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Dalla legge generale ed astratta alla legge frantumata

di - 24 Aprile 2018
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1. – Il corpus legislativo italiano, come è del resto accaduto in molti altri Stati, ha vissuto una singolare evoluzione, che sembra vieppiù radicarsi nel sistema legge-amministrazione. Può sembrare, prima facie, che solo uno stile diverso, un nuovo linguaggio, sia maturato nella storia della legge. Ma la realtà è che guardando, semplicemente scorrendo con gli occhi gli articoli di quasi tutte le leggi, non si può neppur pensare prima facie, à vol d’oiseau, che la novità si esaurisca in un nuovo, innocuo, diverso stile, planato sulla legge. La sola complessità delle righe, per non parlare delle frasi, suscita stupore e preoccupazione.
Come tutti sanno, per un lungo periodo di tempo – si può parlare dell’arco temporale che va dalle prime legislazioni unitarie del 1865 a quelle dell’ultimo decennio del ventesimo secolo – le leggi si esprimevano tendenzialmente nella forma di prescrizioni generali, spesso anche astratte. Dettavano così le strutture giuridiche della societas e del suo ordinamento, secondo il principio della ripartizione dei poteri. Il Parlamento dettava le leggi, da cui discendeva il diritto; il Governo e le pubbliche amministrazioni – l’esecutivo – operavano, nel rispetto delle leggi; i giudici garantivano la giustizia, “attuando l’ordinamento”, come si amava dire, forse impropriamente.
In questo sistema c’era, e ancora faticosamente esiste, un complesso burocratico, pluriarticolato, si potrebbe dire. Questo complesso, diffuso su tutto il territorio nazionale con una vasta serie di strutture organizzative, centrali e periferiche, statali e lato sensu locali, aveva una funzione cruciale: valutare, e quindi prima studiare e poi decidere, per attuare o semplicemente far osservare la legge.
Un ruolo particolarmente impegnativo era la realizzazione di infrastrutture e di opere pubbliche di ogni tipo, ovviamente secondo quanto disposto dalle leggi. In termini elementari si può dire che, quando la legge disponeva o consentiva la realizzazione di certe opere, gli uffici tecnici avevano il compito di esaminare ed approvare i progetti relativi a tali opere, bandire e gestire le gare per l’affidamento dei lavori, seguirne e controllarne il corso. Come è evidente, il complesso di tecnici e di amministrativi aveva un ruolo rilevantissimo: valutava, criticava, approvava, decideva. Le leggi ordinarie, insomma, tendenzialmente onnicomprensive, disciplinavano tutti i comportamenti che le amministrazioni dovevano assolvere, per “attuare”, attraverso il controllo tecnico ed amministrativo sulle imprese, lo scopo di volta in volta perseguito.
Tutto ciò aveva un significato preciso. L’amministrazione, quale che essa fosse, poteva valersi in molti casi dei propri uffici tecnici, per definire direttamente un progetto o controllare quello proposto dall’impresa. L’amministrazione, quindi, poteva esercitare ed esercitava una serie di valutazioni e controlli di vario rango, ma tutti, necessariamente, in linea di principio volti al miglior risultato.
In breve: lo scenario complessivo era chiaro. La legge indirizzava le pubbliche amministrazioni, che, strutturate gerarchicamente, esercitavano i ruoli descritti e prescritti dalla legge in funzione delle loro competenze, utilizzando il personale al loro servizio. Esercitavano una funzione amministrativa, con maggiori o minori spazi di discrezionalità.

2. – È essenziale fermare l’attenzione sulla legge-chiave di questo sistema, la celebre legge sul procedimento amministrativo, del 7 agosto 1990, n. 241 e, soprattutto, sulla sua evoluzione.
Dai primi anni ’30 del secolo scorso – con maggiore o minore intensità, collegata alla legge austriaca sul procedimento amministrativo del 1875 –   in  Italia si discusse il tema del procedimento amministrativo, senza alcuna passione. La ragione è chiara: noi avevamo un giudice amministrativo straordinario, il Consiglio di Stato, che non poteva certo essere svilito o addirittura scavalcato da un qualche assetto procedimentale, concepito quale efficace strumento di regolazione del potere discrezionale.
È indubbio, comunque, che vi fosse una pressione culturale, volta a introdurre in Italia una struttura contraddittoria, vagamente paragiurisdizionale, del procedimento Nel 1990, nel volgere di pochi mesi, venne scritta, discussa ed approvata la prima legge sistematica del procedimento amministrativo. Era una legge semplice, di 31 articoli, leggera, se si può usare questo aggettivo, e chiara. Essa dettava norme che, rispetto ai tempi pregressi, definivano un assetto più equilibrato e più trasparente del rapporto amministrazione-cittadini. Introduceva l’obbligo generale di motivazione ed una nuova figura, il responsabile del procedimento; disegnava un percorso comune, nel quale il cittadino non giungeva ad affiancarsi all’amministrazione, ma certamente si trovava in un rapporto di vicinanza “ufficiale”, non quindi vagamente sospetta. In questa cornice l’amministrazione poteva assumere le proprie decisioni, possibilmente condivise. A tal fine l’art. 14 aveva introdotto una norma molto elegante e, prima facie, efficace[1]. Il primo comma, che introduceva la novità, disponeva che “Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici, coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indice di regola una conferenza di servizi”. Seguivano dettagli operativi ed una norma durissima al co. 3: si doveva considerare acquisito l’assenso dell’amministrazione che non avesse partecipato alla conferenza o fosse stata presente con rappresentanti privi di poteri, salvo che questa amministrazione non avesse comunicato il proprio motivato dissenso.
Tutto ciò era lineare e potenzialmente efficiente. Ma tre soli anni dopo venne approvata la prima legge che si occupò della conferenza dei servizi. Fu la l. 24 dicembre 1993, n. 537. Essa cominciò un autentico affollamento legislativo intorno alla conferenza, imperniato sull’art. 14, attraverso una decina di leggi, tra il 1993 ed il 2016. Individuare le modifiche all’art. 14 in tutte le loro disposizioni è molto difficile. E soprattutto difficilissimo è leggere le molteplici versioni dell’art. 14 (arricchito di un 14 bis, seguito da 14 ter, quater, quinquies). Salvo errore, il testo più recente dell’art. 14 è l’art. 1, co. 1 del d. l.vo 30 giugno 2016, n. 127.

3.- Si giunge così al tema centrale. È pacifico che la struttura letteraria originale della l. n. 241/1990 fosse mirata a dettare norme che si sarebbero dovute osservare nello svolgimento di qualsiasi attività, soggetta alla disciplina di merito di qualche legge. I funzionari, i cittadini che entravano in rapporto con le amministrazioni per una qualsiasi ragione, potevano – e dovevano – decidere come comportarsi per raggiungere un “risultato” cercato. Nella sua formulazione originaria, la legge sul procedimento tracciava e indicava i passaggi che si dovevano fare per raggiungere l’obiettivo, sia nel rispetto della legge, sia nei modi e nelle condizioni ritenute più consone all’ambiente ed allo scenario in cui il cittadino intendeva operare.
Chi aspirava a qualche cosa sapeva benissimo a che cosa andava incontro. Era un misto tra la scuola e il mercato: la scuola, perché non si potevano accettare illegittimità, ed era dunque necessario avere una piena conoscenza del fatto o dei fatti rilevanti per lo scopo cui si mirava; era mercato, perché quel che il cittadino desiderava fare era produrre e/o conquistare qualche cosa, in sintonia tra l’amministrazione ed il privato e viceversa.

Note

1.  Si v. F. Satta, Un istituto da cancellare: la conferenza di servizi, in questa rivista, 2017.

Pagine: 1 2


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