“100 + 50”: crescita e stabilità nell’economia dell’Italia unita

I – Gli italiani: da poveri a ricchi, per sempre?
1. Bisogna prendere le mosse … da Napoleone. Il Bonaparte piomba in Italia nel 1796. La conquista. Tassa e preleva. Ma unifica la penisola; fa infrastrutture; reprime il brigantaggio; promuove una pubblica amministrazione autoctona: Da un lato suona la sveglia a un popolo di maccaronai, come chiamava gli italiani. Dall’altro, con i Codici dà loro “leggi generali”, borghesi, in anticipo rispetto a una economia non ancora divenuta di mercato capitalistica. Giuseppe Bonaparte nel 1806 completa l’eversione giuridica della feudalità al Sud. Nell’Italia “francese”, dal 1801 al 1814 il Pil pro capite sale, del 10 per cento circa.
2. Ma con l’Italia ridivisa in 10 staterelli il trend di crescita si interrompe. Non solo Cavour, economista moderno, ma tutti i patrioti che avevano letto Smith e Ricardo ne comprendono la ragione: un’ Italia divisa sciupava commercio e vantaggi comparati, economie di scala, spesa pubblica. L’indipendenza dall’Austria, matrigna ottima amministratrice, era un ideale spirituale e civile ma anche di libertà economica. L’Unità, che l’Austria e il Papa impedivano, era una chiara opportunità di fuoruscita dalla arretratezza, dalla miseria. Ciro Menotti sacrifica la vita per l’indipendenza, ed era un imprenditore. Financo il primissimo Pio IX propone una lega doganale italica …
3. L’Italia del 1861 era miserrima, economicamente decaduta. Il suo reddito pro capite era ancora del 70 per cento superiore alla media mondiale: i resti dello splendore del Rinascimento! Ma era sceso a quasi 2/3 di quello del Quattrocento; era meno della metà di quello inglese, del 30 per cento inferiore alla media europea. Una famiglia su tre era sottonutrita; l’altezza media dei giovani di leva non superava 162 cm (173 in Inghilterra); la speranza di vita alla nascita era sui 30 anni (49 in Svezia); la stragrande maggioranza era analfabeta, gli studenti universitari non più di 6500; carestie, epidemie (tifo, colera), tumulti e saccheggi erano ricorrenti.
4. Stimiamo il prodotto pro capite dell’Italia unita nel 1861 in 1500 dollari (PPP) di oggi, 4 dollari al giorno. Erano 1500 dollari sia al Centro-nord sia al Sud, più o meno. La produttività del lavoro era identica, in media: un po’ più alta (10 per cento) nella agricoltura del meno densamente popolato Sud, un po’ più alta (10 per cento) nell’industria e nel terziario al Centro-nord.
5. Da allora a oggi si è compiuto un progresso straordinario, materiale e civile. Questo progresso, date le condizioni di partenza, trova rari eguali al mondo negli ultimi 150 anni. Si è fondato sul lavoro, che non a caso “fonda” l’Italia della Costituzione come repubblica democratica. Va sottolineato che sotto il suolo della Penisola non vi è nulla e sopra il suolo – per un terzo totalmente non coltivabile, improduttivo – assai poco. Il lavoro privato e pubblico – pensiamo a IRI ed ENI – ha saputo moltiplicare il reddito pro capite di ben 13 volte, da 1500 a 20000 dollari, per una popolazione quasi triplicata. Per confronto il reddito pro capite mondiale dal 1861 è cresciuto di 8 volte (da 800 dollari l’anno a 6500), quello dell’Europa occidentale di 10 volte: l’Italia ha staccato il Mondo e ha raggiunto l’Europa. La crescita è stata di 16 volte nel Centro-nord, da 1500 a 24000 dollari, davvero eccezionale. Ma è stata di 10 volte anche al Sud, da 1500 a 15000 dollari: nettamente superiore alla media mondiale, identica alla media europea. All’aumento del reddito si sono unite una condizione sanitaria sui picchi mondiali (81 anni di speranza di vita, e non solo), una sicurezza sociale invidiabile, una democrazia fra le più partecipate.
Quindi si può, si deve, non solo celebrare i 100 + 50, ma festeggiarli. L’Italia è uno dei paesi benestanti, fra i più ricchi al mondo.
6. Non c’era sostanziale divario territoriale di reddito pro capite, nel 1861 perché al Nord come nel Mezzogiorno erano tutti egualmente poveri, in una eguaglianza della miseria. Oggi, il reddito pro capite del Sud è il 60 per cento di quello del resto d’Italia. L’economia di mercato genera ed esalta le disparità. Il Pil pro capite del Mississipi, o dell’Utah, o del Montana è la metà di quelli del District of Columbia e del Connecticut. La disparità regionale italiana è sui livelli inglesi, francesi, belgi. Noi abbiamo il Sud, loro, rispettivamente, il North-east, il Midi, la Vallonia. Soprattutto, lo sviluppo economico del Sud d’Italia va considerato alla luce del suo basso potenziale nel 1861: lontananza, non solo fisica, dal cuore dell’Europa; analfabetismo all’80/90 per cento; nucleo di imprese industriali private molto ristretto; rispetto della legge ai minimi del vivere civile; brigantaggio. Il brigantaggio costò, secondo le mie stime, 20000 morti – tre volte i caduti nelle guerre di indipendenza – e il blocco totale dell’economia del Sud continentale per dieci anni. Vide giusto Stefano Jacini: “Mentre infieriva il brigantaggio nelle provincie meridionali, e vi mancava ogni sicurezza di persone e cose, come sarebbe stato ragionevole pretendere che quella parte d’Italia si dedicasse al progresso agrario?”
7. Nondimeno, se invece che nel 2011 avessimo celebrato il centocinquantenario … nel 1991, avremmo potuto festeggiare molto più lietamente. Dal 1992 la crescita ha dapprima rallentato, poi si è pressoché arrestata. Ciò che è più grave, si è inceppato il motore dello sviluppo: la produttività, il progresso tecnico, l’innovazione. Nell’ultimo decennio la produttività è addirittura diminuita in valore assoluto: con le stesse risorse, le imprese italiane producono meno di dieci anni fa! Ciò non era mai accaduto in una grande, industrializzata economia di mercato capitalistica. Per questo il Pil langue, l’occupazione è precaria, la finanza pubblica incorreggibile, i conti con l’estero passivi, la classe politica stralunata. Il benessere degli italiani è a un bivio: ricchi per sempre? Occorrono un “perché” e un “che fare?”, una analisi e una via d’uscita.
La storia permette di intravvederle.

8. L’economia italiana ha visto esplodere la produttività quando la finanza pubblica è stata in equilibrio, le infrastrutture fisiche e giuridiche si sono dimostrate acconce, la concorrenza ha sollecitato le imprese, la imprenditorialità, stimolata e confortata, si è espressa. Ciò è avvenuto in due fasi storiche: l’età giolittiana (1900-1913), con la “primavera” economica italiana, e il 1950-70, con il “miracolo” economico italiano. Viceversa, la produttività ha ristagnato nel 1887-1900, il tempo della Sinistra; nel 1922-1940, sotto il fascismo; infine, nel 1992-2011. In queste tre fasi di progresso tecnico carente i fasci di forze decisivi si sono volti, all’unisono, in negativo: la finanza pubblica è stata squilibrata, le infrastrutture inadeguate, il profitto troppo facile, la imprenditorialità latitante.
9. Se l’analisi è condivisa, le linee di fondo da seguire per tornare alla crescita sono chiare: risanare il bilancio pubblico; predisporre adeguate infrastrutture, fisiche e giuridiche; promuovere la concorrenza; sollecitare e sostenere l’imprenditorialità. Se lo Stato e le imprese seguissero questi indirizzi, l’economia ritroverebbe il sentiero della crescita. I presupposti strutturali non mancano: capacità di lavoro e di risparmio, capitale umano, milioni di aziende, tecnologia, una società ancora bisognosa di crescita.
10. E’ arduo predire se ciò avverrà. L’analisi economica stenta a spingersi al di là della triade di determinanti della crescita costituita da Risorse, Efficienza, Innovazione. Queste determinanti della crescita, strettamente economiche, interagiscono a propria volta con variabili metaeconomiche – la Cultura, le Istituzioni, la Politica – non meno rilevanti, forse ancor più fondamentali, radicate nel profondo del corpo sociale. Ma qui è bene che l’economista s’arresti.

II – Moneta forte, moneta debole, moneta stabile
1. Una moneta si dice forte quando può comprare più merci, in patria e all’estero. Ciò accade allorché i prezzi scendono e il tasso di cambio si apprezza, marcatamente.
Una moneta si dice, all’opposto, debole quando può comprare meno merci, in patria e all’estero. Ciò accade allorché i prezzi salgono e il tasso di cambio si deprezza, marcatamente.
2. In generale una moneta è forte perché la sua quantità è scarsa, la domanda di merci moderata, la loro produzione massiccia, la produttività progredisce e i costi – in specie i costi del lavoro e dell’energia – sono contenuti.
In generale una moneta è debole perché la sua quantità è sovrabbondante, la domanda di merci eccessiva, la produzione e la produttività basse, i costi – in specie i costi del lavoro e dell’energia – sono crescenti.
Nell’uno come nell’altro caso queste condizioni possono darsi singolarmente ovvero congiuntamente, cumulandosi negli effetti.
Sia la forza sia la debolezza della moneta dipendono molto anche dalle aspettative. Se c’è fiducia la moneta sarà più forte, se prevale la sfiducia la moneta sarà più debole.
3. Anche in economia gli eccessi sono dannosi. Tanto una moneta debole quanto una moneta forte frenano il progresso economico, provocano instabilità, stravolgono la distribuzione del reddito e della ricchezza. Sia la forza sia la debolezza della moneta possono quindi provocare ripercussioni sociali, politiche e istituzionali anche molto pesanti.
Il cambio cedevole peggiora i termini d’acquisto/vendita con l’estero: le esportazioni vengono svendute, le importazioni divengono più onerose. L’inflazione distorce il sistema dei prezzi di mercato e genera inefficienza perché non si sa più dove investire; eccita la speculazione e fa assumere rischi eccessivi a chi investe; punisce il risparmio e il credito; favorisce a caso e in modo subdolo i profitti a scapito dei salari e dei redditi fissi, i debitori a scapito di chi li finanzia.
Il cambio che si apprezza penalizza le imprese esportatrici. La deflazione distorce pur essa il funzionamento fisiologico del sistema dei prezzi di mercato e, come l’inflazione, genera inefficienza; diffonde pessimismo in chi investe; favorisce a caso e in modo subdolo i salariati, i percettori di redditi fissi e i creditori, a scapito dei profitti e dei debitori. La deflazione è pessima quando scaturisce da una caduta della domanda rispetto alla produzione. Lo è perché accentua la caduta della domanda globale, abbatte l’occupazione, i redditi, i consumi. La deflazione può risultare meno grave quando scaturisce da una espansione della produzione di alcune merci rispetto alla loro domanda. E’ in effetti meno grave se dai minori prezzi traggono significativo vantaggio i consumatori di quelle merci.
4. A una moneta forte, ovvero debole, è preferibile una moneta stabile in termini di potere d’acquisto sia domestico (stabilità dei prezzi interni) sia esterno (stabilità del cambio). Un aumento dei prezzi che non ecceda il 2 per cento l’anno e un tasso di cambio che non si discosti troppo dal suo livello normale, o tendenziale, evitano gli inconvenienti sia della moneta forte sia della moneta debole.
5. La politica monetaria – cioè il governo della moneta affidato alla banca centrale – mira quindi, opportunamente, alla stabilità. Deve ancorare le aspettative. Deve corroborare la fiducia. Allorché si rischia l’inflazione la banca centrale riduce i finanziamenti che concede, e quindi la quantità di contante, depositi e credito nell’economia; all’opposto, li accresce allorché si rischia la deflazione. Nel contrastare un’inflazione principalmente da costi la restrizione monetaria può avere l’effetto negativo collaterale, sperabilmente temporaneo, di deprimere l’attività produttiva e di innalzare la disoccupazione.
Perseguire la stabilità del potere d’acquisto della moneta è il primario dovere, la ragion d’essere storica, della banca centrale come istituzione autonoma, indipendente dal Governo. E’questo il compito statutario del Sistema Europeo delle Banche Centrali, costituito nel 1998 dalle banche centrali dei singoli paesi europei – la Banca d’Italia, la Bundesbank e le altre – e dalla Banca Centrale Europea di Francoforte, di cui le banche centrali nazionali sono proprietarie e amministratrici.

6. La moneta dell’Italia unita è risultata, nell’intero arco dei 150 anni, tendenzialmente debole. Una lira di Cavour equivale a circa 8000 lire, ovvero 4 euro, di oggi. Al tempo di Cavour bastavano poche lire per acquistare un dollaro, oggi ne occorrerebbero 1400.
Nonostante ciò l’Italia, povera quando si unificò, è attualmente ricca.
Evidentemente, se la crescita dell’economia italiana si è accompagnata a una moneta nel lunghissimo tempo debole, altre forze, favorevoli alla crescita, hanno prevalso sulla debolezza della moneta, sfavorevole alla crescita. Risparmio, capitale, lavoro, soprattutto efficienza e innovazione da parte delle imprese hanno sospinto lo sviluppo economico. Questo è stato particolarmente rapido quando si sono realizzate, insieme, quattro condizioni: finanza pubblica equilibrata, infrastrutture fisiche e giuridiche adeguate, concorrenza intensa, dinamismo d’impresa. A propria volta le quattro condizioni si sono poste allorché fattori extraeconomici – la cultura, la politica, le istituzioni – lo hanno consentito.
7. Ma il legame fra moneta e andamenti dell’economia riemerge, con segno alterno, se si considerano periodi di tempo meno lunghi della storia economica d’Italia.
La lira è stata forte in almeno due fasi, il 1873-1895 e il 1926-1936.
Tra il 1873 e il 1895 i prezzi all’ingrosso scesero del 25 per cento, quelli del grano del 40 per cento. Il tasso di cambio si apprezzò del 10 per cento. L’apprezzamento della lira si concentrò nel triennio 1881-1883. Allora, la fiducia tornò con il superamento del corso forzoso dopo che nel 1866 si era stati costretti da una crisi finanziaria internazionale e dalla terza guerra d’indipendenza a sospendere la convertibilità dei biglietti di banca in argento e in oro. Anche a causa del protezionismo doganale la produttività risultò deludente nello scorcio dell’Ottocento. Gli “anni più neri” di quel periodo, ricompresi fra il 1889 e il 1893, videro il crollo del sistema bancario. Su quelle rovine sorse la Banca d’Italia, operante dal 1894. Essa si unì quale istituto di emissione della carta-moneta al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, per essere poi, nel 1926, riconosciuta come unica banca centrale del Paese.
Nel 1926-36 il cambio si apprezzò follemente – del 70 per cento – per scelta politica di Mussolini. Ciò avvenne dopo il discorso di Pesaro del 18 agosto del 1926 con cui il Duce del fascismo intraprese quella che chiamò “la battaglia economica in difesa della lira”. Dal 1926 al 1934 alla sopravvalutazione della lira si unì una deflazione del 10 per cento l’anno dei prezzi all’ingrosso. Di nuovo, la produttività cessò di crescere. Inoltre, nei primi anni Trenta ebbe luogo la crisi industriale e bancaria più grave della nostra storia. Si riuscì solo a stento a evitare il fallimento di Banca Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma, di grandi imprese dell’industria “pesante”, della stessa Banca d’Italia. Furono necessari l’impegno massiccio di danaro pubblico – nella misura del 10 per cento del Pil del 1933 – e l’intervento dello Stato come industriale e come banchiere attraverso l’IRI. Beneduce e Menichella, ai vertici dell’IRI, sventarono una vera e propria Caporetto economica, con il pieno sostegno politico di Mussolini.
8. Le fasi in cui la moneta italiana è risultata drammaticamente debole sono state pur esse due, connesse con le guerre mondiali.
Nel 1914-1920 i prezzi all’ingrosso aumentarono di 6 volte, ossia del 30 per cento l’anno. Il cambio scemò da 5 a 20 lire per dollaro. Al di là dei quasi 700mila soldati morti nelle trincee, l’economia uscì dalla guerra trasformata, ma profondamente squilibrata, fragile. L’inflazione colpì duramente i percettori di redditi fissi. Erose stipendi e risparmi di impiegati, funzionari pubblici, professionisti, pensionati. Anche per questa ragione la piccola borghesia, la classe media, si schierò col fascismo, prima, con la dittatura, poi.
Nel 1940-1948 i prezzi all’ingrosso esplosero di circa 45 volte, ossia del 58 per cento l’anno. Il cambio precipitò da 20 a 576 lire per dollaro. Al di là dei quasi 500mila morti, metà dei quali fra la popolazione civile, molti italiani erano ridotti alla fame. Le condizioni sanitarie erano pietose, da Terzo Mondo. Un lavoratore su quattro era disoccupato o sottoccupato, con la produzione crollata nel 1945 al 60 per cento del livello prebellico. La maggioranza temette il social-comunismo, fino alle elezioni dell’aprile 1948.
La più forte inflazione italiana in tempi di pace ebbe invece luogo tra il 1968 e il 1996. Lungo quel trentennio i prezzi al consumo lievitarono di 13 volte, ossia dell’11 per cento l’anno. Il cambio declinò da 156 a 990 lire per marco tedesco. La crescita annua dell’economia rallentò, dal 5 per cento degli anni Sessanta al 2 per cento degli anni Novanta. Per designare il pessimo combinarsi di ristagno con inflazione venne coniata anche da noi l’orrenda parola “stagflazione”.
9. Che la moneta stabile sia preferibile agli estremi opposti della moneta forte e della moneta debole trova ulteriore riscontro in altre due fasi della storia italiana.
Nell’età “giolittiana” (1900-1913) e nell’età del “miracolo economico” (1950-1968) l’economia sperimentò la migliore delle combinazioni: prezzi in solo lieve aumento, cambio costante, crescita rapida della produzione e della produttività. La espansione annua del prodotto sfiorò il 3 per cento al tempo di Giolitti, il 6 per cento al tempo del “miracolo”. In entrambi i casi essa scaturì per circa due terzi dal progresso della produttività con cui lavoro e capitale vennero utilizzati dalle imprese, private e pubbliche (IRI, ENI, ENEL e altre). E’ in questi due sottoperiodi che si è soprattutto costruita la ricchezza di cui la società italiana tuttora beneficia.
10. Dopo il 1992, nonostante il sopravvenire dell’euro con la sua preziosa stabilità, l’economia italiana è tornata a ristagnare, soprattutto nella produttività, nella innovazione e nel progresso tecnico. Dal 2000 al 2008 la produttività totale dei fattori è addirittura diminuita, secondo i calcoli dell’Istat, prima di precipitare ciclicamente con la contrazione del 6 per cento del Pil legata alla crisi internazionale. Ciò conferma quanto si è già notato: una moneta stabile è fondamentale condizione necessaria, ma non anche sufficiente, di avanzamento del benessere materiale.
La produttività è ferma, a mio avviso, perché la finanza pubblica la mortifica; perché la inadeguatezza delle infrastrutture fisiche e giuridiche la ostacola; perché le imprese non sono sollecitate all’efficienza da forti e diffuse pressioni concorrenziali; perché le stesse imprese manifatturiere restano troppo piccole, sommerse, poco dinamiche, “piccole donne” che non crescono
Tutto ciò con la moneta ha poco a che fare. Preservare la stabilità dei prezzi è essenziale, e a questo mira il ritocco al rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla Banca Centrale Europea. Ma la ripresa ciclica dell’economia e il suo ritorno alla crescita dipenderanno dalla politica economica – inadeguata sinora – e soprattutto dalla capacità imprenditoriale – appannata sinora – che chi dirige le imprese saprà esprimere.

Link al video dell’intervento | http://www.youtube.com/watch?v=_WS0GpumGd4&feature=share