“L’economia italiana: ripresa lenta, crescita nulla”

L’economia italiana patisce da lustri due mali congiunti:
– domanda globale anemica
– stallo della produttività.
La bassa domanda globale frena la fuoruscita dalla recessione, la ripresa.
L’improduttività delle imprese nega la crescita di trend.
Ripresa e crescita vengono nei media spesso confuse. Sono invece da distinguere, pur nelle reciproche connessioni.

A

Dopo quella del 2008-2009, la nuova recessione inaugurata dal governo Monti alla fine del 2011 ha falciato il Pil del 5% nel 2012-2014: come nel 1929!
Tecnicamente, la recessione può dirsi finita nel primo semestre 2015, con risultati appena positivi dopo tre lunghi anni. Nondimeno, vi sono due “ma”.

a) La ripresa è lenta. L’incremento del Pil “acquisito” nei primi nove mesi è dello 0,7%, la previsione IMF è dello 0,8% per l’intero 2015, dell’1,3% per il 2016. La ripresa è lenta rispetto all’abisso in cui è piombata l’attività economica dopo il 2007: al punto di minima di fine 2014, Pil -10%, consumi -8%, investimenti -35%, capacità produttiva inutilizzata nell’industria 30%, disoccupazione fino al 13%. La depressione della domanda si è riflessa in un crollo delle quantità importate (-11%) nel 2012-2014, mentre le quantità esportate sono tornate sui livelli del 2007. E’ quindi emerso un surplus della bilancia dei pagamenti pari al 2 per cento del Pil, dopo gli strutturali disavanzi del decennio 2002-2012.
b) Oltre che lenta la ripresa è esposta a diversi motivi di fragilità, che invitano alla prudenza nello scontare un 2016 in netta accelerazione:
La ripresa è stata finora alimentata soprattutto da scorte (per l’80% nel primo semestre di quest’anno rispetto al primo semestre del 2014), la componente più volatile della domanda.
Non sarà agevolata da ulteriori cali del costo del danaro, del cambio dell’euro, del prezzo del petrolio. Il quantitative easing della Bce non stimola la domanda, nell’assenza di una politica fiscale europea espansiva. Con lo svilimento dell’euro che persegue rischia di eccitare svalutazioni competitive su scala mondiale (Cina docet).
La ripresa è frenata dal rischio di deflazione che la Bce non riesce a sventare, dopo essersela lasciata sfuggire allorchè fra luglio 2012 e settembre 2014 la base monetaria diminuì di un terzo[1]. L’indice dei prezzi al consumo – armonizzato, destagionalizzato e annualizzato – è calato in settembre del 2,1% sia nell’Eurozona sia in Italia.
Vi è un rischio “Volkswagen”, con riflessi europei e italiani.
Infine, la ripresa non è sostenuta come si potrebbe dalla politica di bilancio del governo.

B

Dalla domanda fiacca, passo a dire della non-crescita.
Nel capitalismo moderno la crescita di lungo periodo dipende fino al 70% dal progresso tecnico. Senza produttività, non c’è crescita sostenuta e sostenibile.
Preoccupano tre ordini di considerazioni concernenti l’economia italiana:
i. Il progresso tecnico, motore dello sviluppo vero, è da tempo spento. La produttività totale dei fattori è diminuita del 6-7% dai primi anni 2000. Minore prodotto con le medesime risorse è un assurdo italiano! Nella stessa manifattura la produttività oraria del lavoro ha ristagnato. E’ per questo che dal 2000 il CLUP manifatturiero è salito del 40%, rispetto al 15% in Francia e allo 0% in Germania.
ii. Sempre nella manifattura, il livello della produttività del lavoro italiano è inferiore del 25% a quello tedesco e a quello inglese.
iii. Essendo sussidiata dal governo, l’occupazione rischia di aumentare più del prodotto. Nel primo semestre è salita dello 0,8% rispetto allo stesso semestre del 2014, mentre il Pil è salito solo dello 0,4%. Ciò abbatte la produttività e il progresso di trend dell’economia.

C

La politica economica governativa potrebbe essere rafforzata e riorientata. Ciò sia per la domanda/ripresa sia per la produttività/crescita.

Su entrambi i fronti l’elemento chiave è rappresentato dagli investimenti pubblici (infrastrutture, sicurezza dei cittadini e del territorio, ricerca, scuola). Gli investimenti pubblici imprimono la più forte spinta alla domanda. In fasi di ristagno, oltre il primo anno il loro moltiplicatore della domanda globale può salire da 1,5 a 2 e nel medio termine fino a 3[2]. E’ molto maggiore del moltiplicatore – solo 0,8 – di consumi pubblici, trasferimenti e detassazione. Anche l’apporto, diretto e indiretto, delle infrastrutture alla produttività del sistema può essere notevole. E’ quindi deplorevole che da anni in Italia non siano state neppure manutenute le infrastrutture esistenti, per qualità del 40% inferiori a quelle degli altri paesi del G7. I governi Berlusconi-Tremonti avevano effettuato investimenti della PA mediamente pari al 3% del Pil, già al disotto del 3,5% che era stato toccato in precedenza. I governi Monti, Letta, Renzi hanno tagliato gli investimenti pubblici dal 2,8% del Pil nel 2011 al 2,2% nel 2014 e a una percentuale forse inferiore al 2% quest’anno. Questi ultimi tre governi hanno abbattuto le opere pubbliche a prezzi correnti del 20%: da 45 miliardi nel 2011 a 36 miliardi nel 2014. Se non lo avessero fatto il Pil, ceteris paribus, sarebbe oggi di quasi 30 miliardi più alto e il deficit di bilancio e il debito pubblico più bassi.

Rinunciando a spesa in conto capitale e prelevando gettito da consumatori e risparmiatori il governo Renzi ha trasferito un punto di Pil a lavoratori e a imprese. Ha mantenuto invariato l’indebitamento netto della PA al 3% del Pil nel 2014 e mira a ridurlo quest’anno e nel 2016, probabilmente ancora limitando gli investimenti. Nel primo trimestre del 2015 si sono effettuati investimenti pubblici per 8 miliardi, rispetto ai 9 del I trimestre 2014 e agli 11 del primo trimestre 2011. La domanda non trae beneficio da una siffatta politica di bilancio. Così, non sarebbe espansivo della domanda contenere alcune uscite impiegando tuttavia quei danari per trasferimenti e per ridurre le tasse, sulla casa o su qualunque altro cespite: il de-moltiplicatore di quelle minore uscite e il moltiplicatore dei maggiori trasferimenti e delle minori imposte sono simili, dell’ordine dello 0,8 appena richiamato. L’effetto netto sarebbe quindi nullo.
La riforma dei rapporti di lavoro può essere variamente valutata nei suoi aspetti giuridici e sociali. Migliora la relazione inversa fra disoccupazione e salari, utile per contrastare un’inflazione da costi della quale tuttavia non c’è traccia. Ma ha ripercussioni di segno incerto, comunque non quantificabili, su ripresa e crescita.
I sussidi alle imprese affinché assumano personale sono inefficaci in assenza di positive prospettive di domanda. Se accrescono l’occupazione, ma a parità di produzione, delle due l’una: o le imprese, con più lavoro e lo stesso capitale, abbattono ulteriormente la produttività nell’immediato, ovvero riducono gli investimenti e lo stock di capitale frenando la domanda globale e la produttività di lungo periodo.

D
Non conoscendo il programma che si sta definendo, mi chiedo se il governo abbia l’intenzione di fare quattro cose, che considero cruciali.

1. Completare il riequilibrio del bilancio con una finalmente rigorosa spending review aprendo al tempo stesso lo spazio per tale via agli investimenti pubblici più idonei a sostenere la domanda e a favorire la produttività; sono persuaso che si possano risparmiare 20-30 miliardi, in particolare negli appalti e forniture di beni e servizi e nei trasferimenti a imprese ed enti.
2. Riscrivere secondo una visione d’assieme l’intero diritto dell’economia, ormai obsoleto: diritto societario, fallimentare, processuale, amministrativo, del risparmio, della concorrenza. E’ accertato, anche ecometricamente, che l’ordinamento giuridico esercita una forte influenza – per punti percentuali – sulla produttività.
3. Imporre – non solo con l’antitust – la concorrenza, in specie la concorrenza dinamica, senza la quale le imprese non sono stimolate a perseguire l’efficienza.
4. Correggere una distribuzione del reddito altamente sperequata incidendo sui più ricchi evasori fiscali. Quindi, volgere il gettito recuperato a lenire le povertà e a ridurre le aliquote su lavoratori, pensionati, aziende che non evadono.

E

Al di là delle mie modeste proposte, anche la migliore politica economica fallirà se le imprese italiane – il pulviscolo delle piccole (a bassissima produttività), le poche migliaia di medie (con buona produttività comparata), i pochissimi grandi gruppi rimasti (con bassa produttività comparata) – dovessero nell’insieme non rispondere, persistendo nell’attesa di un ritorno a profitti facili.
Nel 1992-2006, mentre la produttività scemava, furono realizzati profitti record. Lo furono grazie alla spesa pubblica a pioggia, all’evasione ed elusione fiscale, alla caduta del cambio, all’indebolirsi del sindacato. I profitti facili allontanarono per vent’anni le imprese dalla via maestra dell’investimento, della ricerca, del progresso tecnico.
Si deve sperare che i produttori italiani non si siano inguaribilmente disabituati dal percorrere la via maestra.
L’unica certezza, fondata sull’esperienza, è che le imprese non vanno accontentate quando, invece di aumentare la produttività, chiedono danari pubblici, privilegi, cambio svalutato, bassi salari. In un capitalismo pigro gli stimoli concorrenziali sono davvero essenziali.

F

Il contesto internazionale naturalmente rileva, anche se non è decisivo. I problemi italiani sono antichi [3], strutturali, quindi squisitamente interni. Risalgono almeno al crollo della lira del 1992-1995. Sono tali per quanto attiene sia alla produttività delle imprese sia alla politica dei governi. Cito due soli dati. Dal 2000 la produzione mondiale di manufatti è aumentata di un terzo, mentre quella italiana è diminuita di un terzo. Il debito della Repubblica non ha l’eguale al mondo fra i paesi avanzati, Giappone escluso.
Per la ripresa ciclica dell’economia italiana conta soprattutto il quadro europeo. Il 55% delle esportazioni italiane è orientato all’Europa, il 13% alla sola Germania. L’Europa cresce troppo poco. Il tono ciclico complessivo dell’Eurozona è dato dalla Germania. La Germania – al di là di Maastricht, del fiscal compact, di altre regole formali – rifugge da una politica di bilancio che sostenga la propria domanda effettiva. L’economia tedesca paga a questo orientamento di fondo prezzi alti, che chi governa sceglie di scaricare sulla società civile, la quale evidentemente accetta di sopportarli.
Il bilancio pubblico tedesco è in strutturale equilibrio e il rapporto debito pubblico/Pil in calo, mentre nel 2012-2015 l’economia è cresciuta meno dell’1% l’anno, un terzo del potenziale. Non c’è inflazione, semmai rischio di deflazione. La bilancia commerciale registra lo spaventoso avanzo di 250 miliardi di euro (8,5% del Pil); la condizione di competitività è fortissima; la posizione patrimoniale netta verso l’estero è già creditoria per il 40% del Pil. Nel sistema di Bretton Woods la Germania avrebbe dovuto rivalutare e soprattutto espandere la domanda interna. La domanda interna è invece aumentata meno del Pil.
La Germania sacrifica a questa politica di bilancio punti di reddito nazionale, cede all’estero attraverso l’avanzo commerciale enormi risorse reali altrimenti impiegabili all’interno, si espone alla pressione degli immigrati. Questi cercano in Germania, dove la disoccupazione è strutturalmente bassa, il lavoro che non trovano in Italia, Spagna, Francia, Grecia, le economie Mediterranee frenate anche dal fermo della “locomotiva” tedesca.
Devo escludere che il governo, la classe dirigente, gli economisti di Berlino ignorino questi costi economico-sociali, lampanti. Quindi la finalità perseguita non può che essere metaeconomica, politica. Forse di politica estera? Può la Cancelliera pensare che per la nazione tedesca essere creditrice significhi supremazia politica sul resto d’Europa? Non voglio ipotizzare che sui tedeschi pesi, più che la memoria dell’iperinflazione di Weimar, il ricordo della Germania asservita perchè debitrice dopo i due conflitti mondiali. Ma allora, perché questa politica economica economicamente assurda per la stessa Germania, il cui onere si estende all’intera Europa, all’Italia in particolare?
Al di là delle defatiganti schermaglie sui decimi di punto di Pil in più che Bruxelles consente, o non consente, al disavanzo pubblico di un partner come l’Italia, il nostro e altri governi dovrebbero una volta per tutte chiarire a che tipo di partenariato la Germania mira e chi è supposto guidare l’Eurozona. Sarebbe davvero grave se in Europa l’economia fosse subordinata alle finalità di politica estera di un solo paese…

Note

1.  Sui limiti del central banking europeo rinvio a P. Ciocca, La banca che ci manca. Le banche centrali, l’Europa, l’instabilità del capitalismo, Donzelli, Roma 2014, ora anche nell’ampliata edizione inglese Stabilising Capitalism. A Greater Role for Central Banks, Palgrave Macmillan, London 2015.

2.  IMF, World Economic Outlook, Washington, October 2014, p. 82.

3.  Rinvio a scritti apparsi in tempi precedenti la crisi internazionale, reale e finanziaria, del 2008 di cui l’economia italiana, per le risalenti debolezze, ha più di ogni altra risentito, nonostante la tenuta del sistema bancario: P. Ciocca, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Bollati Boringhieri, Torino 2000, Cap. VIII; L’economia italiana: un problema di crescita, 44° Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti, Salerno 25 Ottobre 2003 (ristampato in P. Ciocca, Il tempo dell’economia. Strutture, fatti, interpreti del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 2004); Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino 2007, Cap.XII. Più di recente, cfr. P. Ciocca, Storia dell’IRI. L’IRI nella economia italiana, Laterza, Roma-Bari, 2014, Cap. X.