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“100 + 50”: crescita e stabilità nell’economia dell’Italia unita

di - 4 Ottobre 2011
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6. La moneta dell’Italia unita è risultata, nell’intero arco dei 150 anni, tendenzialmente debole. Una lira di Cavour equivale a circa 8000 lire, ovvero 4 euro, di oggi. Al tempo di Cavour bastavano poche lire per acquistare un dollaro, oggi ne occorrerebbero 1400.
Nonostante ciò l’Italia, povera quando si unificò, è attualmente ricca.
Evidentemente, se la crescita dell’economia italiana si è accompagnata a una moneta nel lunghissimo tempo debole, altre forze, favorevoli alla crescita, hanno prevalso sulla debolezza della moneta, sfavorevole alla crescita. Risparmio, capitale, lavoro, soprattutto efficienza e innovazione da parte delle imprese hanno sospinto lo sviluppo economico. Questo è stato particolarmente rapido quando si sono realizzate, insieme, quattro condizioni: finanza pubblica equilibrata, infrastrutture fisiche e giuridiche adeguate, concorrenza intensa, dinamismo d’impresa. A propria volta le quattro condizioni si sono poste allorché fattori extraeconomici – la cultura, la politica, le istituzioni – lo hanno consentito.
7. Ma il legame fra moneta e andamenti dell’economia riemerge, con segno alterno, se si considerano periodi di tempo meno lunghi della storia economica d’Italia.
La lira è stata forte in almeno due fasi, il 1873-1895 e il 1926-1936.
Tra il 1873 e il 1895 i prezzi all’ingrosso scesero del 25 per cento, quelli del grano del 40 per cento. Il tasso di cambio si apprezzò del 10 per cento. L’apprezzamento della lira si concentrò nel triennio 1881-1883. Allora, la fiducia tornò con il superamento del corso forzoso dopo che nel 1866 si era stati costretti da una crisi finanziaria internazionale e dalla terza guerra d’indipendenza a sospendere la convertibilità dei biglietti di banca in argento e in oro. Anche a causa del protezionismo doganale la produttività risultò deludente nello scorcio dell’Ottocento. Gli “anni più neri” di quel periodo, ricompresi fra il 1889 e il 1893, videro il crollo del sistema bancario. Su quelle rovine sorse la Banca d’Italia, operante dal 1894. Essa si unì quale istituto di emissione della carta-moneta al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, per essere poi, nel 1926, riconosciuta come unica banca centrale del Paese.
Nel 1926-36 il cambio si apprezzò follemente – del 70 per cento – per scelta politica di Mussolini. Ciò avvenne dopo il discorso di Pesaro del 18 agosto del 1926 con cui il Duce del fascismo intraprese quella che chiamò “la battaglia economica in difesa della lira”. Dal 1926 al 1934 alla sopravvalutazione della lira si unì una deflazione del 10 per cento l’anno dei prezzi all’ingrosso. Di nuovo, la produttività cessò di crescere. Inoltre, nei primi anni Trenta ebbe luogo la crisi industriale e bancaria più grave della nostra storia. Si riuscì solo a stento a evitare il fallimento di Banca Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma, di grandi imprese dell’industria “pesante”, della stessa Banca d’Italia. Furono necessari l’impegno massiccio di danaro pubblico – nella misura del 10 per cento del Pil del 1933 – e l’intervento dello Stato come industriale e come banchiere attraverso l’IRI. Beneduce e Menichella, ai vertici dell’IRI, sventarono una vera e propria Caporetto economica, con il pieno sostegno politico di Mussolini.
8. Le fasi in cui la moneta italiana è risultata drammaticamente debole sono state pur esse due, connesse con le guerre mondiali.
Nel 1914-1920 i prezzi all’ingrosso aumentarono di 6 volte, ossia del 30 per cento l’anno. Il cambio scemò da 5 a 20 lire per dollaro. Al di là dei quasi 700mila soldati morti nelle trincee, l’economia uscì dalla guerra trasformata, ma profondamente squilibrata, fragile. L’inflazione colpì duramente i percettori di redditi fissi. Erose stipendi e risparmi di impiegati, funzionari pubblici, professionisti, pensionati. Anche per questa ragione la piccola borghesia, la classe media, si schierò col fascismo, prima, con la dittatura, poi.
Nel 1940-1948 i prezzi all’ingrosso esplosero di circa 45 volte, ossia del 58 per cento l’anno. Il cambio precipitò da 20 a 576 lire per dollaro. Al di là dei quasi 500mila morti, metà dei quali fra la popolazione civile, molti italiani erano ridotti alla fame. Le condizioni sanitarie erano pietose, da Terzo Mondo. Un lavoratore su quattro era disoccupato o sottoccupato, con la produzione crollata nel 1945 al 60 per cento del livello prebellico. La maggioranza temette il social-comunismo, fino alle elezioni dell’aprile 1948.
La più forte inflazione italiana in tempi di pace ebbe invece luogo tra il 1968 e il 1996. Lungo quel trentennio i prezzi al consumo lievitarono di 13 volte, ossia dell’11 per cento l’anno. Il cambio declinò da 156 a 990 lire per marco tedesco. La crescita annua dell’economia rallentò, dal 5 per cento degli anni Sessanta al 2 per cento degli anni Novanta. Per designare il pessimo combinarsi di ristagno con inflazione venne coniata anche da noi l’orrenda parola “stagflazione”.
9. Che la moneta stabile sia preferibile agli estremi opposti della moneta forte e della moneta debole trova ulteriore riscontro in altre due fasi della storia italiana.
Nell’età “giolittiana” (1900-1913) e nell’età del “miracolo economico” (1950-1968) l’economia sperimentò la migliore delle combinazioni: prezzi in solo lieve aumento, cambio costante, crescita rapida della produzione e della produttività. La espansione annua del prodotto sfiorò il 3 per cento al tempo di Giolitti, il 6 per cento al tempo del “miracolo”. In entrambi i casi essa scaturì per circa due terzi dal progresso della produttività con cui lavoro e capitale vennero utilizzati dalle imprese, private e pubbliche (IRI, ENI, ENEL e altre). E’ in questi due sottoperiodi che si è soprattutto costruita la ricchezza di cui la società italiana tuttora beneficia.
10. Dopo il 1992, nonostante il sopravvenire dell’euro con la sua preziosa stabilità, l’economia italiana è tornata a ristagnare, soprattutto nella produttività, nella innovazione e nel progresso tecnico. Dal 2000 al 2008 la produttività totale dei fattori è addirittura diminuita, secondo i calcoli dell’Istat, prima di precipitare ciclicamente con la contrazione del 6 per cento del Pil legata alla crisi internazionale. Ciò conferma quanto si è già notato: una moneta stabile è fondamentale condizione necessaria, ma non anche sufficiente, di avanzamento del benessere materiale.
La produttività è ferma, a mio avviso, perché la finanza pubblica la mortifica; perché la inadeguatezza delle infrastrutture fisiche e giuridiche la ostacola; perché le imprese non sono sollecitate all’efficienza da forti e diffuse pressioni concorrenziali; perché le stesse imprese manifatturiere restano troppo piccole, sommerse, poco dinamiche, “piccole donne” che non crescono
Tutto ciò con la moneta ha poco a che fare. Preservare la stabilità dei prezzi è essenziale, e a questo mira il ritocco al rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla Banca Centrale Europea. Ma la ripresa ciclica dell’economia e il suo ritorno alla crescita dipenderanno dalla politica economica – inadeguata sinora – e soprattutto dalla capacità imprenditoriale – appannata sinora – che chi dirige le imprese saprà esprimere.

Link al video dell’intervento | http://www.youtube.com/watch?v=_WS0GpumGd4&feature=share

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