Dalla legge generale ed astratta alla legge frantumata

1. – Il corpus legislativo italiano, come è del resto accaduto in molti altri Stati, ha vissuto una singolare evoluzione, che sembra vieppiù radicarsi nel sistema legge-amministrazione. Può sembrare, prima facie, che solo uno stile diverso, un nuovo linguaggio, sia maturato nella storia della legge. Ma la realtà è che guardando, semplicemente scorrendo con gli occhi gli articoli di quasi tutte le leggi, non si può neppur pensare prima facie, à vol d’oiseau, che la novità si esaurisca in un nuovo, innocuo, diverso stile, planato sulla legge. La sola complessità delle righe, per non parlare delle frasi, suscita stupore e preoccupazione.
Come tutti sanno, per un lungo periodo di tempo – si può parlare dell’arco temporale che va dalle prime legislazioni unitarie del 1865 a quelle dell’ultimo decennio del ventesimo secolo – le leggi si esprimevano tendenzialmente nella forma di prescrizioni generali, spesso anche astratte. Dettavano così le strutture giuridiche della societas e del suo ordinamento, secondo il principio della ripartizione dei poteri. Il Parlamento dettava le leggi, da cui discendeva il diritto; il Governo e le pubbliche amministrazioni – l’esecutivo – operavano, nel rispetto delle leggi; i giudici garantivano la giustizia, “attuando l’ordinamento”, come si amava dire, forse impropriamente.
In questo sistema c’era, e ancora faticosamente esiste, un complesso burocratico, pluriarticolato, si potrebbe dire. Questo complesso, diffuso su tutto il territorio nazionale con una vasta serie di strutture organizzative, centrali e periferiche, statali e lato sensu locali, aveva una funzione cruciale: valutare, e quindi prima studiare e poi decidere, per attuare o semplicemente far osservare la legge.
Un ruolo particolarmente impegnativo era la realizzazione di infrastrutture e di opere pubbliche di ogni tipo, ovviamente secondo quanto disposto dalle leggi. In termini elementari si può dire che, quando la legge disponeva o consentiva la realizzazione di certe opere, gli uffici tecnici avevano il compito di esaminare ed approvare i progetti relativi a tali opere, bandire e gestire le gare per l’affidamento dei lavori, seguirne e controllarne il corso. Come è evidente, il complesso di tecnici e di amministrativi aveva un ruolo rilevantissimo: valutava, criticava, approvava, decideva. Le leggi ordinarie, insomma, tendenzialmente onnicomprensive, disciplinavano tutti i comportamenti che le amministrazioni dovevano assolvere, per “attuare”, attraverso il controllo tecnico ed amministrativo sulle imprese, lo scopo di volta in volta perseguito.
Tutto ciò aveva un significato preciso. L’amministrazione, quale che essa fosse, poteva valersi in molti casi dei propri uffici tecnici, per definire direttamente un progetto o controllare quello proposto dall’impresa. L’amministrazione, quindi, poteva esercitare ed esercitava una serie di valutazioni e controlli di vario rango, ma tutti, necessariamente, in linea di principio volti al miglior risultato.
In breve: lo scenario complessivo era chiaro. La legge indirizzava le pubbliche amministrazioni, che, strutturate gerarchicamente, esercitavano i ruoli descritti e prescritti dalla legge in funzione delle loro competenze, utilizzando il personale al loro servizio. Esercitavano una funzione amministrativa, con maggiori o minori spazi di discrezionalità.

2. – È essenziale fermare l’attenzione sulla legge-chiave di questo sistema, la celebre legge sul procedimento amministrativo, del 7 agosto 1990, n. 241 e, soprattutto, sulla sua evoluzione.
Dai primi anni ’30 del secolo scorso – con maggiore o minore intensità, collegata alla legge austriaca sul procedimento amministrativo del 1875 –   in  Italia si discusse il tema del procedimento amministrativo, senza alcuna passione. La ragione è chiara: noi avevamo un giudice amministrativo straordinario, il Consiglio di Stato, che non poteva certo essere svilito o addirittura scavalcato da un qualche assetto procedimentale, concepito quale efficace strumento di regolazione del potere discrezionale.
È indubbio, comunque, che vi fosse una pressione culturale, volta a introdurre in Italia una struttura contraddittoria, vagamente paragiurisdizionale, del procedimento Nel 1990, nel volgere di pochi mesi, venne scritta, discussa ed approvata la prima legge sistematica del procedimento amministrativo. Era una legge semplice, di 31 articoli, leggera, se si può usare questo aggettivo, e chiara. Essa dettava norme che, rispetto ai tempi pregressi, definivano un assetto più equilibrato e più trasparente del rapporto amministrazione-cittadini. Introduceva l’obbligo generale di motivazione ed una nuova figura, il responsabile del procedimento; disegnava un percorso comune, nel quale il cittadino non giungeva ad affiancarsi all’amministrazione, ma certamente si trovava in un rapporto di vicinanza “ufficiale”, non quindi vagamente sospetta. In questa cornice l’amministrazione poteva assumere le proprie decisioni, possibilmente condivise. A tal fine l’art. 14 aveva introdotto una norma molto elegante e, prima facie, efficace[1]. Il primo comma, che introduceva la novità, disponeva che “Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici, coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indice di regola una conferenza di servizi”. Seguivano dettagli operativi ed una norma durissima al co. 3: si doveva considerare acquisito l’assenso dell’amministrazione che non avesse partecipato alla conferenza o fosse stata presente con rappresentanti privi di poteri, salvo che questa amministrazione non avesse comunicato il proprio motivato dissenso.
Tutto ciò era lineare e potenzialmente efficiente. Ma tre soli anni dopo venne approvata la prima legge che si occupò della conferenza dei servizi. Fu la l. 24 dicembre 1993, n. 537. Essa cominciò un autentico affollamento legislativo intorno alla conferenza, imperniato sull’art. 14, attraverso una decina di leggi, tra il 1993 ed il 2016. Individuare le modifiche all’art. 14 in tutte le loro disposizioni è molto difficile. E soprattutto difficilissimo è leggere le molteplici versioni dell’art. 14 (arricchito di un 14 bis, seguito da 14 ter, quater, quinquies). Salvo errore, il testo più recente dell’art. 14 è l’art. 1, co. 1 del d. l.vo 30 giugno 2016, n. 127.

3.- Si giunge così al tema centrale. È pacifico che la struttura letteraria originale della l. n. 241/1990 fosse mirata a dettare norme che si sarebbero dovute osservare nello svolgimento di qualsiasi attività, soggetta alla disciplina di merito di qualche legge. I funzionari, i cittadini che entravano in rapporto con le amministrazioni per una qualsiasi ragione, potevano – e dovevano – decidere come comportarsi per raggiungere un “risultato” cercato. Nella sua formulazione originaria, la legge sul procedimento tracciava e indicava i passaggi che si dovevano fare per raggiungere l’obiettivo, sia nel rispetto della legge, sia nei modi e nelle condizioni ritenute più consone all’ambiente ed allo scenario in cui il cittadino intendeva operare.
Chi aspirava a qualche cosa sapeva benissimo a che cosa andava incontro. Era un misto tra la scuola e il mercato: la scuola, perché non si potevano accettare illegittimità, ed era dunque necessario avere una piena conoscenza del fatto o dei fatti rilevanti per lo scopo cui si mirava; era mercato, perché quel che il cittadino desiderava fare era produrre e/o conquistare qualche cosa, in sintonia tra l’amministrazione ed il privato e viceversa.

Era paradigmatica la formula originaria dell’art. 14, che disciplinava la conferenza dei servizi. Merita seguire brevemente il testo originario di questo articolo:
“Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”,  l’amministrazione indice una conferenza dei servizi. Questa è (era) la prima manifestazione di discrezionalità: in presenza di una pluralità di interessi, l’amministrazione non decide autonomamente, ma indice una conferenza con tutti gli stake holders, vale a dire con tutti coloro che avevano interesse, positivo o negativo, all’iniziativa. Si può ben dire che era una magnifica manifestazione di civiltà;
– Se un’amministrazione, ritualmente convocata, non partecipa alla conferenza (o partecipa irritualmente), si considera acquisito il consenso, salvo che, in tempi brevi (venti giorni), venga comunicato un motivato dissenso. Questo è (era) un altro puro esercizio della funzione e della discrezionalità;
– Il successivo art. 15 reca una disposizione precisissima, con una puntuale legittimazione all’esercizio della funzione amministrativa: “Le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”.

4. – Solo tre anni dopo, con la l. 24 dicembre 1993, n. 537, inizia lo stravolgimento, che dovrebbe aver raggiunto il vertice con il d.l.vo 30 giugno 2016, n. 127. All’art. 14 si aggiungono nel tempo gli art. 14 bis, ter, quater, quinquies. Essi non sono riassumibili, perché nel corso di circa 25 anni nel tessuto normativo sono stati ininterrottamente immessi passaggi di ordine procedimentale, che devono essere rispettati, senza che sia stato definito un momento, una fase, nella quale qualcuno ha il dovere e il diritto di affermare e prevalere. Certo nelle leggi si parla spesso del Consiglio dei Ministri come possibile luogo della decisione. Ma l’irrazionalità di caricare sul Consiglio dei Ministri materie e decisioni, che sono proprie delle amministrazioni, ha prevalso. L’idea è di fatto morta.
Chi dunque legga i cinque articoli 14 che, secondo l’intestazione del capo IV della legge sul procedimento amministrativo, dovrebbero dettare la “semplificazione dell’azione amministrativa”, incontra un terreno insidioso. Il primo comma dell’art. 14 delinea uno scenario fluido, se così si può dire: la conferenza di servizi istruttoria può essere indetta (a) dall’amministrazione procedente, anche su richiesta (b) di un’altra amministrazione coinvolta nel procedimento o (c) del privato interessato, “quando lo ritenga opportuno per effettuare un esame degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo” ovvero in più procedimenti amministrativi connessi, “riguardanti medesime attività o risultati”.
Il secondo comma introduce la conferenza di servizi decisoria. Lo scenario è complesso – ed equivoco. Dice la legge che questo tipo di conferenza è sempre indetto dall’amministrazione procedente quando la conclusione positiva del procedimento (sic) è subordinata all’acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta “o altri atti di assenso” e simili, resi da diverse amministrazioni. È molto singolare il seguito: quando l’attività del privato è subordinata a più atti di assenso da adottare a conclusione di distinti procedimenti, di competenza di diverse amministrazioni, la conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell’interessato, da una delle amministrazioni procedenti.
Questa norma non sembra chiara. Ma il terzo comma sembra peggiore. Introduce un nuovo tipo di conferenza. È la “conferenza preliminare finalizzata a indicare al richiedente, prima della presentazione di un’istanza o di un progetto definitivo, le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari concerti, nulla osta, autorizzazioni, concessioni o altri atti di assenso, comunque denominati”. La legge prosegue dettando alcune banali regole: l’amministrazione procedente deve decidere se accogliere o non accogliere la conferenza; segue un generico procedere, con diversi esiti.

5. – Non è il caso, né è questo il luogo in cui sezionare e ricomporre (“notomizzare”, si usava dire) i cinque art.14 della legge sul procedimento, tratti negli anni dalle limpide parole dell’art. 14 in veste originaria. Sono sufficienti alcune brevi considerazioni.
La prima è che queste conferenze non hanno un volto, né sono soggette ad un regime definito. Non è chiaro chi possa – e debba – farne parte; chi le possa convocare, quando, come, con quale finalità, con quali poteri. L’unica amministrazione che ha qualche cosa che si avvicina al potere di convocare la conferenza è l’amministrazione procedente. Ma nel testo della legge emerge senza parole, ma con non minore chiarezza, che un gran numero di amministrazioni può intervenire.
Ora, tutto si può dire. Ma se non si stabilisce chi deve fare che cosa, come e quando, evitando quei modelli di ordine che non sono molto lontani dalla sembianza di approssimazioni, in cui nessuno crede, resta una sola realtà: sono prospettate innumerevoli prese di posizione, passi avanti che retrocedono o si disallineano, senza raggiungere un risultato definitivo. Non si dimentichi che l’amministrazione procedente, l’amministrazione cioè che ha avviato e guida la procedura non ha alcun vero potere di decisione.

6. – Nasce qui l’effetto perverso della legge che, per ragioni oscure, vuole disciplinare ogni passo dell’agere pubblico nella forma della conferenza di servizi. C’è poco da dire e da discutere: nessuna legge che tocca la conferenza di servizi consente che qualche partecipante sia il dominus della procedura ed abbia il potere di decidere. Tra i vari passaggi emerge e domina la difficoltà di decidere.
Dunque, tendenzialmente non si riesce a fare ciò che si sarebbe voluto.
Ma c’è una soluzione. Se gli interessi in gioco sono sufficientemente alti, il Governo può affrontare il tema per le corna, come inelegantemente si dice. Può adottare un provvedimento amministrativo; se non vi è un sufficiente fondamento normativo per una decisione hinc inde voluta e contestata, può ricorrere al decreto legge, o inserire qualche norma in un altro procedimento legislativo. Certo è un punto: percorsi metagiuridici generano la decisione di realizzare qualche cosa – senza conferenze semplificate.

La conclusione è seria. Siamo di fronte ad un sistema senza legge, grazie alle soffocanti versioni della legge sul procedimento. Di fatto non sono utilizzabili (come l’esperienza mostra). Nessuno ha un vero potere, tutti possono intervenire e dire la loro
Ci deve porre una domanda. Che ruolo hanno più i cittadini che lavorano e che quindi operano anche per il pubblico? Vincono una gara, due gare e si affermano o ottengono questo risultato giocando nell’ombra – di qualche conferenza di servizi?

II

Quanto si è fin qui osservato merita qualche ulteriore osservazione. Si è portata in evidenza la trasformazione che i legislatori di quasi un trentennio hanno voluto dare ad un articolo, organico ed innovativo, della prima legge sistemica del procedimento amministrativo.

Ma il discorso non finisce qui. Una legge sul procedimento è intrinsecamente generale ed astratta: dovrebbe poter accogliere qualsiasi tipo di procedura, mirata all’adozione dei mezzi migliori per istruire, confrontare, valutare, scegliere e, naturalmente, decidere. Ma la tentazione di scavalcare una normativa ormai difficilissima – e, si dica pure, inutilmente difficilissima – per entrare con leggi ad hoc e nel merito di qualsiasi materia, è irresistibile. Le leggi si susseguono ininterrottamente nell’idea che ogni materia, ogni suo movimento, possa e debba essere disciplinato dalla legge.

È ragionevole pensare che uno dei temi più significativi sia il codice dei contratti pubblici, il d. l.vo 18 aprile 2016, n. 50. Un numero sterminato di ipotesi – di possibili casi – di questa industria sono sottomessi alla altrettanto sterminata e puntuale disciplina nella quale il legislatore ha ritenuto di poter racchiudere il flusso della vita. Come è ovvio, l’anelasticità è fonte di problemi e fughe senza fine.

Note

1.  Si v. F. Satta, Un istituto da cancellare: la conferenza di servizi, in questa rivista, 2017.