Perché l’economia stenta a crescere. Il capitalismo digitale e dei servizi.
Per diversi decenni il pendolo della politica economica nei Paesi occidentali è oscillato tra due poli: da un lato verso la redistribuzione del reddito prodotto e una relativa condivisione dei rischi sotto l’egida della protezione sociale dello Stato; dall’altro, verso una crescente soggezione delle istituzioni e delle norme alle leggi del mercato, via via globalizzato. Si è verificato un ribilanciamento continuo, con diversa intensità nei diversi periodi e regioni del pianeta, per lo più in corrispondenza con le maggioranze politiche prevalenti. Ma è giunto il momento di riconoscere che le due istituzioni che hanno svolto un ruolo centrale in quel sistema, Stato e mercato, non sono più in grado di sintetizzare le funzioni del nuovo mondo: la trasformazione di inizio millennio ha reso obsoleta questa dinamica. Si devono trovare soluzioni diverse, mentre cresce l’urgenza di riconsiderare l’offerta di beni collettivi e di interesse generale
I beni comuni come grimaldello concettuale per spezzare il paradigna dominante
Da più parti si propone una visione cooperativa, per lo più incentrata sulla categoria dei «beni comuni», introdotti alla fine del secolo scorso da E. Ostrom, che per questo tema ottenne il Nobel (2009). La Ostrom, in realtà, si è concentrata sull’accesso a risorse naturali locali – i commons – e sulla loro gestione partecipativa per un utilizzo sostenibile nel lungo periodo. Ma la questione dei beni comuni apre a mio parere uno spiraglio per affrontare con una diversa visione i rapporti di scambio collettivi nelle relazioni delle economie liberali post-fordiste. Non potendo in questa sede approfondire l’analisi teorica del concetto di bene pubblico e bene comune nella disciplina economica, mi sia consentito rinviare a V. Termini, Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia stato-mercato (in P.L. Ciocca e I. Musu, Il Sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato, Luiss University Press, 2016). Tengo qui a sottolineare che la concezione dei beni comuni offre un grimaldello concettuale, cioè un elemento di rottura nei confronti del paradigma dominante ancora incentrato sulla sovranità del consumatore individuale e che il concetto di bene comune assume una dimensione identitaria nella fattispecie di beni non escludibili e rivali, poiché richiede la capacità dell’individuo di travalicare una visione strettamente individualistica, per concepirsi come parte di un insieme più ampio – nella dimensione sociale, ambientale, naturale – di cui condividere l’humus di riferimento, inteso come vincoli, obiettivi, modi di essere, risorse disponibili, all’interno del quale, naturalmente, il conflitto distributivo è sempre vivo (tra gli altri M. Sandel, What Money Can’t Buy. The Moral Limits of Markets, «The Tanner Lectures on Human Values», 1998 e What Money Can’t Buy, cit.; Deaton, La grande fuga, cit.; Acemoglu e Robinson, The rise and Decline, cit.).
La categoria dei beni comuni non è un concetto univoco, nelle diverse discipline. Si tratta di risorse naturali esauribili di cui tutelare l’uso sostenibile nel tempo, come prevale nella letteratura economica, oppure di diritti fondamentali della persona, come appare nella definizione giuridica. Comprende beni tangibili (le risorse naturali) o intangibili (la conoscenza o la condivisione di obiettivi sovrannazionali nella costruzione europea); locali (un pascolo, un lago per la pesca) o globali (la difesa dall’inquinamento atmosferico o dal riscaldamento del pianeta), (Termini, Beni comuni, beni pubblici, cit.).
La caratteristica fondamentale di questi beni, tuttavia, è la non osservanza del principio di sovranità del consumatore; si introduce cioè il concetto chiave che valori e priorità nei bisogni della comunità possano porre limiti alle scelte individuali. Con questo si propone un indirizzo di analisi economico politica, esemplificato in termini generali nel concetto di bene comune, dove il concetto di bene comune proposto è il risultato insieme di scelte politiche che attengono alla lungimiranza dei governanti e al prevalere di una ragione pubblica condivisa che si cristallizza nel tempo in percorsi istituzionali.
Il tratto fondamentale della “ragione pubblica” è la non osservanza del principio di sovranità del consumatore
Si tratta di un passaggio cruciale, attraverso il quale la disciplina economica reintroduce nella teoria una dimensione storica e i processi attraverso i quali si formano valori sociali condivisi. Due ingredienti sono indispensabili perché si avvii un percorso virtuoso di costruzione della «ragione pubblica» nelle società democratiche liberali occidentali: la leadership politica e una cultura diffusa della popolazione, che si costruisce e si stratifica nel tempo (secondo il processo di formazione e istruzione di tradizione gramsciana, ma anche confuciana).
In estrema sintesi, qui si propone un metodo e una concezione di bene comune che è fondata su un processo storico, frutto di mediazione tra interessi conflittuali, ed emerge dall’interazione di tre elementi costitutivi: la crescita e l’affermazione di una cultura radicata localmente, imperniata intorno alla definizione di bisogni e valori imprescindibili (bottom up); l’indirizzo politico di una leadership chiara nella definizione delle priorità (top down); e infine l’evoluzione delle istituzioni in cui questa cultura trovi forma e si sedimenti, fino a formare i fondamenti di una nuova ragione pubblica prevalente. Le democrazie scandinave offrono un esempio storico di questo percorso che si è radicato nel tempo e nelle istituzioni.
Per concludere, qualche cenno va riservato alla concezione dei beni comuni nei fondamenti culturali delle diverse forme assunte dal capitalismo: dalla democrazia liberale anglosassone che affida alle relazioni di mercato e all’individualismo utilitaristico un ruolo egemone, a quelle orientali, di tradizione confuciana, nelle quali la comunità (familiare, sociale, politica) fa perno sulle scelte dell’individuo, spesso anche a discapito dei diritti individuali. La visione contrattualistica, costruita sui fondamenti di Hobbes, Locke e dei loro epigoni, ha trovato i limiti del modello esasperati nella fragilità emersa con la crisi del 2007/2008 e nelle difficoltà della ripresa.
Molti elementi portano a evidenziare che tra le diverse forme che il capitalismo ha assunto, il modello sociale di mercato concepito in Europa potrebbe risultare il più consono a intraprendere un nuovo percorso per accompagnare le trasformazioni in atto nelle democrazie liberali. L’Europa è stata storicamente un laboratorio culturale teorico e attuativo di nuovi percorsi; non per caso è stata protagonista fin dagli anni Novanta dei negoziati globali per fermare l’inquinamento atmosferico e decarbonizzare l’economia a tutela delle generazioni future, oggi pensiero egemone nel percorso sinergico che combinerà la rivoluzione delle nuove fonti rinnovabili con quella digitale. Un’identità europea ricostruita può offrire le basi per il dialogo con altre culture, ponte tra un passato che si è consumato e che non è più e un futuro del quale non sono ancora chiari i processi e i protagonisti, ma che vede necessariamente il confronto e il dialogo con culture diverse, pena l’implosione del pianeta.
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