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L’impresa e le sorti dell’economia

di - 26 Agosto 2009
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Il sommerso continua a congelare il 15 per cento del prodotto interno lordo. Il distretto non riesce a far volare l’intero “calabrone” dell’economia; rappresenta solo il 40 per cento di una manifattura che a propria volta non esprime più del 20 per cento del Pil; il differenziale positivo di saggio di profitto sul capitale non supera il 2 per cento rispetto alle imprese non riunite in distretti; rischia di ossificare le posizioni relative delle aziende distrettuali, paghe della posizione occupata nello spazio locale. Non è ancora nato in Italia un vero mercato secondario dell’innovazione, a cui partecipino imprese medie, imprese grandi, università, altri centri di ricerca. Le stesse poche grosse imprese, oltre a recepire scarsa “innovazione originaria o radicale” da aziende medio-piccole ad alta imprenditorialità, hanno espresso dosi relativamente modeste di “innovazione incrementale, imitativa, replicativa”. Uso concetti e termini di William J. Baumol, a cui si deve uno splendido ulteriore libro su questi temi (Capitalismo buono, Capitalismo cattivo, scrittoinsieme con R.E. Litan e C.J. Schramm,appena tradotto in italiano dalla Bocconi).
In sintesi, l’economia italiana negli ultimi 15-20 anni si è allontanata dal “capitalismo buono” che Baumol contrappone ai “capitalismi cattivi”, cioè a) diretti dallo Stato, b) dominati da oligarchie, c) influenzati dalle grandi corporations. L’economia italiana non ha operato come una “economia imprenditoriale”: la forma di capitalismo migliore perché capace di “combinare imprenditori innovativi con imprese più grandi che rifiniscano e propongano su larga scala le innovazioni radicali che gli imprenditori e occasionalmente le stesse grandi imprese generano e offrono al mercato” (p. 4 del volume di Baumol).
Lo slogan “piccole donne che non crescono” vuole appunto cogliere questo terzo fascio di forze che ha frenato la produttività italiana dopo lo spartiacque del 1992, l’anno terribile per la politica, per le istituzioni, per l’economia.
Profitti facili. Lo slogan “profitti facili” allude invece al quarto fascio di forze che ha frenato la produttività. Hanno certamente influito gli impedimenti connessi con la finanza pubblica e con le carenze nelle infrastrutture materiali e giuridiche. Ma questi ostacoli oggettivi non erano insormontabili. Lo dimostra il fatto che almeno 5.000 fra le aziende campionate dalla Banca d’Italia “consolidano il primato tecnologico e diversificano gli sbocchi di mercato” nella crisi in corso (Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2008, Considerazioni finali, p. 10). In più, vi è stata una risposta nella forma della delocalizzazione all’estero di attività che impegnano quasi un milione di addetti, pari a circa un quarto degli occupati totali nella manifattura in Italia.
Suffragata dai fatti sembra un’ulteriore ipotesi. Le vie agevoli al profitto che si sono dischiuse alle imprese italiane dopo il 1992 hanno attenuato la sollecitazione alla ricerca da parte loro della redditività lungo la via maestra, ancorché più impervia, delle innovazioni e dell’efficienza, quindi della produttività.
Sino alla recessione 2008-2009, la profittabilità – comunque misurata – è stata mediamente più alta rispetto al decennio precedente il 1992. Il leverage è diminuito, e con esso il peso del servizio del debito. La quota dei profitti sul prodotto – una delle misure – si è attestata sugli elevati livelli del 1950-70. La stranezza di un saggio di crescita in calo e di un tasso di profitto in ascesa è indicativa dell’attenuarsi degli stimoli in senso lato concorrenziali, micro e macroeconomici. Il profitto atteso è stato reso più certo dalla cedevolezza del cambio (deprezzatosi del 30 per cento fra il 1992 e il 2002 e apprezzatosi meno del 10 per cento in seguito); dalla moderazione sindacale (dopo l’“accordo Ciampi” del 1993 l’incremento delle retribuzioni lorde reali per unità standard di lavoro ha rallentato dall’1,7 per cento l’anno del 1983-92 allo 0,4 per cento del 1993-2005); da una spesa pubblica corrente larga e disponibile (non inferiore al 43 per cento del prodotto); da un grado di oligopolio in aumento (nonostante l’antitrust, nei mercati delle merci gli “indici di Lerner” sono saliti mediamente dal 15 per cento del 1970-90 al 19 per cento); ancor più della concorrenza di prezzo è diminuita quella, più significativa e rilevante per la crescita dell’economia, attraverso l’innovazione dei prodotti.

In conclusione, è evidente come la crisi internazionale che è in atto costituisca una brutale mutazione anche per le imprese italiane. Nel 2008-2009 i loro profitti sono scesi, il grado di indebitamento si è innalzato. Il dollaro debole non offre vie di uscita, attraverso pronti recuperi di competitività di prezzo. Non le offre il salario, da anni compresso e di un terzo inferiore rispetto ai livelli di Germania e Francia. Non le offre la spesa pubblica, già prossima al 50 per cento del prodotto. La stessa azione antitrust diverrà, alla lunga, più incisiva: maggiormente attenta ai settori base, ai processi dinamici, ai consumatori di domani.
Se le imprese italiane, costrette dalla forza delle cose e dall’assenza di alternative, riusciranno a ritrovare la strada maestra dell’innovazione e della produttività, generate al loro interno, è impossibile dire. Anche se i governi risanassero la finanza pubblica, potenziassero le infrastrutture, riformassero il diritto dell’economia, non può non preoccupare il polarizzarsi della struttura produttiva in troppe aziende minuscole, poche aziende medie, troppo poche e poco diffuse imprese di grande dimensione. Soprattutto, non possono non preoccupare la soluzione di continuità strutturale, la pochezza dei legami, che nel tempo si sono determinate nel tessuto delle imprese italiane: fra l’azienda piccolo-media, a cui spetterebbe di innovare, e la grande impresa, a cui spetterebbe di selezionare, recepire, adattare l’innovazione promettente e di applicarla su larga scala, così diffondendo il progresso tecnico. Se non emergeranno imprese piccolo-medie capaci di inventare e/o grandi gruppi in grado di affinare e produrre in massa le novità, vi sarebbe più di un dubbio che gli italiani restino “ricchi per sempre”…

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