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“L’economia italiana: ripresa lenta, crescita nulla”

di - 22 Ottobre 2015
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Rinunciando a spesa in conto capitale e prelevando gettito da consumatori e risparmiatori il governo Renzi ha trasferito un punto di Pil a lavoratori e a imprese. Ha mantenuto invariato l’indebitamento netto della PA al 3% del Pil nel 2014 e mira a ridurlo quest’anno e nel 2016, probabilmente ancora limitando gli investimenti. Nel primo trimestre del 2015 si sono effettuati investimenti pubblici per 8 miliardi, rispetto ai 9 del I trimestre 2014 e agli 11 del primo trimestre 2011. La domanda non trae beneficio da una siffatta politica di bilancio. Così, non sarebbe espansivo della domanda contenere alcune uscite impiegando tuttavia quei danari per trasferimenti e per ridurre le tasse, sulla casa o su qualunque altro cespite: il de-moltiplicatore di quelle minore uscite e il moltiplicatore dei maggiori trasferimenti e delle minori imposte sono simili, dell’ordine dello 0,8 appena richiamato. L’effetto netto sarebbe quindi nullo.
La riforma dei rapporti di lavoro può essere variamente valutata nei suoi aspetti giuridici e sociali. Migliora la relazione inversa fra disoccupazione e salari, utile per contrastare un’inflazione da costi della quale tuttavia non c’è traccia. Ma ha ripercussioni di segno incerto, comunque non quantificabili, su ripresa e crescita.
I sussidi alle imprese affinché assumano personale sono inefficaci in assenza di positive prospettive di domanda. Se accrescono l’occupazione, ma a parità di produzione, delle due l’una: o le imprese, con più lavoro e lo stesso capitale, abbattono ulteriormente la produttività nell’immediato, ovvero riducono gli investimenti e lo stock di capitale frenando la domanda globale e la produttività di lungo periodo.

D
Non conoscendo il programma che si sta definendo, mi chiedo se il governo abbia l’intenzione di fare quattro cose, che considero cruciali.

1. Completare il riequilibrio del bilancio con una finalmente rigorosa spending review aprendo al tempo stesso lo spazio per tale via agli investimenti pubblici più idonei a sostenere la domanda e a favorire la produttività; sono persuaso che si possano risparmiare 20-30 miliardi, in particolare negli appalti e forniture di beni e servizi e nei trasferimenti a imprese ed enti.
2. Riscrivere secondo una visione d’assieme l’intero diritto dell’economia, ormai obsoleto: diritto societario, fallimentare, processuale, amministrativo, del risparmio, della concorrenza. E’ accertato, anche ecometricamente, che l’ordinamento giuridico esercita una forte influenza – per punti percentuali – sulla produttività.
3. Imporre – non solo con l’antitust – la concorrenza, in specie la concorrenza dinamica, senza la quale le imprese non sono stimolate a perseguire l’efficienza.
4. Correggere una distribuzione del reddito altamente sperequata incidendo sui più ricchi evasori fiscali. Quindi, volgere il gettito recuperato a lenire le povertà e a ridurre le aliquote su lavoratori, pensionati, aziende che non evadono.

E

Al di là delle mie modeste proposte, anche la migliore politica economica fallirà se le imprese italiane – il pulviscolo delle piccole (a bassissima produttività), le poche migliaia di medie (con buona produttività comparata), i pochissimi grandi gruppi rimasti (con bassa produttività comparata) – dovessero nell’insieme non rispondere, persistendo nell’attesa di un ritorno a profitti facili.
Nel 1992-2006, mentre la produttività scemava, furono realizzati profitti record. Lo furono grazie alla spesa pubblica a pioggia, all’evasione ed elusione fiscale, alla caduta del cambio, all’indebolirsi del sindacato. I profitti facili allontanarono per vent’anni le imprese dalla via maestra dell’investimento, della ricerca, del progresso tecnico.
Si deve sperare che i produttori italiani non si siano inguaribilmente disabituati dal percorrere la via maestra.
L’unica certezza, fondata sull’esperienza, è che le imprese non vanno accontentate quando, invece di aumentare la produttività, chiedono danari pubblici, privilegi, cambio svalutato, bassi salari. In un capitalismo pigro gli stimoli concorrenziali sono davvero essenziali.

F

Il contesto internazionale naturalmente rileva, anche se non è decisivo. I problemi italiani sono antichi [3], strutturali, quindi squisitamente interni. Risalgono almeno al crollo della lira del 1992-1995. Sono tali per quanto attiene sia alla produttività delle imprese sia alla politica dei governi. Cito due soli dati. Dal 2000 la produzione mondiale di manufatti è aumentata di un terzo, mentre quella italiana è diminuita di un terzo. Il debito della Repubblica non ha l’eguale al mondo fra i paesi avanzati, Giappone escluso.
Per la ripresa ciclica dell’economia italiana conta soprattutto il quadro europeo. Il 55% delle esportazioni italiane è orientato all’Europa, il 13% alla sola Germania. L’Europa cresce troppo poco. Il tono ciclico complessivo dell’Eurozona è dato dalla Germania. La Germania – al di là di Maastricht, del fiscal compact, di altre regole formali – rifugge da una politica di bilancio che sostenga la propria domanda effettiva. L’economia tedesca paga a questo orientamento di fondo prezzi alti, che chi governa sceglie di scaricare sulla società civile, la quale evidentemente accetta di sopportarli.
Il bilancio pubblico tedesco è in strutturale equilibrio e il rapporto debito pubblico/Pil in calo, mentre nel 2012-2015 l’economia è cresciuta meno dell’1% l’anno, un terzo del potenziale. Non c’è inflazione, semmai rischio di deflazione. La bilancia commerciale registra lo spaventoso avanzo di 250 miliardi di euro (8,5% del Pil); la condizione di competitività è fortissima; la posizione patrimoniale netta verso l’estero è già creditoria per il 40% del Pil. Nel sistema di Bretton Woods la Germania avrebbe dovuto rivalutare e soprattutto espandere la domanda interna. La domanda interna è invece aumentata meno del Pil.
La Germania sacrifica a questa politica di bilancio punti di reddito nazionale, cede all’estero attraverso l’avanzo commerciale enormi risorse reali altrimenti impiegabili all’interno, si espone alla pressione degli immigrati. Questi cercano in Germania, dove la disoccupazione è strutturalmente bassa, il lavoro che non trovano in Italia, Spagna, Francia, Grecia, le economie Mediterranee frenate anche dal fermo della “locomotiva” tedesca.
Devo escludere che il governo, la classe dirigente, gli economisti di Berlino ignorino questi costi economico-sociali, lampanti. Quindi la finalità perseguita non può che essere metaeconomica, politica. Forse di politica estera? Può la Cancelliera pensare che per la nazione tedesca essere creditrice significhi supremazia politica sul resto d’Europa? Non voglio ipotizzare che sui tedeschi pesi, più che la memoria dell’iperinflazione di Weimar, il ricordo della Germania asservita perchè debitrice dopo i due conflitti mondiali. Ma allora, perché questa politica economica economicamente assurda per la stessa Germania, il cui onere si estende all’intera Europa, all’Italia in particolare?
Al di là delle defatiganti schermaglie sui decimi di punto di Pil in più che Bruxelles consente, o non consente, al disavanzo pubblico di un partner come l’Italia, il nostro e altri governi dovrebbero una volta per tutte chiarire a che tipo di partenariato la Germania mira e chi è supposto guidare l’Eurozona. Sarebbe davvero grave se in Europa l’economia fosse subordinata alle finalità di politica estera di un solo paese…

Note

3.  Rinvio a scritti apparsi in tempi precedenti la crisi internazionale, reale e finanziaria, del 2008 di cui l’economia italiana, per le risalenti debolezze, ha più di ogni altra risentito, nonostante la tenuta del sistema bancario: P. Ciocca, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Bollati Boringhieri, Torino 2000, Cap. VIII; L’economia italiana: un problema di crescita, 44° Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti, Salerno 25 Ottobre 2003 (ristampato in P. Ciocca, Il tempo dell’economia. Strutture, fatti, interpreti del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 2004); Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino 2007, Cap.XII. Più di recente, cfr. P. Ciocca, Storia dell’IRI. L’IRI nella economia italiana, Laterza, Roma-Bari, 2014, Cap. X.

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