristagna, vegeta. Il peso dell’Italia sul Pil mondiale è sceso su valori quasi irrilevanti, l’1,8%. L’insicurezza economica dei cittadini è fra le matrici della sfiducia nella politica, dell’assenteismo, del voto di protesta. Il 4 marzo rischia di sfociare in un governo che non riscuote consensi da parte del Mondo, dell’Europa, dei mercati finanziari.

L’economia era in tendenziale rallentamento già prima della doppia recessione fra il 2008 e il 2013. Nel 1982-1992 il Pil era cresciuto del 2,5% l’anno, mentre l’inflazione diminuiva grazie alla politica monetaria e del cambio attuata dalla Banca d’Italia di Ciampi, amico di Giorgio Fuà. Nel settembre del 1992 e nella primavera del 1995 una duplice crisi della lira, causata da una finanza pubblica fuori controllo, ebbe ripercussioni pesantemente negative sull’attività economica. Nell’intero quindicennio 1993-2007 l’incremento medio del Pil si ridusse all’1,5% l’anno. Seguì il tonfo recessivo, in periodi di pace il più profondo dal tempo di Cavour: nel 2008-2014 il Pil è crollato del 10%, gli investimenti del 30%.

Sul finire del 2014 ha preso avvio un recupero ciclico, ma tardivo e parziale. Nel 2014-2017 l’incremento medio del Pil non ha raggiunto l’1% l’anno. L’attuale livello del prodotto resta del 5,7% inferiore all’ormai antico picco storico del 2007. Cumulato in un decennio, il reddito nazionale dissipato rispetto al livello di allora si aggira già sui mille miliardi di euro. Il recupero ciclico è più da consumi che da investimenti e da esportazioni nette; il suo ritmo è giunto a superare di poco l’1% l’anno; sta già scemando dallo 0,4% congiunturale toccato nel terzo trimestre del 2017; anche per le attuali incertezze politiche la previsione per il 2018-2019 non vede un’accelerazione, semmai un rallentamento. È vero che le esportazioni si sono riprese più rapidamente del Pil e degli investimenti e travalicano del 13% le quantità di dieci anni prima. Ma la loro espansione è stata in linea col commercio mondiale, non è derivata da guadagni di competitività di prezzo dei manufatti, è dipesa anche dalla bassa domanda interna.

È risultato pernicioso il taglio degli investimenti pubblici che governi ed enti locali hanno attuato: da 54 miliardi nel 2009 a quasi 30 nel 2017, soprattutto nel Mezzogiorno. Se vi fosse domanda effettiva il prodotto aumenterebbe di più. Risorse e capacità produttiva restano infatti sottoutilizzate. Lo provano l’avanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti e l’eccesso d’offerta di lavoro. L’avanzo sfiora il 3% del prodotto. Essendo dal 2010 invariata la competitività, l’avanzo è il mero riflesso del vuoto d’investimento rispetto al risparmio. La disoccupazione è all’11% (20% al Sud, raccapricciante); un terzo dei giovani è disoccupato e non pochi emigrano; buona parte dell’occupazione è sussidiata dallo Stato, precaria, mediocre nelle mansioni e nel salario; i poveri aumentano, a cinque milioni; le città pullulano di mendicanti, italiani e immigrati che non trovano lavoro.

Ma anche se la bava di recupero ciclico montasse, non v’è crescita. La ripresa non va confusa con la crescita, a cui non si è collegata. Sono spenti da lustri i due fondamentali motori dello sviluppo di trend: l’accumulazione di capitale e l’innovazione, di prodotto e di processo.

Nel 1969-1985 lo stock di capitale non residenziale era cresciuto del 7% l’anno, nonostante le turbolenze salariali, petrolifere, di finanza pubblica. Nel 1992-2009 era aumentato solo del 2% l’anno. Dal 2010 al 2017 è addirittura diminuito in valore assoluto, cumulativamente quasi del 10%! Neanche attraverso la loro blanda ripresa del 2015-2017 gli investimenti fissi lordi sono bastati a compensare il logorio fisico e l’obsolescenza tecnologica degli impianti e macchinari esistenti: per l’ammortamento sarebbero occorsi 80/100 miliardi in più.

La produttività totale dei fattori – che statisticamente approssima innovazione e progresso tecnico – è stata stagnante sin dal 1992, con anticipo di anni rispetto al crollo ciclico del 2008-2014, di conseguenza accentuandolo. In lunghe fasi la produttività totale dei fattori è addirittura diminuita: i produttori italiani – in media, fra apprezzabili eccezioni – sono riusciti nell’intrapresa, improbabile in un’economia capitalistica, di produrre di meno con le stesse risorse.
Quindi sono contemporaneamente crollate sia la domanda globale sia l’offerta globale: un disastro! La caduta è stata di simile entità, e quindi solo il caso ha evitato tanto l’inflazione quanto la deflazione dei prezzi.
Non mi diffondo sulla storia dettagliata e sulle diverse cause del disastro. Mi concentro su se e come può essere superato.
Affinché si ritrovi la via della crescita occorre il concorso sinergico di almeno sette sviluppi nella politica economica e istituzionale, interna ed europea: eventi che contemporaneamente sostengano la domanda globale e promuovano la produttività.

1. Il disavanzo di bilancio andrebbe azzerato, e quindi il debito pubblico bloccato. L’equilibrio non è lontano. Secondo il FMI il disavanzo è già sceso, anche al netto del ciclo, all’1,5% del prodotto: al disotto della media delle Major Advanced Economies (-3,3%) e segnatamente di Stati Uniti (-4,6%), Giappone (-4,0%), Regno Unito (-2,2%), sugli stessi valori di Francia e Canada. Come procedere? Occorrono una severa revisione, politica e non solo tecnica, delle spese correnti (trasferimenti vari, appalti e forniture, gonfiati da inefficienze, corruzione, sottoutilizzo del potere monopsonistico della PA); un colpo duro inferto all’evasione (secondo proposte quali quelle di Vincenzo Visco); il ritorno stesso alla crescita. La spesa pubblica aggredibile è dell’ordine del 15% del Pil (250 miliardi), l’evasione è da alcuni anni in aumento verso i 150 miliardi (9% del Pil). Da un quarto del prodotto, la classe politica dovrebbe poter ottenere i due punti percentuali necessari a pareggiare i conti pubblici. Potranno così evitarsi una rinnovata crisi del debito pubblico e un nuovo rialzo dei tassi d’interesse interni rispetto a livelli internazionali ed europei destinati ad aumentare dai bassi livelli degli ultimi anni.

2. Gli investimenti in opere pubbliche, in infrastrutture, costituiscono l’unica misura di bilancio capace di sostenere tanto la domanda quanto la produttività. In particolare il moltiplicatore della domanda è di circa 1,5, doppio rispetto al moltiplicatore dei consumi pubblici, dei trasferimenti, della detassazione. La ragione è che gli investimenti pubblici trascinano non solo i consumi, ma anche gli investimenti privati, resi convenienti dalle migliori infrastrutture e opere pubbliche. Sono da riportare dal 2 a oltre il 3% del Pil pianificandone per tempo la migliore attuazione secondo una precisa scala di priorità dettata da scelte politiche. Le priorità vanno infatti riferite sia alle esigenze dell’economia (domanda globale, produttività) sia alle esigenze della società civile (messa in sicurezza del territorio, sanità, istruzione, amministrazione, giustizia) e le due esigenze di rado coincidono. Gli investimenti pubblici in larga misura si autofinanziano. Dato il moltiplicatore, un punto di Pil per investimento pubblico ceteris paribus determinerebbe nel volgere di un biennio un incremento dell’1,5% del Pil e per questa via – assumendo una elasticità/reddito pari a circa 0,5 del saldo di bilancio rispetto al Pil – un maggior gettito e una riduzione di altre spese che compenserebbe per tre quarti l’uscita per l’investimento iniziale.

3. Il diritto dell’economia dev’essere ripensato in modo organico e ampiamente riscritto. L’ordinamento attuale appesantisce i costi del produrre e frena la produttività. Nel rispetto dell’art. 41 della Costituzione vanno posti al servizio delle imprese le branche del diritto societario (valorizzare la funzione imprenditoriale ben oltre l’art. 2082 cod. civ., l’istituto della trasformazione della veste giuridica delle imprese, l’exit più che la voice nelle società), fallimentare (stile Chapter 11 USA), amministrativo (accentramento della grande spesa e nuovo codice degli appalti), del processo civile (rapidità e certezza delle sentenze).

4. È cruciale promuovere la concorrenza, statica e soprattutto dinamica. Non è solo questione di un antitrust capace di contrastare posizioni dominanti e intese collusive. Come insegna Schumpeter, la concorrenza a colpi d’innovazioni ancor più della concorrenza attraverso i prezzi è il propellente della “distruzione creatrice”, della riallocazione delle risorse, quindi dello sviluppo delle economie di mercato.

5. Dev’essere avviata a correzione una distribuzione dei redditi, dei patrimoni e soprattutto delle opportunità individuali altamente sperequata. Al di là dei profili morali e d’equità, essa taglia fuori i cittadini svantaggiati dal contribuire al progresso anche economico del Paese, che per questa via ne risulta anzi frenato, specialmente al Sud.

6. Urge una strategia per il Sud. Essa non può che imperniarsi su una rinnovata dotazione delle infrastrutture, fisiche e immateriali. Sono drammaticamente carenti nel Mezzogiorno, con pesante svantaggio per i cittadini e per le imprese meridionali. Il moltiplicatore degli investimenti pubblici (1,9) è, non a caso, maggiore al Sud che nel resto d’Italia. Per il clima, per le bellezze naturali e il patrimonio artistico, per la sua storia il Sud d’Italia potrebbe proporsi come la Florida d’Europa se lo si dotasse delle migliori opportunità di turismo e soggiorno in particolare per gli europei meno giovani. Occorrerebbe che le splendide città del Meridione offrissero tutta la gamma dei necessari servizi: sanità, assistenza, sicurezza, trasporti facili sia urbani sia con le località di mare e di montagna, conferenze, luoghi di cultura, mostre, manifestazioni dalle musicali alle sportive. È, questo, non un problema, ma una straordinaria chance di avanzamento sia dell’economia sia della società dell’intero Paese.

7. Nell’Eurozona all’attuale rigore alla Hayek occorre sostituire il rigore alla Keynes: equilibrio di bilancio, sì, ma unito a investimenti pubblici utili e capaci di autofinanziarsi, anche ammettendo la golden rule per la parziale copertura con debito di quegli stessi investimenti. Il problema non è l’euro, ottima moneta che ha assicurato il bene prezioso della stabilità dei prezzi unita a bassi tassi d’interesse. Il problema è nel governo dell’economia dell’Euroarea, nell’impostazione di fondo della sua politica economica, a cominciare da quella tedesca. Dal 1999 al 2016 il Pil tedesco è progredito solo dell’1,4% l’anno, imponendo un ritmo di crescita altrettanto basso all’intera Euroarea. Ciò anche perché in Germania la dinamica della domanda interna (1,1% l’anno) è stata inferiore a quella del Pil. L’ha frenata il taglio del disavanzo e soprattutto degli investimenti pubblici. Il sostegno al Pil tedesco è quindi provenuto dalle esportazioni nette (+8% del Pil), a scapito della domanda globale negli altri paesi. Questo neomercantilismo si è tradotto in un attivo nella posizione netta verso l’estero della Germania giunto nel 2017 a sfiorare il 60% del Pil: 2000 miliardi di dollari, come la Cina, poco meno del Giappone. L’attivo conferisce alla Germania creditrice un enorme potere politico di condizionamento dei paesi debitori, in stridente contrasto con l’idea di un’unione europea tra pari. Il punto chiave analitico è che Keynes non è affatto lo spendaccione inflazionista considerato da chi l’ha studiato su mediocri manuali, non ha letto i suoi scritti o se li ha letti non li ha compresi. Keynes aborriva i disavanzi pubblici di parte corrente, lo “scavare le buche”, il debito dello Stato. Predicava investimenti pubblici, col bilancio in tendenziale equilibrio. Poneva un problema di composizione della spesa, un freno alle uscite correnti ovvero al limite maggiori imposte purché si effettuino buoni investimenti pubblici in infrastrutture.

Alcuni sostengono che l’economia italiana è destinata a un ineluttabile declino perché la popolazione ristagna, è invecchiata, invecchia. Gli ultra 65enni sono già il 22% del totale, 3 punti più dell’Europa. Limita, ciò, la crescita? Secondo me, no. È un’assoluta sciocchezza che una popolazione di anziani sia destinata solo per questo al ristagno o addirittura all’involuzione.
In una sessione della 26ma riunione annuale della Società Italiana degli Economisti guidata da Giorgio Fuà – i cui atti sono raccolti in G. Fuà (a cura di), Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, il Mulino, Bologna, 1986 – Sergio Ricossa sostenne la tesi secondo cui stazionarietà e invecchiamento della popolazione dischiudono prospettive di “crescita qualitativa, non quantitativa: incessante crescita qualitativa” (p. 55). L’idea è, ancora una volta, schumpeteriana. I bisogni degli anziani sono diversi da quelli dei giovani. Gli anziani consumano di più per alimenti, energia, sanità, abitazione, servizi domestici; consumano di meno per abbigliamento, tempo libero, trasporti. Inoltre il paniere dei consumi presenta un’alta varianza fra gli stessi anziani. La gamma va da chi, in salute, fa turismo a chi necessita della badante, di cure, di una casa di riposo, a chi è malato terminale. Muta, così, la composizione della domanda. Il suo mutare è il presupposto della distruzione creatrice, molla dello sviluppo se colta dalla imprenditorialità dei produttori. È l’analogo di un’innovazione, come il motore a vapore e a scoppio, l’elettricità, l’automobile, gli elettrodomestici, la ICT…
Ma, invecchiamento a parte, basteranno le sette “cose”, qualora si realizzassero come i governi di cui si parla in queste ore non sembrano orientati a fare cianciando di fuoruscita dall’euro, sgravi fiscali, flat tax, reddito di cittadinanza?
No. Le sette “cose” non basteranno se le imprese italiane continueranno – come è avvenuto a partire dal deprezzamento della lira nel 1992 – a non rispondere alla sfida, ad attendere facili guadagni dal cambio svilito, dal salario moderato, dai tassi d’interesse stracciati, dai trasferimenti pubblici, dall’evasione fiscale. È questa la ragione vera del ristagno tendenziale della produttività presso le nostre aziende, al di là delle piccole dimensioni e del controllo famigliare.
Le imprese devono ottenere che la politica, i governi, agiscano. Al tempo medesimo, devono ricercare il profitto al loro interno: l’accumulazione di capitale, la scala efficiente del produrre, l’innovazione, il progresso tecnico sono loro responsabilità. Nel Novecento, precluso il guadagno facile, l’hanno fatto in due occasioni: l’età giolittiana (Giolitti vietò ai carabinieri di sparare sui lavoratori, pareggiò il bilancio, tenne il cambio, limitò il protezionismo, contrastò rendite e monopoli) e il secondo dopoguerra (lo spettro del Mercato Comune d’Europa costrinse le imprese per sopravvivere a investimenti prossimi al 30% del Pil).
Smettano, le imprese italiane, di confidare in facilitazioni, sussidi, sgravi, spesa pubblica, bassi salari, folli uscite dall’euro, profitti facili. Decidano, finalmente, di contare in primo luogo su se stesse!

Note

1.  Questa è la traccia della lectio magistralis tenuta all’ISTAO di Ancona il 14 maggio 2018.