Perché l’economia stenta a crescere. Il capitalismo digitale e dei servizi.

Alla crescita economica il mondo occidentale deve la capacità di superare le crisi cicliche e i conflitti sociali che hanno caratterizzato il capitalismo industriale di mercato nei due secoli in cui esso ha prevalso nella storia dell’umanità. Dalla fine del secolo scorso, tuttavia, si è avviata una nuova trasformazione: l’economia della conoscenza digitale e dei servizi sembra mettere in discussione i fondamenti tradizionali della crescita economica e dell’occupazione e richiede nuove chiavi di lettura e di intervento. Il contemporaneo affermarsi dei cambiamenti radicali introdotti con la tecnologia digitale e la vittoria politica delle posizioni liberiste nelle società occidentali ha prodotto una discontinuità straordinaria nella dinamica della produzione e della distribuzione di merci e servizi, nell’organizzazione del lavoro e persino nella vita quotidiana dei cittadini nel mondo.
Ciò richiede naturalmente una sostanziale discontinuità di analisi rispetto al paradigma economico corrente, ancora fondato sui principi dell’individualismo utilitarista, sul predominio delle regole del mercato e sul dualismo Stato-mercato. Costringe anche a una drastica revisione del pendolo delle politiche, che ha bilanciato nel tempo ruolo e funzioni dello Stato e del mercato.
Ma come leggere il cambiamento e con quali strumenti concettuali estrapolare le azioni di possibile intervento?
Qui punto l’obiettivo su tre aspetti chiave, due analitici e uno di indirizzo politico-operativo, che consentono di costruire una visione d’insieme. In primo luogo spicca la caratteristica comune dei soggetti protagonisti del cambiamento, tutti percettori di rendite, i quali hanno lottato e vinto per imprimere la direzione attuale alle istituzioni, di fatto a tutela dei profitti di rendita, caratteristica fondamentale per spiegare larga parte dell’incepparsi della crescita; in secondo luogo rileva l’aumento del peso dei servizi nella produzione del reddito globale, che corrisponde ai cambiamenti introdotti con la rivoluzione digitale, ma anche all’urgenza, crescente e inevasa, di far fronte a una domanda di servizi di cittadinanza collettivi (istruzione, sanità, servizi pubblici di base), determinanti per garantire equità e protezione sociale, ma anche per creare condizioni di crescita di lungo periodo.
Quanto alle azioni di intervento, emerge chiaramente la necessità di identificare nuovi concetti e relazioni economiche – come la produzione di beni comuni e l’avvio di processi partecipativi per rispondere ai bisogni collettivi – intorno ai quali si possa ricostituire il tessuto connettivo della società in una visione funzionale alla ripresa della crescita, poiché la tradizionale dicotomia Stato-mercato non sembra più offrire una sintesi rappresentativa dell’insieme di processi e azioni di intervento nell’economia. Lo scopo è indirizzare la riflessione economica verso un diverso binario, con una struttura teorica più aderente ai bisogni imposti dalla nuova realtà, in un ragionamento di cui traccio di seguito le sequenze concettuali.

L’economia delle rendite non produce crescita economica, né benessere diffuso
La rendita, come è noto, non produce crescita economica, né benessere diffuso. Ma non è per nulla ovvio che sono proprio i grandi percettori di rendite, in settori chiave dell’economia, i protagonisti della trasformazione che alla fine del secolo scorso premono per introdurre nuovi istituti. Sono fautori di un liberismo deregolamentato, in apparenza a tutela del mercato, di fatto volto a rafforzare e proteggere le posizioni di rendita acquisite. L’egemonia di questi soggetti ha indotto un processo di correzioni incrementali e cumulative delle politiche e delle istituzioni che hanno assunto sempre più caratteristiche estrattive, con il supporto di una classe politica compiacente e talvolta collusa; fino a sfociare, oggi, in una architettura istituzionale del tutto sfavorevole alla crescita diffusa e partecipata.
I protagonisti del cambiamento appartengono a tre gruppi sociali diversi, dei quali si possono sintetizzare brevemente le caratteristiche comuni.

Il primo gruppo comprende quel piccolo nucleo di imprenditori globali che da quattro decenni opera sulla frontiera della conoscenza, creando grandi imprese innovative nel settore delle nuove tecnologie. Sono stati la principale forza propulsiva del nuovo corso che, in un primo tempo, hanno tratto vantaggio dall’assenza di regole globali, sfruttando per crescere le condizioni di minore costo, minore protezione del lavoro e diverse regole fiscali in vigore nelle regioni del pianeta; successivamente, tuttavia, hanno chiesto e ottenuto regole e istituti a protezione dei propri diritti di proprietà intellettuale, grazie ai quali hanno potuto estrarre rendite straordinarie. Infatti la nuova normativa sui diritti di proprietà, introdotta con il Bayh-Dole Act (1980) negli Stati Uniti, il cui ambito è stato esteso internazionalmente dalla World Trade Organization con i Trips (gli Accordi del 1994 sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), ha protetto le innovazioni prodotte da quelle imprese, anche se ottenute con finanziamenti largamente pubblici della ricerca di base. Il Governo americano ha così creato monopoli legali, proprio al contrario di quanto avvenne all’inizio del secolo scorso quando
Roosvelt  contrastò il potere di mercato dei monopoli naturali esistenti (nei trasporti, ferrovie, energia), con il Clayton Act e il Federal Trade Commission Act (1914), rafforzando lo Sherman Act del 1890.
In altri termini, le nuove norme hanno consentito a Google, Apple, Microsoft, Samsung e pochi altri di trarre profitti di rendita generati con monopolio legale; poiché la protezione dei diritti di proprietà, posta a monte della filiera produttiva, ha bloccato la concorrenza nella produzione e nella vendita dei nuovi prodotti, a discapito di una crescita industriale diffusa. In parallelo, la rivoluzione digitale si è tradotta, come effetto netto, in una riduzione strutturale dell’occupazione.
La privatizzazione della conoscenza nell’evoluzione istituzionale anglosassone, in concomitanza con la rivoluzione digitale nel campo delle comunicazioni, è dunque un evento di portata rivoluzionaria che richiama da vicino la recinzione delle terre a ridosso della prima rivoluzione industriale, anch’esse bene comune prima dell’enclosure. Ma le potenzialità di una nuova ondata di crescita industriale trovano oggi gli ostacoli istituzionali che ne impediscono lo sviluppo. (cfr. M. Mazzuccato, Lo Stato innovatore, trad. it. Laterza, 2013 e U. Pagano, The Crisis of Intellectual Monopoly Capitalism, «Cambridge Journal of Economics», agosto 2014, pp. 1-21).
Il secondo gruppo di protagonisti della svolta liberista comprende i grandi soggetti attivi sui mercati finanziari globali. Anch’essi hanno potuto estrarre larghe rendite dalle attività speculative, aiutati da un nuovo quadro di regole che si è evoluto a loro favore, a partire dagli Stati Uniti negli anni Novanta, gradualmente costruito da burocrati e politici spesso coinvolti nel processo. L’evoluzione delle forme assicurative negli Stati Uniti di fine secolo offre un esempio paradigmatico di questo processo, ma anche della fragilità economica introdotta con il sistema di finanziarizzazione del Welfare, affidato all’oligopolio privato di grandi intermediari finanziari, poi sfociato nella crisi finanziaria del 2007/2008. Non posso soffermarmi qui sull’insieme variegato dei soggetti che operano nei mercati finanziari, a vario titolo partecipi del processo. Mi limito a evidenziare il ruolo svolto dai grandi operatori della finanza nell’indirizzare politiche e istituzioni in una direzione che ha consentito il dispiegarsi dell’attività speculativa globale e l’appropriazione sempre più ristretta e non condivisa di rendite finanziarie. Basti ricordare l’abolizione nel 1999 del  Glass-Steagall Act, la legge bancaria (1933)che separava l’attività bancaria dall’ investment banking per contenere la speculazione e evitare il contagio all’economia reale.

Infine, nell’era in cui la crescita economica è ancora strettamente dipendente dall’uso di idrocarburi e fonti fossili di energia, un terzo gruppo di protagonisti della trasformazione è composto dai grandi soggetti che operano nel settore energetico, i quali hanno estratto rendite consistenti dai mercati oligopolistici del gas e del petrolio, a loro volta sostenuti dai governi. Le grandi compagnie del settore hanno mosso enormi flussi di capitali vaganti senza regole globali, aggiungendo strumenti alla speculazione finanziaria con un’elevata volatilità dei prezzi, funzionali alla speculazione ma di ostacolo al finanziamento di una produzione industriale diffusa. Inoltre, nei decenni di fine secolo, hanno offerto ai governanti dei rentier States, produttori di gas e petrolio, spazi economici di azione che hanno frenato lo sviluppo democratico di istituzioni locali propedeutiche a una crescita economica diffusa anche in quei Paesi, dalla regione del Mediterraneo meridionale al bacino mediorientale, dai paesi africani come Nigeria, Algeria, Libia, a Russia e Venezuela, alimentando autocrazie estrattive e militarizzate, impoverendo le popolazioni e contribuendo con la guerra civile a generare flussi migratori straordinari (L. Wenar, Blood Oil, Oxford University Press, 2016).
Ciò che più interessa, ai fini interpretativi, è che di fronte a una classe politica occidentale impreparata a indirizzare il cambiamento, questi grandi soggetti percettori di rendite hanno contribuito a scardinare gli istituti preesistenti per appropriarsi di profitti colossali nel breve periodo; hanno così indebolito strutturalmente le condizioni della crescita del mondo occidentale.
Le straordinarie disuguaglianze sociali sono il frutto anche di questa egemonia. Il disagio sociale acuisce i conflitti, ma una società frammentata che ha espulso larga parte della popolazione dal mondo del lavoro, al quale una parte consistente della popolazione giovanile non ha neppure avuto accesso (mentre in altre parti del mondo i bambini sono sfruttati fin da piccoli) non trova forme di rappresentanza collettiva. È difficile produrre coalizioni tra le forze sociali più colpite per contrastare gli effetti perversi di questo indirizzo. La frammentazione sociale non facilita la rappresentanza di interessi collettivi né la crescita di anticorpi, mentre la comunicazione diffusa attraverso internet – apparentemente coinvolgente e democratica – di fatto contribuisce al formarsi di una cultura fortemente individualistica e soprattutto carente e sostitutiva di luoghi di rappresentazione collettiva dei bisogni.

Crescono i servizi, ma i bisogni collettivi non trovano risposte adeguate
Un secondo elemento di rottura, infatti, riguarda la produzione di servizi, che ha acquisito nella composizione del reddito un peso superiore al 70% del valore aggiunto complessivo globale (dati World Bank 2015)
Da un lato i servizi hanno accompagnato la nuova organizzazione della filiera di produzione industriale, dall’altro sono stati chiamati a dare risposte alle domande pressanti della nuova compagine sociale. Insieme al peso della conoscenza nell’industria che, incorporata negli intangible assets, è stimata intorno all’84% del patrimonio complessivo delle grandi imprese dell’indice S&P 500, i servizi delineano le condizioni attuali di un capitalismo post-fordista.
Le cause della crescita dei servizi sono riconducibili all’evoluzione del settore manifatturiero, ai mutamenti demografici, alle condizioni di incertezza che hanno prodotto crescenti esigenze di protezione e, non da ultimo, al processo di finanziarizzazione delle economie (A. Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, trad. it. Il Mulino, 2015). Ma il fattore scatenante è da ricercare ancora una volta nella nuova traiettoria di sviluppo aperta con la rivoluzione tecnologica digitale. Per il mondo industriale, infatti, la crescita dei servizi è imputabile in larga parte alla esternalizzazione della loro produzione, avvenuta grazie al supporto delle tecnologie informatiche che ne hanno consentito la delocalizzazione, riducendo i costi di produzione e al contempo alterando profondamente le caratteristiche della filiera produttiva. Tuttavia la crescita dei servizi risponde anche ai nuovi bisogni emersi dalla trasformazione dell’organizzazione sociale: tra gli esempi spiccano l’invecchiamento della popolazione e la destrutturazione del nucleo familiare allargato, che ha richiesto un crescente affidamento a fonti esterne per i servizi di cura, cui si aggiungono l’allungamento della vita media e le nuove domande per la valorizzazione del tempo libero.

Le istituzioni pubbliche hanno avuto storicamente un ruolo centrale per assorbire gli shock del cambiamento (D. Acemoglu e J. Robinson, Perché le nazioni falliscono, trad. it. Il Saggiatore, 2013 e Id., The rise and Decline of General Laws of Capitalism, «Journal of Economic Perspectives», vol. XXIX, n. 1, 2015, pp. 3-28), ma quelle di fine Novecento stentano ad adeguarsi. La crisi fiscale dello Stato, in senso lato, indebolisce la capacità della risposta pubblica, mentre la politica di privatizzazioni che ne è conseguita favorisce la tendenza dei governi a delegare al mercato il soddisfacimento di bisogni collettivi, tra i quali rischiano di iscriversi servizi essenziali per la crescita di lungo periodo, quali l’istruzione, ma anche, in molti Paesi, la sanità, la previdenza, la ricerca di base; in altri termini l’insieme di quei servizi che Michael Walzer (Sfere di giustizia, trad. it. Laterza, 2008) definisce beni sociali e che sono determinanti per la crescita.
La situazione è resa più difficile dal perdurare della crisi economica, che aumenta la domanda di servizi per la protezione dal rischio, ma indebolisce la capacità dello Stato di offrire servizi pubblici ai cittadini e contribuisce a frammentare la rappresentanza sociale. In questo contesto, infatti, la popolazione abbiente costruisce la propria enclave di servizi, apparentemente basata su criteri di mercato, in realtà prodotti come beni di lusso per una élite sempre più ristretta, mentre la maggior parte della popolazione è depauperata dei servizi di cittadinanza essenziali. Per comprendere a fondo l’impatto devastante dell’estensione delle leggi del mercato oltre l’ambito dei rapporti commerciali e la loro forza nello spazzare via comportamenti e legami sociali di tipo solidaristico, resta fondante l’analisi storica di Karl Polanyi (La grande trasformazione, 1944, trad. it. Einaudi, 2000), ma numerosi esempi attuali si trovano nei contributi di Michael Sandel (What Money Can’t Buy, Farrar, Straus and Giroux, 2012) e Walzer (Sfere di giustizia, cit.).
La società dei servizi e della conoscenza digitale è dunque il punto da cui ripartire, anche per l’elaborazione teorica. Poiché l’esaurirsi del modello tradizionale industriale lascia un vuoto di interpretazione e di strumenti di intervento nella politica economica. Lo spazio, reso vuoto, di partecipazione e crescita, rende urgente la necessità di ricostruire un tessuto connettivo sociale ed economico, indispensabile anche perché si creino le condizioni per riattivare una crescita diffusa, il cui indebolimento contribuisce al malessere sociale e al pericolo di derive autoritarie. La risposta ai bisogni collettivi assume un ruolo centrale. In questa chiave, cresce il richiamo alla definizione di beni collettivi e beni pubblici comuni, secondo profili che tuttavia, per essere riconosciuti e diventare egemoni, richiedono la visione di una leadership politica, l’educazione civica dei cittadini e un supporto teorico che aiuti a interpretare e governare il cambiamento.

Per diversi decenni il pendolo della politica economica nei Paesi occidentali è oscillato tra due poli: da un lato verso la redistribuzione del reddito prodotto e una relativa condivisione dei rischi sotto l’egida della protezione sociale dello Stato; dall’altro, verso una crescente soggezione delle istituzioni e delle norme alle leggi del mercato, via via globalizzato. Si è verificato un ribilanciamento continuo, con diversa intensità nei diversi periodi e regioni del pianeta, per lo più in corrispondenza con le maggioranze politiche prevalenti. Ma è giunto il momento di riconoscere che le due istituzioni che hanno svolto un ruolo centrale in quel sistema, Stato e mercato, non sono più in grado di sintetizzare le funzioni del nuovo mondo: la trasformazione di inizio millennio ha reso obsoleta questa dinamica. Si devono trovare soluzioni diverse, mentre cresce l’urgenza di riconsiderare l’offerta di beni collettivi e di interesse generale

I beni comuni come grimaldello concettuale per spezzare il paradigna dominante
Da più parti si propone una visione cooperativa, per lo più incentrata sulla categoria dei «beni comuni», introdotti alla fine del secolo scorso da E. Ostrom, che per questo tema ottenne il Nobel (2009). La Ostrom, in realtà, si è concentrata sull’accesso a risorse naturali locali – i commons – e sulla loro gestione partecipativa per un utilizzo sostenibile nel lungo periodo. Ma la questione dei beni comuni apre a mio parere uno spiraglio per affrontare con una diversa visione i rapporti di scambio collettivi nelle relazioni delle economie liberali post-fordiste. Non potendo in questa sede approfondire l’analisi teorica del concetto di bene pubblico e bene comune nella disciplina economica, mi sia consentito rinviare a V. Termini, Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia stato-mercato (in P.L. Ciocca e I. Musu, Il Sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato, Luiss University Press, 2016). Tengo qui a sottolineare che la concezione dei beni comuni offre un grimaldello concettuale, cioè un elemento di rottura nei confronti del paradigma dominante ancora incentrato sulla sovranità del consumatore individuale e che il concetto di bene comune assume una dimensione identitaria nella fattispecie di beni non escludibili e rivali, poiché richiede la capacità dell’individuo di travalicare una visione strettamente individualistica, per concepirsi come parte di un insieme più ampio – nella dimensione sociale, ambientale, naturale – di cui condividere l’humus di riferimento, inteso come vincoli, obiettivi, modi di essere, risorse disponibili, all’interno del quale, naturalmente, il conflitto distributivo è sempre vivo (tra gli altri M. Sandel, What Money Can’t Buy. The Moral Limits of Markets, «The Tanner Lectures on Human Values», 1998 e What Money Can’t Buy, cit.; Deaton, La grande fuga, cit.; Acemoglu e Robinson, The rise and Decline, cit.).

La categoria dei beni comuni non è un concetto univoco, nelle diverse discipline. Si tratta di risorse naturali esauribili di cui tutelare l’uso sostenibile nel tempo, come prevale nella letteratura economica, oppure di diritti fondamentali della persona, come appare nella definizione giuridica. Comprende beni tangibili (le risorse naturali) o intangibili (la conoscenza o la condivisione di obiettivi sovrannazionali nella costruzione europea); locali (un pascolo, un lago per la pesca) o globali (la difesa dall’inquinamento atmosferico o dal riscaldamento del pianeta), (Termini, Beni comuni, beni pubblici, cit.).
La caratteristica fondamentale di questi beni, tuttavia, è la non osservanza del principio di sovranità del consumatore; si introduce cioè il concetto chiave che valori e priorità nei bisogni della comunità possano porre limiti alle scelte individuali. Con questo si propone un indirizzo di analisi economico politica, esemplificato in termini generali nel concetto di bene comune, dove il concetto di bene comune proposto è il risultato insieme di scelte politiche che attengono alla lungimiranza dei governanti e al prevalere di una ragione pubblica condivisa che si cristallizza nel tempo in percorsi istituzionali.

Il tratto fondamentale della “ragione pubblica” è la non osservanza del principio di sovranità del consumatore
Si tratta di un passaggio cruciale, attraverso il quale la disciplina economica reintroduce nella teoria una dimensione storica e i processi attraverso i quali si formano valori sociali condivisi. Due ingredienti sono indispensabili perché si avvii un percorso virtuoso di costruzione della «ragione pubblica» nelle società democratiche liberali occidentali: la leadership politica e una cultura diffusa della popolazione, che si costruisce e si stratifica nel tempo (secondo il processo di formazione e istruzione di tradizione gramsciana, ma anche confuciana).
In estrema sintesi, qui si propone un metodo e una concezione di bene comune che è fondata su un processo storico, frutto di mediazione tra interessi conflittuali, ed emerge dall’interazione di tre elementi costitutivi: la crescita e l’affermazione di una cultura radicata localmente, imperniata intorno alla definizione di bisogni e valori imprescindibili (bottom up); l’indirizzo politico di una leadership chiara nella definizione delle priorità (top down); e infine l’evoluzione delle istituzioni in cui questa cultura trovi forma e si sedimenti, fino a formare i fondamenti di una nuova ragione pubblica prevalente. Le democrazie scandinave offrono un esempio storico di questo percorso che si è radicato nel tempo e nelle istituzioni.

Per concludere, qualche cenno va riservato alla concezione dei beni comuni nei fondamenti culturali delle diverse forme assunte dal capitalismo: dalla democrazia liberale anglosassone che affida alle relazioni di mercato e all’individualismo utilitaristico un ruolo egemone, a quelle orientali, di tradizione confuciana, nelle quali la comunità (familiare, sociale, politica) fa perno sulle scelte dell’individuo, spesso anche a discapito dei diritti individuali. La visione contrattualistica, costruita sui fondamenti di Hobbes, Locke e dei loro epigoni, ha trovato i limiti del modello esasperati nella fragilità emersa con la crisi del 2007/2008 e nelle difficoltà della ripresa.
Molti elementi portano a evidenziare che tra le diverse forme che il capitalismo ha assunto, il modello sociale di mercato concepito in Europa potrebbe risultare il più consono a intraprendere un nuovo percorso per accompagnare le trasformazioni in atto nelle democrazie liberali. L’Europa è stata storicamente un laboratorio culturale teorico e attuativo di nuovi percorsi; non per caso è stata protagonista fin dagli anni Novanta dei negoziati globali per fermare l’inquinamento atmosferico e decarbonizzare l’economia a tutela delle generazioni future, oggi pensiero egemone nel percorso sinergico che combinerà la rivoluzione delle nuove fonti rinnovabili con quella digitale. Un’identità europea ricostruita può offrire le basi per il dialogo con altre culture, ponte tra un passato che si è consumato e che non è più e un futuro del quale non sono ancora chiari i processi e i protagonisti, ma che vede necessariamente il confronto e il dialogo con culture diverse, pena l’implosione del pianeta.

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