Imposta come home page     Aggiungi ai preferiti

 

Perché l’urbanistica non può condividere la teoria del consumo di suolo zero

di - 26 Luglio 2017
      Stampa Stampa      

A questo punto è venuto il momento di ricordare brevemente anche l’evoluzione storica della disciplina urbanistica. Questa è nata originariamente per controllare e gestire esclusivamente la crescita delle città e, solo successivamente, ha ampliato il proprio interesse alla gestione dell’intero territorio, costruito e non costruito. Gli studiosi hanno discusso a lungo su quando sia nata e oramai i più concordano che ciò possa essere individuato nel XVIII, il secolo dei lumi, quando la città occidentale iniziò a crescere sulla spinta dell’urbanesimo legato alla prima modernizzazione dell’economia[15]. E non è un caso che proprio in quel periodo nacque la citata teoria fisiocratica, teoria economica molto più articolata e ampia di quella attuale sul consumo di suolo, ma accomunate da forti connotati anti urbani.
Come noto però il periodo determinante per lo sviluppo dell’urbanistica moderna è l’800. Con la crescita delle città e delle capitali degli Stati nazionali l’amministrazione pubblica ha necessità di regole. E così anche in Italia i primi atti legislativi risalgono alla costruzione dell’unità d’Italia[16]. Infatti è nel 1865 che il Regno si dota di un importate ed efficace apparato normativo in questa materia, con il quale si è costruita l’Italia. Le norme avevano come obiettivo esclusivamente la gestione della crescita delle aree fabbricabili, con l’esclusione di tutte le altre parti. E così sono nati i primi strumenti urbanistici: i Regolamenti edilizi, i Piani regolatori dell’ingrandimento e livellazione, i Piani regolatori edilizi.
Ed è solo con la legge 1150 del 1942 che l’urbanistica, con l’introduzione del Piano Regolatore Generale, ha esteso il proprio dominio all’intero territorio comunale, urbanizzato, agricolo e naturale. Ovvero si è posta l’obiettivo di governare gli effetti spaziali dell’antropizzazione del territorio. Ampliando il proprio interesse dallo sviluppo dello spazio urbano a tutte le altre componenti territoriali, alle zone naturali e quelle antropizzate, compreso lo spazio agricolo.
Successivamente l’attenzione si è allargata, con la nascita dell’ecologia, ai problemi dell’ambiente. Per cui nei nuovi piani regolatori sono state introdotte norme tecniche e discipline per contenere la salvaguardia dei biotipi e del verde esistente, l’impermeabilizzazione dei suoli, lo sviluppo della bioarchitettura, ecc.
Parallelamente si è anche affermata la teoria della rendita fondiaria urbana basata sull’assunto molto bene sintetizzato nell’espressione “guadagno immeritato”, coniata negli anni ’60 da Aldo Natoli per denunciare le speculazioni edilizie romane. E che nel corso degli anni si è molto evoluta e ha portato, come noto, prima a piani urbanistici[17] e, successivamente, a provvedimenti legislativi[18] che prevedono la ridistribuzione della rendita fondiaria a favore dei comuni con il paradosso che il maggior beneficiario del guadagno immeritato possa essere il pubblico anziché il privato[19].
Oggi che le società occidentali (quelle orientali, come la Cina, hanno ben altri problemi), hanno completato il secondo o forse il terzo, ciclo di urbanesimo, anche la disciplina urbanistica ha ulteriormente rafforzato l’indirizzo a favore di uno sviluppo economico più equilibrato e rispettoso dell’ambiente. Puntando al contenimento dei consumi, al concetto di sostenibilità, e a quello di economia circolare: la crescita urbana, anche se sostenuta dalla nuova domanda sociale espressa dal fenomeno dell’immigrazione, è più lenta e disincentivata da politiche di recupero dell’esistente e di fiscalità urbana finalizzate alla crescita di investimenti per i servizi pubblici. Malgrado le continue aperture al possibile utilizzo dei contributi per far fronte alla crescita della spesa corrente dei comuni.
Ed è proprio contemporaneamente allo sviluppo di un apparato teorico, disciplinare e legislativo urbanistico progressivamente più ampio e complesso, che la teoria del consumo di suolo zero ha avuto degli esiti legislativi. Dove ha prevalso però l’impostazione a tutela dell’agricoltura, marginalizzando la componente ecologista e ambientalista tranne per ciò che riguarda la lotta ideologica alla c.d. “cementificazione”. Infatti l’obiettivo primario ed esplicito di tutte le leggi, come dicevamo precedentemente, è quello di contenere tout court l’economia urbana a favore di quella agricola, quantificando addirittura le quote annue di espansione delle aree di nuova urbanizzazione. A dimostrazione di ciò è il totale disinteresse nei confronti della trasformazione del territorio da naturale ad agricolo, o della realizzazione di colture industriali estensive e di serre che, oltre a distruggere il paesaggio, creano enormi danni ambientali. Fenomeno assai diffuso in alcune zone del nostro Paese, quale le serre del Sud della Sicilia, o della Liguria, dove enormi estensioni di territorio sono occupate da culture industriali intensive per la produzione di pomodorino, uva, e fiori.
Ed è così che il “consumo di suolo” ha avuto un consenso fortissimo nella società, nella politica e nelle istituzioni nazionali e internazionali. A tal punto da non poter essere neanche confutato, in quanto innalzato, da parte dei suoi sostenitori, a una sorta di mantra. Secondo il quale chi lo osteggia è, sulla base della teoria della rendita urbana, un fiancheggiatore della fame del mondo, della speculazione edilizia e della cementificazione. Quando in realtà è esattamente l’opposto.
Infatti nessuno riflette su come, e al di là della legittimità di rappresentanza degli interessi del settore agricolo, tale teoria abbia una portata politica conservatrice, illiberale e addirittura, per alcuni versi, autoritaria. E, non ultimo, contraria a preservare il territorio naturale.
Infatti non si può non considerare che la limitazione dello sviluppo spaziale delle città comporti degli effetti sociali ed economici negativi molto rilevanti. Probabilmente anche in presenza di azioni sicuramente auspicabili, quali le nuove leggi regionali sulla c.d. rigenerazione, che tenderebbero a favorire la densificazione, la trasformazione e il rinnovo edilizio della città esistente. Infatti la limitazione di nuove costruzioni in aree di espansione determina la crescita di fenomeni economici sperequativi e di contrazione della concorrenza. E ciò riguarda tutti i settori da quelli produttivi, quale il commercio, basta pensare alla grande distribuzione, agli alberghi, o al terziario. Ciò risulta particolarmente evidente nelle città e nelle parti di città dove sono più bassi i valori immobiliari, ovvero quasi tutte le città italiane tranne forse Milano e Roma. In quanto il recupero dell’esistente (brownfield) notevolmente più costoso del nuovo (greenfield), è conveniente solo in presenza di prezzi elevati. E quindi gli effetti delle politiche di contenimento dell’espansione urbana non solo determinano la crescita della rendita di posizione, con incremento dei valori delle aree urbanizzate e degli immobili esistenti, ma rischiano di ledere alcuni diritti fondamentali dell’uomo. Anche quelli garantiti dalla nostra Carta costituzionale, quale iI diritto di accesso alla casa e non solo per le fasce più deboli. Ma anche il diritto ad un abitare secondo standard e stili di vita contemporanei. Che significa avere abitazioni e quartieri più sicuri dal punto di vista sismico e idrogeologico, non energivori e dotati di servizi e attrezzature adeguati alle esigenze di vita moderna.
Lo sviluppo spaziale urbano è sempre stato una sorta di “camera di compensazione” della nuova domanda, e ha sempre riguardato sia le nuove esigenze dell’abitare – dalle case a basso costo (quali le case popolari) a quelle spontanee (dall’abusivismo ai campi rom) – ma anche le nuove forme di produttività, industriale, terziaria e commerciale.

Note

15.  Uno dei capisaldi di questa interpretazione fu il Convegno “Le macchine imperfette. Architettura, programma, istituzioni, nel XIX secolo” organizzato a Venezia nell’ottobre 1977 dal Dipartimento di analisi critica e storia dell’IUAV di Venezia, diretto da Manfredo Tafuri, i cui atti sono pubblicati in un testo omonimo, a cura di P. Morachiello e G. Teyssot da Officina edizioni nel 1980.

16.  Il primo atto legislativo avente riferimenti urbanistico-edilizi, fu la legge 20 marzo 1865, n. 2248 per l’unificazione amministrativa del Regno: nell’allegato A) prevedeva la facoltà per i Consigli Comunali di deliberare sui “regolamenti di igiene, edilità e polizia locale”. Il successivo Regolamento di attuazione di tale legge, il R.D. 8 giugno 1865, n. 2321 individuava come contenuto fondamentale del Regolamento Edilizio comunale “i Piani regolatori dell’ingrandimento e di livellazione, o di nuovi allineamenti delle vie, piazze o passeggiate”. Pochi giorni dopo fu emanata la legge 25 giugno 1865, n. 2359 sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità. Questa legge doveva costituire la disciplina fondamentale in campo urbanistico – edilizio, fino all’entrata in vigore della legge fondamentale dell’urbanistica del 1942. Le norme contenute negli artt. 1-86 disciplinavano l’esproprio per causa di pubblica utilità: venivano definiti i beni oggetto di esproprio “indispensabili all’esecuzione dell’opera pubblica” (art. 22), l’indennità di esproprio ad corrispondere al proprietario, che “consisterà nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita” (art.39).
Il titolo II, Capo VI artt. 86 – 92 disciplinava i Piani regolatori edilizi: tali piani erano facoltativi per i comuni aventi una popolazione superiore ai 10.000 abitanti. Riguardavano il centro abitato, o parte di esso, ed avevano la funzione di tracciare “ le linee ad osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici” (art. 86). Il Capo VII artt. 93 – 95 disciplinavano i Piani di ampliamento: questi, a differenza dei precedenti si riferivano ad un territorio non ancora edificato e sul quale si prevedeva una futura attività edilizia. L’approvazione di tali piani “equivale ad una dichiarazione di pubblica utilità, e potrà dar luogo alle espropriazioni delle proprietà nel medesimo comprese” (art. 92).

17.  Il più importante a tal riguardo è il nuovo PRG del Comune di Roma approvato nel 2008: Infatti all’art. Art.20. “Contributo straordinario di urbanizzazione” delle NTA si introduce un contributi straordinario stabilito in misura pari al 66,6% (due terzi) del valore immobiliare conseguibile dal progetto di valorizzazione immobiliare.

18.  Come noto il contributo straordinario ha avuto una legittimazione attraverso le modifiche al DPR 380/2001 (Testo Unico Edilizia) introdotte con il DL (cd. Sblocca cantieri) n. 133/2014.

19.  Sul contributo straordinario, in particolare applicato da Roma Capitale, si anche espressa recentemente la Corte Costituzionale che, ribaltando la posizione assunta dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 209 del 2017 lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo.

Pagine: 1 2 3


RICERCA

RICERCA AVANZATA


ApertaContrada.it Via Arenula, 29 – 00186 Roma – Tel: + 39 06 6990561 - Fax: +39 06 699191011 – Direttore Responsabile Filippo Satta - informativa privacy