Modificare la Costituzione?
Si va dicendo negli ultimi tempi che occorre intervenire sulla Costituzione, per aggiornarla, adeguarla ai tempi, in qualche modo renderla più moderna e attuale. Oggetto di questo intervento potrebbero o addirittura dovrebbero essere diverse norme. L’ipotesi più clamorosa ha riguardato l’art. 1, del quale si sarebbe voluto ritoccare il secondo comma, quello che attribuisce al popolo la sovranità. Si è poi parlato dell’art. 9, dicendo che l’ambiente meriterebbe di essere inserito tra i principi fondamentali, alla stessa stregua del paesaggio. Molto si è discusso dell’art. 41: si vorrebbe che fosse meglio scandita la libertà di iniziativa economica privata . Sembra poi oggi pressoché unanime il consenso per modificare l’art. 81 e dare rango costituzionale al principio che il bilancio dello Stato deve chiudere in pareggio.
Il fenomeno non è nuovo. È inutile ricordare che la seconda parte della Costituzione è stata oggetto di interventi molto profondi. Una legge costituzionale del 2005 la aveva completamente riscritta in un’ottica federalistica. Essa, approvata a maggioranza assoluta, ma senza raggiungere il quorum dei due terzi, fu sottoposta a referendum ex art. 138 Cost.. Non ne superò però il vaglio, perché tra il 25 ed il 26 giugno 2006 la maggioranza dei votanti (il 61,70%) su un’affluenza alle urne del 53,70% votò NO, così univocamente esprimendo la volontà di impedire l’entrata in vigore della riforma, e la frantumazione dell’Italia nel c.d. senso federale.
Negli anni erano state approvate altre riforme: da quella[1] che dettò le regole base di un nuovo modello di regionalismo – del tutto impropriamente chiamato “federalismo”[2] – a quella che intervenne sulla giurisdizione, affermando sì il diritto al giusto processo[3], senza per altro incidere né sulle giurisdizioni speciali[4], né sul ruolo della Cassazione, che dovrebbe essere il garante ultimo dei diritti, non già un affermatore di interpretazioni ed un regolatore della giurisdizione[5]. E questo, per non parlare dell’anomalia del ricorso in cassazione che ancora si può sempre proporre contro le misure restrittive della libertà personale[6], quando da anni esistono i Tribunali della libertà con questa funzione[7].
È innegabile però che il problema esista e sia difficile. È chiaro che la Costituzione non può essere eterna. Ma essa non è neppure una sorta di regolamento generale del Paese, che può essere modificato quando lo si ritiene opportuno. È il patto fondante della convivenza civile, di cui fissa i punti cardinali di riferimento. Spetta poi alla vita e all’ esperienza sociale, economica, giuridica – civile, appunto – sviluppare nel tempo le nuove regole per governare in concreto questa convivenza. Gli strumenti non mancano: dalla legge alla giurisprudenza, alla semplice prassi, per non parlare di quel meraviglioso fenomeno che è la consuetudine. In questo senso la Costituzione ha una propria, relativa eternità, perché dura quanto dura la convivenza per cui e con cui è nata. Si può ben dire che nasce, vive e muore con essa.
Basta pensare alla nostra storia. Dal 1861 al 1947 la Costituzione italiana è stata lo Statuto albertino: il quale non solo era la costituzione di un piccolo Stato regionale – ottriata, come si diceva, cioè concessa nel 1848 dal sovrano, e non conquistata –, ma fu anche tutto, tranne che una costituzione moderna. “La persona del Re è sacra e inviolabile” era l’incipit; non proprio nettissima era la separazione dei poteri: secondo l’art. 5, “al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare”; ma l’art. 3 diceva che “Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato, e quella dei deputati” (solo questa elettiva)[8]. Conquistata l’Italia sotto l’egida piemontese, lo Statuto albertino resse una vita pienamente democratica del Paese fino al 1922, quando, dopo la prima guerra mondiale, la dittatura fascista prese il sopravvento sulle istituzioni democratiche. Ma anche allora lo Statuto rimase la costituzione del Regno d’Italia, reso guscio di crisalide, se si vuole. Ben si può dire che il permanere della monarchia assicurò una continuità istituzionale, in un certo senso formale, ma continuità. Ci vollero la seconda guerra mondiale, una guerra civile ed infine il referendum espressosi a favore della forma repubblicana dello Stato perché, con la monarchia, cadesse anche lo Statuto albertino. In altri termini, solo la profonda discontinuità rispetto al passato, consumatasi tra il 1943 ed il 1946, travolse e confinò nella storia lo Statuto albertino.
Che la Costituzione sia capace di fungere da volano di continuità in un Paese che negli anni e nei decenni si evolve e muta, alter et idem, è dimostrato dalla partecipazione dell’ Italia all’Unione Europea. Come tutti sanno, con il Trattato di Roma del 1957, venne istituita la Comunità economica europea. Il tema è sterminato, ma tre esempi sono sufficienti per chiarire come la Costituzione abbia continuato ad essere il punto fondamentale di riferimento della nostra società in un mondo che mutava profondamente. Il Trattato dotava la Comunità di un sistema di fonti del diritto capace di prevalere sul nostro diritto interno con un giudice – la Corte di giustizia – autorizzato a sindacare la legittimità comunitaria delle nostre leggi. Il Trattato venne ratificato solo con legge ordinaria, non costituzionale, come la nuova permeabilità del nostro ordinamento ad un diritto esterno avrebbe richiesto[9]. In forza del Trattato il giudice italiano divenne così soggetto prioritariamente alla legge comunitaria, con il potere ed il dovere di disapplicare la legge interna in contrasto con il diritto comunitario: di disapplicare dunque quella legge, alla quale soltanto i giudici sono soggetti ex art. 109 Cost..
Il secondo esempio è l’art. 43 della nostra Costituzione. Esso prevede che la legge possa riservare originariamente o trasferire mediante espropriazione allo Stato, ad enti pubblici, o comunità di lavori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio. Il fatto di essere norma della Costituzione ha forse consentito all’art. 43 di resistere al Trattato di Roma che consente monopoli in situazioni assolutamente eccezionali ed esclude in radice la riserva di attività industriali allo Stato?
Si pensi poi all’ambiente. L’ambiente non è previsto nella Costituzione Italiana per la fortissima ragione storica che negli anni ’40 del secolo scorso la sola forma di ambiente nota era il paesaggio. Forse la sua mancata inclusione nella Costituzione ne ha diminuito la tutela? L’ambiente è diventato comunque un valore centrale nella società italiana, che, pur con mille difficoltà, si sta rendendo conto di quanto la vita di ciascuno di noi dipende dal modo di vivere degli altri.
Note
1. L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3.↑
2. Federali si nasce, non si diventa, come l’etimologia della parola insegna. Ex pluribus unum è l’antico detto. L’unum che diventa plures semplicemente si disgrega.↑
3. L. cost. 23 novembre 2001, n. 1↑
4. Che dovrebbero essere giurisdizioni specializzate, non speciali, quindi soggette al controllo della Cassazione quantomeno per le questioni relative a diritti: il risarcimento del danno nei rapporti con le pubbliche amministrazioni, anzitutto, riservato in larga misura al giudice amministrativo e, nelle materie di sua competenza, esclusivamente alla Corte dei conti.↑
7. L. 12 agosto 1982, n. 532.↑
8. Con la precisazione dell’art. 56 che “se un progetto di legge è stato rigettato da uno dei tre poteri legislativi, non potrà più essere riprodotto nella stessa sessione”.↑
9. Per giustificare questa limitazione di sovranità è stato invocato l’art. 11 Cost.. Esso certamente dispone che l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”. Questo poteva valere per la partecipazione alla NATO, e quindi per la presenza di forze armate straniere in Italia e italiane all’estero; non per l’adesione ad un Trattato che, per fini di sviluppo dell’economia e degli scambi, prevedeva una prevalenza delle sue leggi su quelle interne, ed il loro sindacato da parte del giudice del Trattato.↑
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