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La riforma bancaria e il rapporto Vickers

di - 29 Dicembre 2011
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In Europa, la banca universale si affermò, sotto l’aspetto regolamentare, più pienamente, ma a livello nazionale risentì della configurazione che, di fatto o per l’azione degli organi di vigilanza, i sistemi bancari avevano assunto nel corso del tempo. In Italia, la composizione dei bilanci bancari rimase orientata all’attività di prestito piuttosto che all’intermediazione in titoli. Il sistema bancario del Regno Unito fornisce un interessante caso, poiché ha le caratteristiche della banca universale europea, cioè senza l’adozione di una struttura di holding con diverse sussidiarie funzionalmente specializzate, ma con un’intensa attività nel mercato mobiliare e in derivati. Nel R.U., particolarmente dopo il Big Bang[6] del 1986, emerse invece una dicotomia tra un settore orientato al prestito a famiglie e piccole imprese (al dettaglio, retail), e un enorme settore di banche con complesse strutture, operanti anche sul piano internazionale e in prevalenza con grandi imprese (all’ingrosso, wholesale),e con ampia diversificazione funzionale, spesso controllate da case-madri americane.
In ogni caso, la costruzione di prodotti finanziari strutturati e di complessi prodotti derivati sembra essere rimasta una caratteristica delle grandi banche americane, mentre in Europa le banche sono apparse principalmente come acquirenti di prodotti generati negli S.U.
A seguito di tale evoluzione, la distinzione rilevata al paragrafo 1. si è opacizzata (blurred), particolarmente nei sistemi anglo-sassoni, con una crescita dei titoli negli attivi bancari e un notevole affidamento a strumenti di mercato, più che ai depositi, dal lato della raccolta. Nel 2007[7], nelle banche inglesi i titoli non azionari costituiscono il 34% dell’attivo (l’attività in derivati, ivi inclusa, occupa il 25% dell’attivo). Nelle banche americane essi costituiscono il 20%, ma occorre aver presente che l’attività in titoli ha luogo principalmente nelle banche d’investimento, spesso inserite nella stessa holding. E i bilanci di queste ultime sono saliti dall’1% del totale degli intermediari nel 1960 al 5% nel 2007. Nelle banche italiane il peso dei titoli non azionari è solo del 10%. I prestiti sono solo il 35% dell’attivo delle banche inglesi, ma il 61% in quelle italiane. L’elevata percentuale dei prestiti nelle banche commerciali americane, 68%, è fuorviante perché, ancora una volta, è trascurata l’attività in titoli di altri intermediari, nello stesso gruppo[8].
Dal lato del passivo, il ridotto ruolo dei depositi è assai visibile nei paesi anglo-sassoni. Nel 2007, negli S.U., i “veicoli” ad hoc costituiti (“issuers of asset-backed securities”, essenzialmente parte integrante del sistema bancario) sono per dimensioni pari a oltre il 50% delle banche commerciali. I depositi sono solo il 44% della raccolta[9]. In Italia, ne sono il 60%. Alta è, per converso, la raccolta, più volatile, meno vischiosa, sull’interbancario e tramite strumenti di mercato (obbligazioni, commercial paper): l’importo di questi è pari al 34% della raccolta nel R.U., al 39% negli S.U., solo al 18% in Italia[10]. Tali strumenti erano quasi inesistenti nel nostro primo anno d’osservazione, 1960.
In molti casi (ad esempio, nel fallimento dell’inglese Northern Rock, una banca di deposito specializzata in mutui immobiliari, nel 2007), si è riscontrato un funding gap, cioè un’eccedenza dei prestiti erogati sui depositi raccolti, essendo il gap coperto appunto con ricorso al mercato attraverso un proprio “veicolo”.
Nei tre paesi, queste tendenze si sono accompagnate a una forte espansione dei bilanci bancari, particolarmente accentuata nei primi anni 2000. Il rapporto fra questi e il rispettivo PIL è salito, tra il 1990 e il 2007, da 1 a 2,3 in Italia, da 2,2 a 6,6 nel R.U.[11]. Dato che negli S.U. la statistica delle sole banche è fuorviante, essendo esse parte di più ampie aggregazioni (holdings) come sopra s’è detto, si preferisce qui indicare il rapporto tra istituzioni finanziarie in genere e PIL, salito da 2,4 nel 1990 a 4,5 nel 2007: in tutti e tre i casi, si tratta di ascese storicamente senza precedenti.

3.    La crisi: debolezza degli attivi e volatilità della raccolta delle banche
Esula da questa nota l’intento di soffermarsi sulle motivazioni, profonde e prossime, della crisi finanziaria. I punti deboli della struttura finanziaria sono stati peraltro rinvenuti essenzialmente in due aspetti: nel subitaneo deprezzamento delle attività in titoli, in particolare dei titoli strutturati, la cui alta valutazione non ne rifletteva la rischiosità, e delle operazioni derivate su di essi costruite, ove il rischio di controparte è emerso particolarmente nel mercato dei CDS[12]; e nell’eccessivo affidamento al mercato interbancario e mobiliare dal lato della raccolta. Infatti, sono risultate particolarmente colpite dalla crisi le banche largamente attive nel mercato mobiliare dei titoli strutturati e nelle operazioni derivate, ma, d’altro lato, anche le banche retail che avevano fatto affidamento su una provvista di fondi diversa dai depositi, più volatile.
Il primo fattore ha costretto le banche, anche e soprattutto di investimento, a un precipitoso de-leveraging, proprio nel momento in cui l’affidamento al mercato si inaridiva. In America, le grandi banche d’investimento indipendenti, cioè non facenti parte di gruppi polifunzionali, hanno avvertito l’impossibilità di aver sostegno dalla sussidiaria bancaria o dal prestatore d’ultima istanza, finendo per fallire (Lehman), o per essere salvate da altri istituti con l’intervento pubblico (Merrill Lynch, Bear Stearns), o per trasformarsi in bank holding companies , così ottenendo accesso al credito d’ultima istanza (Goldman Sachs, Morgan Stanley).
Il secondo fattore ha fatto sì che la provvista venisse a cessare non appena fosse percepito il subitaneo indebolimento dell’attivo: la raccolta interbancaria non ha la vischiosità dei depositi.

Note

6.  Liberalizzazione del mercato mobiliare.

7.  Questo è l’anno in cui la bolla finanziaria raggiunge l’apice.

8.  Per le banche inglesi: Office for National Statistics, Blue Book 2010, p 152. Per quelle statunitensi: www.federalreserve.gov/Flow of Funds/Hstorical Data. Per le banche italiane: Banca d’Italia, Relazione annuale per il 2007, Appendice, p 152.

9.  Per gli S.U., la percentuale è calcolata sommando i passivi delle banche di deposito e dei loro “veicoli”, gli issuers of asset-backed securities. Vds www.federalreserve.gov/Flow of Funds/Historical Data.

10.  Vds. nota 8.

11.  Le statistiche bancarie del R.U. contabilizzano, diversamente da quelle italiane e americane, il valore dei prodotti derivati, che è imponente: nel 2007, il 25% circa del totale attivo. Ciò può spiegare almeno in parte la differenza rispetto agli indici di finanziarizzazione degli altri due paesi. Per tali indici: Roselli A., Financial Structures and Regulation. A Comparison of Crises in the UK, USA and Italy, Palgrave Macmillan, 2011, pp 145-149

12.  Credit Default Swaps: operazioni nelle quali l’acquirente protezione (ad es., una banca che eroga un prestito, o detiene un titolo) corrisponde una commissione al venditore di protezione (altra banca, società assicurativa, etc.), nel caso in cui si verifichi un “evento” negativo (fallimento del debitore, caduta del prezzo del titolo sotto un certo livello). In tal caso, il venditore di protezione corrisponderà l’importo “assicurato” (ad es., del prestito o del titolo) all’acquirente protezione (il rischio di controparte si concreta quando il primo soggetto non è in grado di corrispondere l’importo, come nel caso dell’assicuratrice americana AIG).

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