Perché l’urbanistica non può condividere la teoria del consumo di suolo zero

Chi può essere favorevole a consumare, anzi, a sprecare una risorsa (anche se non propriamente limitata) quale il suolo o meglio, il territorio? Così come a rovinare il paesaggio o l’ambiente? Non certo l’urbanistica, la disciplina che cerca proprio di contemperare gli effetti spaziali di interessi economici contrapposti, espressi dalla società moderna. Ma ciò non significa condividere acriticamente la teoria del “consumo di suolo zero” e, ancor di più, i suoi esiti legislativi, e in particolare quelli regionali che sono già oggetto di contenzioso amministrativo con dubbi di costituzionalità sollevati dal Consiglio di Stato[1]. Vediamo perché.
Innanzitutto dobbiamo svelare una fake news: l’Unione Europea non ha approvato alcuna Direttiva che preveda l’obbligo del consumo di suolo zero al 2025, non ne avrebbe neanche le competenze. Ma ha elaborato alcuni studi[2] e atti di indirizzo[3] affinché gli Stati membri si adoperino per contenere l’antropizzazione del territorio e la sua impermeabilizzazione. E quindi non è certo questa la motivazione che può aver spinto il legislatore a promuovere i provvedimenti, sia statali che regionali in corso di discussione o approvati, ispirati da tale teoria. Ed è già da come si è sviluppato il dibattito parlamentare che ha accompagnato la formazione del DDL varato alla fine del 2016 dalla Camera[4], che si può comprendere come la questione si sia evoluta nel corso degli anni. Per capirne l’ispirazione basta confrontare il titolo attuale del DDL approvato, denominato “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” con quello originario del 2014, “Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo”. A dimostrazione di come il provvedimento fosse originariamente totalmente dettato da interessi economici settoriali, legati al mondo agricolo. E solo successivamente i suoi contenuti sono stati estesi ad altri obiettivi, sostenuti dai settori ambientalisti teorici della c.d. “cementificazione” o, più precisamente, della rendita fondiaria urbana. Fenomeno che paradossalmente invece, come mi accingo a dimostrare, sarebbe alimentato proprio dall’applicazione delle legislazioni restrittive sulla crescita urbana.
Il contenuto a favore dell’agricoltura del resto è stato anche confermato dalla stessa Chiara Braga, relatrice al DDL varato alla Camera[5], che in una recente intervista[6] ha dichiarato: “Il testo licenziato dalla Camera si è posto l’obiettivo di determinare e fissare dei limiti quantitativi al consumo di nuovo suolo agricolo, coerentemente con gli obiettivi europei, traendo ispirazione anche dalla legislazione di altri paesi. Insieme a questa precisa finalità, la legge si basa su un secondo pilastro fondamentale: spingere l’acceleratore sui processi di riuso del suolo edificato o comunque già “consumato”.
La questione dell’uso del suolo, concetto diverso da quello di territorio, iniziò a essere studiata dagli esperti fin dagli anni ’80. Con lo scopo di classificare le tipologie di utilizzazione della crosta terrestre (il suolo) da parte dell’uomo. Ne conseguirono una serie di studi e di riflessioni sulle modalità di classificazione con riferimento ai fenomeni di antropizzazione che portarono, intorno agli anni ’90, alla costruzione del sistema Corine Land Cover[7]: la banca europea sull’uso biofisico del suolo che oramai ha quattro versioni: 1990, 2000, 2006 e 2012. Il metodo di classificazione e di rilevazione su cui si fonda tale banca dati, sebbene presenti ancora oggi molte approssimazioni dovute alle difficoltà tecniche delle interpretazioni e delle rilevazioni satellitari, costituisce comunque una fonte per gli studi che molte istituzioni utilizzano al fine di mettere a punto le proprie politiche. E una delle prime che si sono attivate sul tema è la FAO che già nel 1998 sviluppò il tema de “la couverture biophysique de la surface des terres émergées“. E iniziò a porre il problema, in chiave di lotta alla fame nei paesi sottosviluppati, della necessità di preservare e ampliare le porzioni di territorio fertile, coltivato o meno. Altri studiosi affrontarono il tema concentrandosi sulla distinzione tra suolo naturale e antropizzato, definendo delle sottoclassificazioni e partendo dalla constatazione che talvolta il suolo fosse solo apparentemente naturale in quanto oggetto, nel passato, di interventi umani. Altri invece svilupparono l’idea che il problema del consumo debba essere interpretato in termini di reversibilità, secondo l’idea, del tutto teorica, che sia più facile tornare al naturale dall’agricolo che dall’urbanizzato. Malgrado che la reversibilità (riciclo) sia oramai estesamente applicata dall’industria delle costruzioni essendo contemplata da tutte le vigenti norme sull’edilizia e sui relativi materiali.
Gli studiosi, a seconda della disciplina e dei punti di vista, hanno iniziato così a valutare le trasformazioni d’uso della crosta terrestre. E si sono applicati per fare le prime valutazioni su quanto l’uomo abbia trasformato, o stia trasformando, il territorio naturale in agricolo o urbano. Il tutto però col permanere di fortissimi limiti sui metodi di analisi e sui sistemi di rilevazione dello stato della crosta terrestre[8], che sono stati confutati da molti esperti.
Ma la questione ha comunque iniziato ad assumere una valenza politica sulla spinta degli studi agronomici, che un po’ in tutta Europa si sono concentrati però solo sulla trasformazione dei terreni agricoli in terreni urbanizzati. Così, progressivamente, si è consolidata la teoria del consumo di suolo come oggi la conosciamo. Per esempio in Francia nel 2014 nacque l’Observatoire National de Consommation des Espaces Agricoles (ONCEA), con l’obiettivo di contrastare l’espansione urbana a favore della preservazione dello spazio agricolo, che poi successivamente il Governo francese trasformò in OENAF, ovvero Observatoire des Espaces Naturels, Agricoles et Forestiers, estendendo l’interesse alle aree forestali. In Italia è l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che, con il suo rapporto annuale sul consumo di suolo, cerca di misurare i cambiamenti. Ma già nella premessa del Rapporto 2017[9], l’ISPRA denota la propria posizione, affermando: “Il consumo di suolo è un fenomeno associato alla perdita di una risorsa ambientale fondamentale, dovuta all’occupazione di superficie originariamente agricola, naturale o semi naturale. Il fenomeno si riferisce, quindi, a un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative e infrastrutturali“. Anche in questo caso l’impostazione dello studio e, conseguentemente i risultati, si concentrano non tanto sulle modificazioni tra suolo naturale e antropizzato, ma sul fenomeno della crescita della città e in particolare delle loro aree periurbane (il c.d. sprawl) a discapito delle aree rurali, con il mal celato obiettivo di difendere il settore economico primario a discapito del secondario e del terziario, e assumendo connotati chiaramente ed esplicitamente contrari allo sviluppo spaziale delle città e, in quanto tali, pregiudizialmente anti urbani. Sviluppo che assume un’accezione negativa “a prescindere” dalle necessità specifiche territoriali e dalla corretta armonizzazione delle due componenti strutturali del territorio, quello naturale e quello antropizzato, in base all’opinabile criterio della reversibilità del territorio agricolo. Del resto le teorie anti urbane non sono una novità. Il passato ne è ricco, e la più nota è quella elaborata nel ‘700 dalla Fisiocrazia[10] (letteralmente “il dominio della natura”). Teoria economica che ebbe suo maggior esponente François Quesnay, che sosteneva che solo quella agricola fosse una economia sana, in quanto produttrice di un bene essenziale alla vita quale è il cibo. Posizione non molto distante tutto sommato e con le dovute differenze anche legate al contesto storico, da quella di molti attuali teorici del primato del settore agricolo, primo tra tutti il fondatore di Slow food, Carlo Petrini  [11]. Ma anche più recentemente  da varie fondazioni a favore della lotta alla fame nel modo, quale la Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition[12], presieduta da Guido Barilla, o il Milan Center for Food Law and Policy[13] presieduto da Livia Pomodoro. E infine non si può non citare l’associazione People4Soil[14], costituita da Legambiente, e di cui fanno parte altre associazioni europee, con l’obiettivo di promuovere a livello europeo iniziative a favore del consumo di suolo zero.

A questo punto è venuto il momento di ricordare brevemente anche l’evoluzione storica della disciplina urbanistica. Questa è nata originariamente per controllare e gestire esclusivamente la crescita delle città e, solo successivamente, ha ampliato il proprio interesse alla gestione dell’intero territorio, costruito e non costruito. Gli studiosi hanno discusso a lungo su quando sia nata e oramai i più concordano che ciò possa essere individuato nel XVIII, il secolo dei lumi, quando la città occidentale iniziò a crescere sulla spinta dell’urbanesimo legato alla prima modernizzazione dell’economia[15]. E non è un caso che proprio in quel periodo nacque la citata teoria fisiocratica, teoria economica molto più articolata e ampia di quella attuale sul consumo di suolo, ma accomunate da forti connotati anti urbani.
Come noto però il periodo determinante per lo sviluppo dell’urbanistica moderna è l’800. Con la crescita delle città e delle capitali degli Stati nazionali l’amministrazione pubblica ha necessità di regole. E così anche in Italia i primi atti legislativi risalgono alla costruzione dell’unità d’Italia[16]. Infatti è nel 1865 che il Regno si dota di un importate ed efficace apparato normativo in questa materia, con il quale si è costruita l’Italia. Le norme avevano come obiettivo esclusivamente la gestione della crescita delle aree fabbricabili, con l’esclusione di tutte le altre parti. E così sono nati i primi strumenti urbanistici: i Regolamenti edilizi, i Piani regolatori dell’ingrandimento e livellazione, i Piani regolatori edilizi.
Ed è solo con la legge 1150 del 1942 che l’urbanistica, con l’introduzione del Piano Regolatore Generale, ha esteso il proprio dominio all’intero territorio comunale, urbanizzato, agricolo e naturale. Ovvero si è posta l’obiettivo di governare gli effetti spaziali dell’antropizzazione del territorio. Ampliando il proprio interesse dallo sviluppo dello spazio urbano a tutte le altre componenti territoriali, alle zone naturali e quelle antropizzate, compreso lo spazio agricolo.
Successivamente l’attenzione si è allargata, con la nascita dell’ecologia, ai problemi dell’ambiente. Per cui nei nuovi piani regolatori sono state introdotte norme tecniche e discipline per contenere la salvaguardia dei biotipi e del verde esistente, l’impermeabilizzazione dei suoli, lo sviluppo della bioarchitettura, ecc.
Parallelamente si è anche affermata la teoria della rendita fondiaria urbana basata sull’assunto molto bene sintetizzato nell’espressione “guadagno immeritato”, coniata negli anni ’60 da Aldo Natoli per denunciare le speculazioni edilizie romane. E che nel corso degli anni si è molto evoluta e ha portato, come noto, prima a piani urbanistici[17] e, successivamente, a provvedimenti legislativi[18] che prevedono la ridistribuzione della rendita fondiaria a favore dei comuni con il paradosso che il maggior beneficiario del guadagno immeritato possa essere il pubblico anziché il privato[19].
Oggi che le società occidentali (quelle orientali, come la Cina, hanno ben altri problemi), hanno completato il secondo o forse il terzo, ciclo di urbanesimo, anche la disciplina urbanistica ha ulteriormente rafforzato l’indirizzo a favore di uno sviluppo economico più equilibrato e rispettoso dell’ambiente. Puntando al contenimento dei consumi, al concetto di sostenibilità, e a quello di economia circolare: la crescita urbana, anche se sostenuta dalla nuova domanda sociale espressa dal fenomeno dell’immigrazione, è più lenta e disincentivata da politiche di recupero dell’esistente e di fiscalità urbana finalizzate alla crescita di investimenti per i servizi pubblici. Malgrado le continue aperture al possibile utilizzo dei contributi per far fronte alla crescita della spesa corrente dei comuni.
Ed è proprio contemporaneamente allo sviluppo di un apparato teorico, disciplinare e legislativo urbanistico progressivamente più ampio e complesso, che la teoria del consumo di suolo zero ha avuto degli esiti legislativi. Dove ha prevalso però l’impostazione a tutela dell’agricoltura, marginalizzando la componente ecologista e ambientalista tranne per ciò che riguarda la lotta ideologica alla c.d. “cementificazione”. Infatti l’obiettivo primario ed esplicito di tutte le leggi, come dicevamo precedentemente, è quello di contenere tout court l’economia urbana a favore di quella agricola, quantificando addirittura le quote annue di espansione delle aree di nuova urbanizzazione. A dimostrazione di ciò è il totale disinteresse nei confronti della trasformazione del territorio da naturale ad agricolo, o della realizzazione di colture industriali estensive e di serre che, oltre a distruggere il paesaggio, creano enormi danni ambientali. Fenomeno assai diffuso in alcune zone del nostro Paese, quale le serre del Sud della Sicilia, o della Liguria, dove enormi estensioni di territorio sono occupate da culture industriali intensive per la produzione di pomodorino, uva, e fiori.
Ed è così che il “consumo di suolo” ha avuto un consenso fortissimo nella società, nella politica e nelle istituzioni nazionali e internazionali. A tal punto da non poter essere neanche confutato, in quanto innalzato, da parte dei suoi sostenitori, a una sorta di mantra. Secondo il quale chi lo osteggia è, sulla base della teoria della rendita urbana, un fiancheggiatore della fame del mondo, della speculazione edilizia e della cementificazione. Quando in realtà è esattamente l’opposto.
Infatti nessuno riflette su come, e al di là della legittimità di rappresentanza degli interessi del settore agricolo, tale teoria abbia una portata politica conservatrice, illiberale e addirittura, per alcuni versi, autoritaria. E, non ultimo, contraria a preservare il territorio naturale.
Infatti non si può non considerare che la limitazione dello sviluppo spaziale delle città comporti degli effetti sociali ed economici negativi molto rilevanti. Probabilmente anche in presenza di azioni sicuramente auspicabili, quali le nuove leggi regionali sulla c.d. rigenerazione, che tenderebbero a favorire la densificazione, la trasformazione e il rinnovo edilizio della città esistente. Infatti la limitazione di nuove costruzioni in aree di espansione determina la crescita di fenomeni economici sperequativi e di contrazione della concorrenza. E ciò riguarda tutti i settori da quelli produttivi, quale il commercio, basta pensare alla grande distribuzione, agli alberghi, o al terziario. Ciò risulta particolarmente evidente nelle città e nelle parti di città dove sono più bassi i valori immobiliari, ovvero quasi tutte le città italiane tranne forse Milano e Roma. In quanto il recupero dell’esistente (brownfield) notevolmente più costoso del nuovo (greenfield), è conveniente solo in presenza di prezzi elevati. E quindi gli effetti delle politiche di contenimento dell’espansione urbana non solo determinano la crescita della rendita di posizione, con incremento dei valori delle aree urbanizzate e degli immobili esistenti, ma rischiano di ledere alcuni diritti fondamentali dell’uomo. Anche quelli garantiti dalla nostra Carta costituzionale, quale iI diritto di accesso alla casa e non solo per le fasce più deboli. Ma anche il diritto ad un abitare secondo standard e stili di vita contemporanei. Che significa avere abitazioni e quartieri più sicuri dal punto di vista sismico e idrogeologico, non energivori e dotati di servizi e attrezzature adeguati alle esigenze di vita moderna.
Lo sviluppo spaziale urbano è sempre stato una sorta di “camera di compensazione” della nuova domanda, e ha sempre riguardato sia le nuove esigenze dell’abitare – dalle case a basso costo (quali le case popolari) a quelle spontanee (dall’abusivismo ai campi rom) – ma anche le nuove forme di produttività, industriale, terziaria e commerciale.

Infine qualche d’uno deve spiegarci come il territorio utilizzato dalle coltivazioni industrializzate possa essere considerato più permeabile e più facilmente reversibile di quello urbanizzato che, come noto, comporta una notevole dotazione di aree a verde ed ha un indice di copertura impermeabile molto inferiore rispetto a quello agricolo in cui sono messe a dimore le serre.


Foto aerea della zona con colture a serra lungo la fascia litoranea della provincia di Ragusa (Click per ingrandire)


Foto aerea di dettaglio delle serre lungo la fascia litoranea della provincia di Ragusa (Click per ingrandire)

Queste sono le ragioni per le quali un’urbanistica, ancor più che una politica, saggia e riflessiva, quella cioè che contemperi gli interessi tra spazio naturale e antropizzato, tra città e campagna, tra pubblico e privato, tra centro e periferia, tra ricchi e poveri, tra giovani e vecchie generazioni, non potrà mai condividere l’applicazione tout court del principio del consumo di suolo zero a prescindere dalla specificità territoriali, così come emerge nei provvedimenti legislativi nazionali e regionali.

Note

1.  Si tratta della Sentenza del TAR Lombardia n. 00047/2017 sull’applicazione dell’art. 5 della legge regionale della Lombardia 28 novembre 2014 n. 31 “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”, appellata dal Comune di Brescia e dall’ANCI al Consiglio di Stato che, pur accogliendo la richiesta di sospensiva, con l’ordinanza N. 01696/2017 avanza il sospetto di incostituzionalità della norma.

2.  Vedi: “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” Anno 2102 http://ec.europa.eu/environment/soil/pdf/guidelines/pub/soil_it.pdf
7° PAA – Programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020 “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta” Anno 2013 http://ec.europa.eu/environment/pubs/pdf/factsheets/7eap/it.pdf

3.  Cfr: UE Decisione n. 1386 del 2013 di approvazione del 7° PAA http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013D1386&from=IT

4.  Vedi: gli atti della Camera dei Deputati che hanno accompagnato la discussione il DDL
http://www.camera.it/leg17/126?tab=4&leg=17&idDocumento=2039&sede=&tipo=

5.  DDL N. 2039 approvato alla Camera dei deputati nel 2016 e attualmente in discussione al Senato http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/46877.pdf

6.  Il Giornale dell’Architettura 6 marzo 2017 “Intervista all’On. Chiara Braga, relatrice del DDL “Contenimento del consumo del suolo”
http://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2017/03/06/consumo-di-suolo-prospettive-possibilita-e-obbiettivi-del-ddl/

7.  La banca dati è gestita all’interno del progetto europeo “Copernicus Land Monitoring Service”.
http://land.copernicus.eu/about http://land.copernicus.eu/pan-european/corine-land-cover

8.  Cfr: Marco Eramo “Quella sola del suolo” Il Foglio del 22 Febbraio 2015 http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/02/22/news/quella-sola-del-suolo-81144/

9.  Cfr: Punto 2 della Premessa “Definizione di consumo di suolo e disegno di legge AS 2383″ Consumo di suolo, dinamiche territoriali  e servizi ecosistemici” ISPRA Anno 2017
http://www.isprambiente.gov.it/files2017/pubblicazioni/rapporto/RapportoConsumoSuolo2017_0615_web_light.pdf

10.  Vedi: Parte seconda CAP. III “Le grandi prese di posizione Quesnay e il movimento fisiocratico” in Pierre Dockès “Lo spazio nel pensiero economico dal XVI al XVIII secolo” Feltrinelli editore. Milano 1971

11.  Vedi: “Italia, record del cemento invasi tre milioni di ettari” di Carlo Petrini, La Repubblica 5 ottobre 2008. http://www.repubblica.it/2008/08/sezioni/ambiente/cemento-lungomare/record-cemento/record-cemento.html

12.  Vedi: https://www.barillacfn.com/it/

13.  Vedi: http://www.milanfoodlaw.org/?page_id=751&lang=en

14.  Vedi: https://www.people4soil.eu/it/about

15.  Uno dei capisaldi di questa interpretazione fu il Convegno “Le macchine imperfette. Architettura, programma, istituzioni, nel XIX secolo” organizzato a Venezia nell’ottobre 1977 dal Dipartimento di analisi critica e storia dell’IUAV di Venezia, diretto da Manfredo Tafuri, i cui atti sono pubblicati in un testo omonimo, a cura di P. Morachiello e G. Teyssot da Officina edizioni nel 1980.

16.  Il primo atto legislativo avente riferimenti urbanistico-edilizi, fu la legge 20 marzo 1865, n. 2248 per l’unificazione amministrativa del Regno: nell’allegato A) prevedeva la facoltà per i Consigli Comunali di deliberare sui “regolamenti di igiene, edilità e polizia locale”. Il successivo Regolamento di attuazione di tale legge, il R.D. 8 giugno 1865, n. 2321 individuava come contenuto fondamentale del Regolamento Edilizio comunale “i Piani regolatori dell’ingrandimento e di livellazione, o di nuovi allineamenti delle vie, piazze o passeggiate”. Pochi giorni dopo fu emanata la legge 25 giugno 1865, n. 2359 sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità. Questa legge doveva costituire la disciplina fondamentale in campo urbanistico – edilizio, fino all’entrata in vigore della legge fondamentale dell’urbanistica del 1942. Le norme contenute negli artt. 1-86 disciplinavano l’esproprio per causa di pubblica utilità: venivano definiti i beni oggetto di esproprio “indispensabili all’esecuzione dell’opera pubblica” (art. 22), l’indennità di esproprio ad corrispondere al proprietario, che “consisterà nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita” (art.39).
Il titolo II, Capo VI artt. 86 – 92 disciplinava i Piani regolatori edilizi: tali piani erano facoltativi per i comuni aventi una popolazione superiore ai 10.000 abitanti. Riguardavano il centro abitato, o parte di esso, ed avevano la funzione di tracciare “ le linee ad osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici” (art. 86). Il Capo VII artt. 93 – 95 disciplinavano i Piani di ampliamento: questi, a differenza dei precedenti si riferivano ad un territorio non ancora edificato e sul quale si prevedeva una futura attività edilizia. L’approvazione di tali piani “equivale ad una dichiarazione di pubblica utilità, e potrà dar luogo alle espropriazioni delle proprietà nel medesimo comprese” (art. 92).

17.  Il più importante a tal riguardo è il nuovo PRG del Comune di Roma approvato nel 2008: Infatti all’art. Art.20. “Contributo straordinario di urbanizzazione” delle NTA si introduce un contributi straordinario stabilito in misura pari al 66,6% (due terzi) del valore immobiliare conseguibile dal progetto di valorizzazione immobiliare.

18.  Come noto il contributo straordinario ha avuto una legittimazione attraverso le modifiche al DPR 380/2001 (Testo Unico Edilizia) introdotte con il DL (cd. Sblocca cantieri) n. 133/2014.

19.  Sul contributo straordinario, in particolare applicato da Roma Capitale, si anche espressa recentemente la Corte Costituzionale che, ribaltando la posizione assunta dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 209 del 2017 lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo.