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Consumi energetici e ambiente nell’attuale congiuntura economica, preparando Copenhagen

di - 26 Giugno 2009
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Se invece si sceglie come indicatore il valore delle emissioni pro capite, il rapporto delle responsabilità si inverte. Si evidenzia il basso consumo di energia pro capite dei paesi emergenti rispetto ad altri paesi più ricchi e sviluppati come gli Usa o l’Australia: nel 2008, ogni cittadino americano ha emesso infatti, in media, 24,9 mt CO2 equivalenti; ogni cittadino dell’UE 10,7; mentre ogni cinese ha emesso solo 5,5 mt CO2 equivalente e ogni indiano 2.2. Hanno buon gioco, da questa base, le posizioni dei paesi emergenti per i quali l’assunzione di un impegno quantificato e vincolante da parte degli Stati Uniti a ridurre le emissioni al proprio interno è comunque propedeuticoa qualsiasi impegno richiesto ai PVS.
Infine, se si assume come indicatore il volume di emissioni prodotte nella generazione di energia elettrica, che pure ha un peso di rilievo sul totale dei gas inquinanti emessi nell’atmosfera, si modifica ulteriormente lo scenario degli interventi necessari e l’attribuzione delle responsabilità, che risulta meno correlato alla ricchezza degli stati. Dalla Cina, che emette 788 gCO2 per kwh di energia elettrica prodotta, si passa agli USA che emettono 573 gCO2 per kwh, all’Italia 405, alla Francia 91, alla Norvegia 6.0. D’altra parte, altri paesi meno sviluppati, che hanno consumi di energia limitati e uno sviluppo economico assai più contenuto, come l’Indonesia, contribuiscono alla crescita delle emissioni globali con la deforestazione (per questo l’Indonesia figura al terzo posto tra i grandi emettitori del pianeta).
E’ anche interessante notare che le variabili economiche non sono esaustive nella spiegazione dell’efficacia delle politiche attivate a livello nazionale. Nella graduatoria dell‘Environmental Performance Index 2008 i primi cinque posti tra i paesi virtuosi sono occupati da Svizzera, Svezia, Finlandia, Norvegia e Costa Rica, paesi che oltre ad aver attivato politiche pro attive per il contenimento delle emissioni, hanno in comune meccanismi di participatory governance che contribuiscono a spiegare la maggiore efficacia degli interventi governativi con l’adesione di cittadini e imprese alle politiche di razionalizzazione dei consumi energetici.
Il Protocollo di Kyoto ha tenuto conto delle responsabilità pregresse dei paesi industrializzati, consentendo ai paesi emergenti di non assumere impegni vincolanti e quantificati di riduzione delle emissioni nel primo periodo di attuazione del Protocollo. Guardando al futuro, tuttavia, è evidente che l’impegno unilaterale dei paesi industrializzati non basta e un impegno diretto dei paesi di recente industrializzazione è indispensabile. L’apporto al trend di emissioni di biossido di carbonio previsto da parte dei paesi emergenti come Cina o India è elevatissimo: ha superato quello pur elevato degli Stati Uniti. A Copenhagen ci si può aspettare un accordo più significativo? Da un lato la svolta di Obama peserà positivamente, dall’altro la crisi in atto ha già fatto registrare le prime difficoltà nel G20 di aprile, a Londra.
Come era da aspettarsi, i consumi energetici hanno fortemente risentito della crisi. Per il 2009 l’IEA ha stimato una riduzione nella domanda mondiale di energia elettrica del 3,5%, registrando per la prima volta dalla seconda guerra mondiale una contrazione netta.[4]
I consumi di energia, e dunque delle emissioni, si sono ridotti; ma questo non significa affatto che si determini un miglioramento strutturale della questione ambientale. La difficoltà di ottenere credito e la riduzione del prezzo dei combustibili fossili connessa al calo della domanda non possono che favorire l’uso di queste fonti più inquinanti rispetto ad altre più costose, come le rinnovabili, o a più alta intensità di capitale, come il nucleare. Inoltre, la straordinaria contrazione degli investimenti in impianti di produzione di energia rinnovabile (diminuiti del 42% globalmente nel 2009, dopo la crescita che si era registrata nel 2007-2008) non potrà che avere effetti duraturi: è anche prevedibile che si protragga nel tempo.
Per il medio periodo, molto dipenderà dalle politiche dei governi, che potranno decidere di fare del cambiamento climatico un’opportunità per uscire dalla crisi o, al contrario, relegare la questione ambientale a un obiettivo secondario tra le priorità da affrontare, ad esempio rispetto all’impegno dei governi a sostegno del settore finanziario. Come esempio della prima opzione spicca la visione proposta da Obama; esempio della seconda sono invece i risultati del vertice del G20 di Londra, che sembra aver compiuto un passo indietro in materia di sostegno alle politiche attive di contrasto al cambiamento climatico rispetto al vertice del G8 di Hokkaido del luglio 2008. In quella sede infatti i partecipanti si erano impegnati a ridurre le emissioni del 50% entro il 2050 (a fronte di una crescita che è prevista del 45% al 2030, in assenza di interventi specifici). Molto dipenderà dunque dai risultati concreti che si realizzeranno a Copenhagen, nella definizione dei piani dei governi per l’attuazione della seconda fase degli Accordi di Kyoto.
Ad oggi, nell’impegno dei governi a sostegno dell’economia, un nucleo di interventi pari a circa il 5% su un totale di 2,6 trilioni di dollari, è stato destinato al sostegno dell’efficienza energetica e della produzione di energie pulite. E’ difficile immaginare nell’immediato investimenti consistenti per la produzione di energia pulita, che richiedono capitali di lunghissimo periodo e dipendono per lo più dalle scelte di imprenditori resi ancor più avversi al rischio dalla crisi economica, a fronte di prezzi decrescenti dei combustibili fossili. In questa situazione di crisi sembrano di poco aiuto anche strumenti come il mercato dei certificati negoziabili di emissione di CO2, il cui prezzo risente della scarsa domanda di energia.
La visione tuttavia deve essere rivolta al futuro: è opportuno che i governi si impegnino ad ampliare l’architettura di questi mercati per dare un prezzo unico al biossido di carbonio e avere mercati liquidi quando la ripresa si ripercuoterà con pari rapidità sulla domanda di energia. Nel frattempo, è auspicabile che gli stanziamenti per questo settore rafforzino i meccanismi flessibili previsti dagli accordi di Kyoto, stimolando il trasferimento tecnologico verso i paesi asiatici. Questa politica presenterebbe un triplo vantaggio: quello di contribuire alla crescita della domanda interna dei paesi asiatici che hanno visto le loro esportazioni drasticamente ridotte dalla crisi, di offrire un mercato per beni intermedi e tecnologia ai paesi sviluppati, dopo che si è inceppato il motore della domanda di consumi degli Stati Uniti, e infine di porre le basi per consentire ai paesi emergenti, con l’aiuto delle tecnologie meno inquinanti sperimentate dai paesi più ricchi, di saltare la fase di industrializzazione ad altissima densità di carbone e contenere le emissioni legate alla crescita industriale senza imporre freni allo sviluppo.
Quando i finanziamenti sono limitati il loro uso deve necessariamente concentrarsi sui progetti che promettono un maggior rendimento sociale nel lungo periodo.

Note

4.  Questa stima corrisponde a riduzioni drastiche distribuite tra tutti i paesi – dalla Cina, dove la domanda di energia elettrica sarebbe scesa del 7,1% nel 4° trimestre 2008 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente per contrarsi ulteriormente del 4% nel 1° trimestre 2009, all’Italia, dove la riduzione del 5,4% nel 4° trimestre 2008 sarebbe seguita da una più acuta contrazione dell’8% nel 1° trimestre 2009, alla Russia, agli USA, agli altri paesi OCSE.

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