Consumi energetici e ambiente nell’attuale congiuntura economica, preparando Copenhagen

C’è consenso sulla necessità di invertire il trend di crescita delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera. 192 paesi hanno aderito alla road map definita a Bali nel dicembre 2008 per affrontare il problema della sostenibilità ambientale con interventi volti a prevenire, mitigare e rafforzare l’adattamento ai cambiamenti climatici provocati dall’emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera. Il piano coinvolge tutte le regioni del pianeta, anche le più povere e potenzialmente più colpite dagli effetti ambientali, secondo il principio delle responsabilità condivise ma differenziate che fu concordato nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC, United Nations Framework Convention on Climate Change, 1994). La prossima scadenza sarà a Copenhagen (nel dicembre 2009), dove saranno negoziate le misure della seconda fase del Protocollo di Kyoto, a partire cioè dal 2012, che si auspica porti a risultati migliori di quelli ottenuti fino ad oggi.
Nelle emissioni di biossido di carbonio il settore energetico ha un ruolo preminente[1]. E mostra un andamento in forte crescita dalla fine del secolo scorso per una pluralità di cause difficili da aggredire, tra le quali spiccano la rapida crescita dei paesi asiatici emergenti, in particolare Cina e India che hanno un’alta intensità di emissioni sul reddito e l’uso intensivo di combustibili fossili nella maggioranza dei paesi industrializzati. Di conseguenza, le politiche volte a stabilizzare la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera a valori compatibili con il riscaldamento del pianeta a 2° celsius secondo le indicazioni degli scienziati dell’International Panel on Climate Change delle Nazioni Unite (IPCC 2007)[2], si concentrano su un uso più razionale dei consumi di energia, sulla produzione di energia da fonti alternative rispetto ai combustibili fossili e sulla ricerca e la sperimentazione per il sequestro del biossido di carbonio derivante dall’uso del carbone (carbon capture and sequestration,CCS). Tra i combustibili fossili, infatti, il carbone ha contribuito con una crescita delle emissioni superiore al 70% tra il 1990 e il 2006.
La tecnologia dovrà ancora una volta consentire discontinuità nello sviluppo; ma, l’obiettivo di modificare il peso relativo delle fonti primarie a favore di quelle meno inquinanti è un compito difficilissimo per i governi nazionali, in un contesto globale fortemente competitivo. Si intreccia con la traiettoria di sviluppo industriale dei paesi emergenti, con le difese economiche dei paesi industrializzati minacciati dalla competizione delle nuove economie; dipende dalle decisioni di investimento di lunghissimo periodo nella filiera di produzione di energia, che sono a loro volta influenzate da movimenti speculativi incontrollati dei prezzi del petrolio, dalla distribuzione geografica delle riserve, dal costo marginale della ricerca e dell’estrazione nei nuovi bacini e infine dall’uso politico dell’offerta di combustibili fossili che si è consolidato nei decenni trascorsi.
Anche per questo motivo gli organismi internazionali concordano nell’attribuire alla razionalizzazione dei consumi di energia la quota più rilevante dei risultati potenziali di contenimento delle emissioni di biossido di carbonio nell’atmosfera, valutandola intorno al 60% dei risultati attesi dalle politiche di intervento al 2030 (IEA 2009), con particolare attenzione ai consumi finali di energia per i trasporti, per il riscaldamento, per l’elettricità.
Il contenimento delle emissioni è naturalmente un obiettivo globale. Si tratta di una esternalità negativa che gli economisti hanno affrontato, dai tempi di Pigou, con strumenti di prezzo – un prezzo del CO2 è necessario per internalizzare il costo sociale delle emissioni inquinanti, da determinare sia sviluppando il mercato dei certificati di emissione negoziabili, sia introducendo un’imposta sul biossido di carbonio -; oppure ricorrendo a misure quantitative, come l’imposizione di standard o di tetti alle emissioni concesse. Ma proprio la natura globale dell’esternalità negativa e la estrema differenziazione delle condizioni economiche e sociali delle regioni coinvolte rendono assai complesso l’accordo sugli interventi e molto forte la tentazione al free riding per i singoli Stati. La condivisione richiede flessibilità degli interventi, ma anche un forte coordinamento per il rispetto degli obiettivi stabiliti. E, prima ancora, richiede che siano identificati gli obiettivi intermedi, secondo una spartizione degli oneri accettata e sostenibile.
Ognuno di questi passaggi è estremamente complesso, a partire dalla definizione degli obiettivi intermedi e delle misure da attivare per razionalizzare i consumi di energia. Obiettivi e interventi non sono indipendenti, ad esempio, dagli indicatori di inquinamento. I dati sulle emissioni, seppure ancora carenti, sono da alcuni anni raccolti e selezionati in modo omogeneo e rigoroso da diverse fonti ufficiali internazionali, tra le quali l’AIE, sulle cui statistiche si basano le analisi elaborate dal Center for Environmental Law & Policy dell’Università di Yale, in collaborazione con l’ISPRA in Italia, il Center for International Earth Science Information Network della Columbia University e il World Economic Forum di Ginevra[3].
Una difficoltà per raggiungere accordi condivisi sta proprio nel fatto che, a seconda degli indicatori di inquinamento scelti, si determina l’attribuzione delle responsabilità tra paesi, la definizione degli interventi e di conseguenza la ripartizione tra paesi dei costi di aggiustamento. Ad esempio, se si sceglie come indicatore l’intensità di emissioni di CO2 nella produzione del settore industriale, i paesi asiatici mostrano certamente valori di inquinamento più alti dei paesi industrializzati: l’intensità industriale di emissioni in Cina è di 4.4 metric tonnes (mt) per 1000 $ di produzione industriale ($ PPP 2005), a fronte di 2.6 mt dell’India, di 2.1 mt dell’Italia, 2.6 mt degli USA e 1.4 mt della Gran Bretagna (Yale 2009). Ciò si spiega poiché i paesi emergenti, oltre ad avere una crescita elevata nei consumi di energia connessa al rapido sviluppo, utilizzano tecnologie più inquinanti e fanno un uso più intenso di combustibili fossili e di carbone, di cui ad esempio la Cina possiede ampie riserve. Da quest’analisi risulta così l’urgenza di attivare politiche impegnative e vincolanti nei paesi asiatici; ma risulta anche l’esigenza che siano rafforzate le politiche volte a favorire il trasferimento tecnologico. Ad esempio intensificando l’uso di Clean Development Mechanisms (CDM), i meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto e assistiti dalle istituzioni internazionali per favorire gli investimenti nei paesi meno industrializzati, in contraddizione con i vincoli imposti dall’UE al riconoscimento dei crediti di emissione così perseguiti dai paesi membri.

Se invece si sceglie come indicatore il valore delle emissioni pro capite, il rapporto delle responsabilità si inverte. Si evidenzia il basso consumo di energia pro capite dei paesi emergenti rispetto ad altri paesi più ricchi e sviluppati come gli Usa o l’Australia: nel 2008, ogni cittadino americano ha emesso infatti, in media, 24,9 mt CO2 equivalenti; ogni cittadino dell’UE 10,7; mentre ogni cinese ha emesso solo 5,5 mt CO2 equivalente e ogni indiano 2.2. Hanno buon gioco, da questa base, le posizioni dei paesi emergenti per i quali l’assunzione di un impegno quantificato e vincolante da parte degli Stati Uniti a ridurre le emissioni al proprio interno è comunque propedeuticoa qualsiasi impegno richiesto ai PVS.
Infine, se si assume come indicatore il volume di emissioni prodotte nella generazione di energia elettrica, che pure ha un peso di rilievo sul totale dei gas inquinanti emessi nell’atmosfera, si modifica ulteriormente lo scenario degli interventi necessari e l’attribuzione delle responsabilità, che risulta meno correlato alla ricchezza degli stati. Dalla Cina, che emette 788 gCO2 per kwh di energia elettrica prodotta, si passa agli USA che emettono 573 gCO2 per kwh, all’Italia 405, alla Francia 91, alla Norvegia 6.0. D’altra parte, altri paesi meno sviluppati, che hanno consumi di energia limitati e uno sviluppo economico assai più contenuto, come l’Indonesia, contribuiscono alla crescita delle emissioni globali con la deforestazione (per questo l’Indonesia figura al terzo posto tra i grandi emettitori del pianeta).
E’ anche interessante notare che le variabili economiche non sono esaustive nella spiegazione dell’efficacia delle politiche attivate a livello nazionale. Nella graduatoria dell‘Environmental Performance Index 2008 i primi cinque posti tra i paesi virtuosi sono occupati da Svizzera, Svezia, Finlandia, Norvegia e Costa Rica, paesi che oltre ad aver attivato politiche pro attive per il contenimento delle emissioni, hanno in comune meccanismi di participatory governance che contribuiscono a spiegare la maggiore efficacia degli interventi governativi con l’adesione di cittadini e imprese alle politiche di razionalizzazione dei consumi energetici.
Il Protocollo di Kyoto ha tenuto conto delle responsabilità pregresse dei paesi industrializzati, consentendo ai paesi emergenti di non assumere impegni vincolanti e quantificati di riduzione delle emissioni nel primo periodo di attuazione del Protocollo. Guardando al futuro, tuttavia, è evidente che l’impegno unilaterale dei paesi industrializzati non basta e un impegno diretto dei paesi di recente industrializzazione è indispensabile. L’apporto al trend di emissioni di biossido di carbonio previsto da parte dei paesi emergenti come Cina o India è elevatissimo: ha superato quello pur elevato degli Stati Uniti. A Copenhagen ci si può aspettare un accordo più significativo? Da un lato la svolta di Obama peserà positivamente, dall’altro la crisi in atto ha già fatto registrare le prime difficoltà nel G20 di aprile, a Londra.
Come era da aspettarsi, i consumi energetici hanno fortemente risentito della crisi. Per il 2009 l’IEA ha stimato una riduzione nella domanda mondiale di energia elettrica del 3,5%, registrando per la prima volta dalla seconda guerra mondiale una contrazione netta.[4]
I consumi di energia, e dunque delle emissioni, si sono ridotti; ma questo non significa affatto che si determini un miglioramento strutturale della questione ambientale. La difficoltà di ottenere credito e la riduzione del prezzo dei combustibili fossili connessa al calo della domanda non possono che favorire l’uso di queste fonti più inquinanti rispetto ad altre più costose, come le rinnovabili, o a più alta intensità di capitale, come il nucleare. Inoltre, la straordinaria contrazione degli investimenti in impianti di produzione di energia rinnovabile (diminuiti del 42% globalmente nel 2009, dopo la crescita che si era registrata nel 2007-2008) non potrà che avere effetti duraturi: è anche prevedibile che si protragga nel tempo.
Per il medio periodo, molto dipenderà dalle politiche dei governi, che potranno decidere di fare del cambiamento climatico un’opportunità per uscire dalla crisi o, al contrario, relegare la questione ambientale a un obiettivo secondario tra le priorità da affrontare, ad esempio rispetto all’impegno dei governi a sostegno del settore finanziario. Come esempio della prima opzione spicca la visione proposta da Obama; esempio della seconda sono invece i risultati del vertice del G20 di Londra, che sembra aver compiuto un passo indietro in materia di sostegno alle politiche attive di contrasto al cambiamento climatico rispetto al vertice del G8 di Hokkaido del luglio 2008. In quella sede infatti i partecipanti si erano impegnati a ridurre le emissioni del 50% entro il 2050 (a fronte di una crescita che è prevista del 45% al 2030, in assenza di interventi specifici). Molto dipenderà dunque dai risultati concreti che si realizzeranno a Copenhagen, nella definizione dei piani dei governi per l’attuazione della seconda fase degli Accordi di Kyoto.
Ad oggi, nell’impegno dei governi a sostegno dell’economia, un nucleo di interventi pari a circa il 5% su un totale di 2,6 trilioni di dollari, è stato destinato al sostegno dell’efficienza energetica e della produzione di energie pulite. E’ difficile immaginare nell’immediato investimenti consistenti per la produzione di energia pulita, che richiedono capitali di lunghissimo periodo e dipendono per lo più dalle scelte di imprenditori resi ancor più avversi al rischio dalla crisi economica, a fronte di prezzi decrescenti dei combustibili fossili. In questa situazione di crisi sembrano di poco aiuto anche strumenti come il mercato dei certificati negoziabili di emissione di CO2, il cui prezzo risente della scarsa domanda di energia.
La visione tuttavia deve essere rivolta al futuro: è opportuno che i governi si impegnino ad ampliare l’architettura di questi mercati per dare un prezzo unico al biossido di carbonio e avere mercati liquidi quando la ripresa si ripercuoterà con pari rapidità sulla domanda di energia. Nel frattempo, è auspicabile che gli stanziamenti per questo settore rafforzino i meccanismi flessibili previsti dagli accordi di Kyoto, stimolando il trasferimento tecnologico verso i paesi asiatici. Questa politica presenterebbe un triplo vantaggio: quello di contribuire alla crescita della domanda interna dei paesi asiatici che hanno visto le loro esportazioni drasticamente ridotte dalla crisi, di offrire un mercato per beni intermedi e tecnologia ai paesi sviluppati, dopo che si è inceppato il motore della domanda di consumi degli Stati Uniti, e infine di porre le basi per consentire ai paesi emergenti, con l’aiuto delle tecnologie meno inquinanti sperimentate dai paesi più ricchi, di saltare la fase di industrializzazione ad altissima densità di carbone e contenere le emissioni legate alla crescita industriale senza imporre freni allo sviluppo.
Quando i finanziamenti sono limitati il loro uso deve necessariamente concentrarsi sui progetti che promettono un maggior rendimento sociale nel lungo periodo.

Note

1.  Pari all’82% del totale di emissioni dei paesi dell’OECD e al 59% di quelle degli altri paesi, secondo le stime dell’International Energy Agency, Cfr. “CO2 Emissions from fuel combustion, Oecd, IEA 2008

2.  L’obiettivo è di portare le emissioni a 450 particelle per milione in CO2 equivalenti, che sono compatibili con il riscaldamento del pianeta a 2° celsius in ottemperanza alle raccomandazioni degli scienziati dell’International Panel on Climate Change delle Nazioni Unite (IPCC 2007).

3.  Esty, Daniel C., M.A. Levy, C.H. Kim, A. de Sherbinin, T. Srebotnjak, and V. Mara. 2008. “2008 Environmental Performance Index“. New Haven: Yale Center for Environmental Law and Policy. Lo studio costruisce tra l’altro l’Environmental Performance Index (EPI), un indice ambientale sintetico rigoroso, nel quale l’emissione di gas e il conseguente cambiamento climatico sono la componente che ha il peso diretto più significativo, pari al 25% del paniere di 25 indicatori esaminati, cui si aggiunge il peso attribuito agli effetti indiretti delle emissioni e dell’esposizione all’ozono sulla salute degli esseri viventi. L’emissione di gas nell’atmosfera (greenhouse gas, GHG) è rilevante sia per l’indoor pollution, che prevale nei paesi in via di sviluppo nei quali circa 3 milioni di abitanti utilizzano biomasse per il riscaldamento e la cottura dei cibi, sia per l’outdoor pollution, più significativa nei paesi più sviluppati e nei paesi a crescita recente, a causa dell’ industrializzazione e dell’accentuata urbanizzazione. Queste due forme di inquinamento sono considerate tra le principali cause di larga parte delle infezioni polmonari, insieme all’esposizione all’ozono sulla superficie terrestre, sia dall’UNEP (United Nations Environment Programme) che dal WHO (World Health Organization).

4.  Questa stima corrisponde a riduzioni drastiche distribuite tra tutti i paesi – dalla Cina, dove la domanda di energia elettrica sarebbe scesa del 7,1% nel 4° trimestre 2008 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente per contrarsi ulteriormente del 4% nel 1° trimestre 2009, all’Italia, dove la riduzione del 5,4% nel 4° trimestre 2008 sarebbe seguita da una più acuta contrazione dell’8% nel 1° trimestre 2009, alla Russia, agli USA, agli altri paesi OCSE.