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Il rientro dal debito pubblico in Europa

di - 9 Agosto 2010
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5. La dinamica del rapporto debito-Pil.
Quando i creditori vedono che un debitore ha alte o crescenti passività finanziarie, incominciano a preoccuparsi e a chiedere interessi più alti, e la situazione può precipitare in crisi di liquidità prima e di insolvenza poi. La dinamica del rapporto debito-Pil ha quindi una notevole importanza sul costo del debito stesso. Essendo un rapporto, dipende dall’evoluzione del numeratore rispetto a quella del denominatore; un paese può anche avere costantemente un deficit (in ammontare assoluto) positivo ed allo stesso tempo avere un rapporto debito-Pil in diminuzione, se il Pil cresce più del debito. Al netto delle vendite di attività detenute dal settore pubblico [9], la variazione, tra un anno ed un altro, del rapporto debito-Pil è dato dalla differenza tra il deficit (in rapporto al Pil) e il tasso di crescita moltiplicato per il livello del rapporto debito-Pil.
Questo spiega i forti aumenti del debito tra il 2008 ed il 2009; ad esempio, i quasi dieci punti di aumenti in Italia sono dipesi, all’incirca, per metà dal deficit e per metà dalla caduta del Pil. Anche nel 2010, in cui secondo le previsioni dovrebbe tornare un segno positivo nella crescita del Pil nella maggior parte dei paesi europei (salvo Grecia, in cui è previsto -3% ed Irlanda e Spagna, con -0,9% e 0,4%), il debito continuerà a crescere perché la spinta dei numeratori, cioè dei deficit (anche se in via di flessione) sarà più forte di quella del denominatore. Ovviamente la situazione peggiore è quella della Grecia, nella quale al deficit si sommeranno 3,3 punti percentuali dovuti alla diminuzione del Pil.
Come è noto, tutti i paesi europei hanno deciso di accelerare le misure di rientro dai deficit di bilancio, di fronte alle tensioni sui titoli di Stato iniziate dalla fine 2009 con la Grecia, ed estesesi progressivamente ai paesi iberici, all’Irlanda ed anche all’Italia, nonché all’euro. È probabile che le divisioni ed incertezze tra i paesi europei, e tra essi e la BCE, abbiano contribuito all’aumento degli spread rispetto ai titoli tedeschi e ai premi dei CDS. Si tratta di un esperimento di politica economica che non ha precedenti, se non nell’esperienza dei primi anni novanta, quando la Bundesbank effettuò una stretta monetaria (in risposta al modo in cui il governo tedesco aveva finanziato l’unificazione) costringendo tutte le altre banche centrali a seguirla. Sappiamo come finì: nel settembre del 1992 l’attacco guidato da George Soros contro lira e sterlina portò all’uscita dallo SME e alla svalutazione; l’anno dopo l’attacco si rivolse verso il franco francese, ma questa volta senza successo [10].
L’attenzione si è rivolta in particolare sulle scelte del governo di Angela Merkel; come ha scritto Luigi Zingales [11], l’anno scorso “di fronte allo stupore del mondo, i tedeschi in piena recessione” approvarono una norma costituzionale che, dal 2016, ammette (salvo circostanze eccezionali) solo uno 0,35% di deficit. Quale sono le conseguenze economiche delle scelte della signora Merkel? Zingales ricorda che “dato un risparmio delle famiglie e delle imprese, una riduzione del disavanzo fiscale si traduce pari pari in un aumento del surplus della bilancia dei pagamenti”. Va ricordato che la bilancia commerciale tedesca è già largamente in attivo e che circa il 40% delle esportazioni tedesche si rivolgono ai paesi dell’euro. La conclusione di Zingales è che “i tedeschi, quindi, hanno deciso unilateralmente di esportare deflazione in tutti i rimanenti paesi dell’area euro”.
Cosa si può obiettare a questa tesi, che è molto diffusa tra i commentatori economici? Certamente, dato un livello di risparmio, la contabilità nazionale lega un euro in meno di deficit pubblico ad un euro in più della bilancia commerciale. La speranza potrebbe risiedere allora nella german view; un aumento di consumi, ed anche di investimenti, attivati proprio dalla rigorosa politica di bilancio. Purtroppo le probabilità che le cose vadano in questo senso non sono molte; è difficile pensare che l’Europa nel suo insieme possa ripetere esperienze come quelle di Danimarca e Irlanda degli anni ottanta. Ammesso e non concesso che i consumatori danesi e irlandesi siano stati ricardiani, non vi è dubbio che allora l’Europa cresceva ad un buon ritmo; quali effetti possono derivare da una situazione in cui Germania, Regno Unito, paesi mediterranei ed (obtorto collo) anche Francia effettuano un rientro dai deficit, è difficile da valutare.
Certamente per la Grecia la prospettiva sembra delineare una mission impossible; invece di una prospettiva di buona crescita europea, si trova a dover uscire dalla situazione critica in cui i suoi governanti l’hanno cacciata, con una politica super-deflattiva. Ma problemi seri si prospettano anche per gli altri paesi mediterranei; per l’Italia la valutazione di Salvatore Rossi [12] nell’audizione al Senato del 10 giugno sulla manovra di bilancio è che “la manovra potrebbe cumulativamente ridurre la crescita del Pil di poco più di mezzo punto … determinando un maggior disavanzo nel 2012 … che porterebbe il saldo di quell’anno a circa il 3% del Pil”. Affinché il rapporto debito-Pil inizi a ridursi nel 2012, con un deficit al 3%, dobbiamo avere una crescita nominale del Pil superiore al 2,5% [13]. La cosa è possibile ma non è affatto certa, anche perché nella valutazione non viene considerato l’effetto depressivo proveniente dalle manovre di tutti gli altri paesi europei.

Note

9.  O altre operazioni “sotto la linea”, cioè operazioni che non variano il deficit ma direttamente il debito.

10.  Per stroncare l’attacco speculativo il margine di oscillazione dello SME fu dilatato di dieci volte, in modo da non offrire un facile terreno di gioco alla speculazione.

11.  “Berlino prima della classe”, Il Sole 24 Ore 10-06-10.

12.  Direttore dell’area ricerca economica e relazioni internazionali della Banca d’Italia.

13.  Prescindendo da vendite di attività reali o finanziarie.

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