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Le sanzioni antitrust tra diritto amministrativo e diritto penale: la visione del penalista

di - 27 Maggio 2014
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Ma il quadro molto brevemente tratteggiato giustifica un abbandono di ogni interesse del penalista?
Riteniamo davvero che non siano ravvisabili contiguità di filosofia sanzionatoria tra il diritto penale e il diritto antitrust?
Sappiamo bene che questa sarebbe una conclusione affrettata, una prospettiva non appagante.
Ciò è dimostrato, credo, anche dall’attenzione che negli ultimi anni anche i penalisti – devo dire, con un po’ di ritardo rispetto alla riflessione di altri paesi – hanno cominciato a mostrare verso la materia antitrust, proprio stimolati dal tema delle sanzioni.
E non potrebbe che essere così, attesa la sempre più vasta attenzione – con ruoli talvolta “ortopedici” – del diritto amministrativo alle dinamiche del “mercato”.
L’esperienza di altri ordinamenti, come quello tedesco, ma anche la nostra (basti qui menzionare la fondamentale legge sull’illecito amministrativo depenalizzato del 1981 n. 689 e le recenti tendenze in tema di abusi di mercato), mostra come la sanzione amministrativa si presenti sempre più come strumento principe di lotta alla criminalità economica.
Si è venuto così a creare un universo sanzionatorio, altro sì dal penale tradizionale, ma che presenta una chiara matrice punitiva.
Anche qui testimonianza evidente è il sottosistema edificato dalla legge del 1981 e, in definitiva, venendo ai giorni nostri quello ideato dal d.lgs. 231 del 2001, mutuato e fortemente caratterizzato da principi e regole di ispirazione penalistica.
I recenti interventi della Corte europea dei diritti dell’Uomo – significativo il noto caso Menarini – richiamano del resto, al di là poi dell’esito specifico del singolo ricorso – all’esigenza di apprestare una lettura della ‘materia penale’ che si distacchi sempre più da etichette formali per incentrare invece l’attenzione sul carattere della sanzione, sulla sua severità, sulla finalità repressiva e generalpreventiva.
Questo vuol dire ripensare le modalità di intervento e ripensare il ruolo del diritto penale?
Non credo che la soluzione sia il ricorso allo strumento penalistico, al di fuori degli ambiti, come ho detto prima, da esso già occupati.
La sfida credo sia, al contrario, quella di assicurare un sistema che, pur con le necessarie diversità e gli opportuni adattamenti, offra, sul piano sostanziale e dell’accertamento, le garanzie che la natura afflittiva delle sanzioni impone.
Ritengo, infatti, vada superata l’idea secondo la quale il diritto penale e il suo apparato sanzionatorio debbano intervenire ogniqualvolta la sanzione civile o quella amministrativa non siano in grado di funzionare in modo efficiente.
Il diritto penale non può, in altri termini, essere chiamato svolgere un ruolo di supplenza verso gli altri segmenti punitivi né essere chiamato a regolare, progressivamente, sempre maggiori segmenti del diritto dell’economia.
Questo non è e non sarebbe un bene né per il diritto penale – che, al rarefarsi dei beni giuridici tutelati rischia di divenire “simbolico” – né per l’economia, che vedrebbe alterate le sue dinamiche fisiologiche, subendo un lento processo di burocratizzazione.

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Non più diritto penale, dunque, ma seria riflessione su quali possano essere dei validi strumenti di ausilio ad una efficace politica sanzionatoria che siano allo stesso tempo capaci di creare incentivi per le imprese.
Credo che, sulla scia delle riflessioni e delle esperienze in corso anche a livello europeo, si possa e debba ragionare sull’utilità di compliance programs, anche e soprattutto nella prospettiva di un riconoscimento di essi sul piano sanzionatorio.
In questo senso il modello normativo nazionale di cui al d.lgs. n. 231/2001, cui sopra facevo riferimento, costituisce – anche nel confronto con i modelli di “antitrust compliance” di altre esperienze – una utile base di confronto.
Credo, infatti, che i requisiti essenziali di una best practice aziendale in materia antitrust non si dovrebbero discostare molto da quelli che sono alla base di un modello di prevenzione dei “reati 231”.
Nessuna best practice aziendale, nessun modello di organizzazione, qualunque sia il perimetro che gli si intende assegnare possono, infatti, prescindere da un preliminare forte impegno dei vertici aziendali, da una seria mappatura dei rischi e da una conseguente identificazione di procedure adatte a minimizzare i rischi di disallineamenti. Il tutto, ovviamente, accompagnato da un training efficace del personale, da un rigoroso piano di audit e da un credibile apparato di sanzioni.

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Ma proprio l’ormai decennale esperienza in materia di responsabilità amministrativa di impresa ci insegna che il modello “preventivo” dei compliance programs risulta essere, nel tempo, sostenibile (per le imprese) e credibile (per l’ordinamento in generale) solo se l’approccio della Autorità (magistratura o autorità amministrativa) non è di “scettico rifiuto”.
Intendo dire che, ad oggi, nonostante gli sforzi che molte imprese hanno affrontato nella costruzione di modelli di prevenzione dei rischi “231”, la “risposta” della magistratura non è stata sempre “premiante”, assumendo anzi spesso atteggiamenti di chiusura.

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