1929 e 2009: due crisi commensurabili?
Avvicinandoci all’oggi, dal 1950 al 2007 il PIL mondiale non è mai diminuito in singoli anni, sebbene scarti negativi dal trend del 2-3 per cento si siano avuti nel 1958, 1975, 1980, 1991. Per il 2008 le stime del FMI indicano una crescita del PIL mondiale in rallentamento ma pur sempre del 3,4 per cento. Indicano altresì una espansione del commercio in volume del 4,1 per cento. Alcune economie avanzate, tuttavia, sono in recessione tecnica, con il PIL in flessione da almeno due trimestri. Per il 2009 il FMI sconta una crescita minima dell’economia mondiale: 0,5 per cento. Essa risulterebbe da una espansione del 3,3 per cento nelle economie emergenti (con la Cina al 6,7) e da una netta flessione (-2,0) delle economie avanzate (con gli USA a -1,6). In questo senso quella in corso è una crisi dell’area dell’Ocse – segnatamente di Stati Uniti, Europa, Giappone – più che dell’economia globale, sebbene anche il volume del commercio mondiale sia previsto in calo, del 2,8 per cento. Nel quarto trimestre del 2009, rispetto al quarto del 2008, le economie avanzate ancora sperimenterebbero una sia pur attenuata variazione negativa del PIL (-0,5 per cento). Nel 2010, tuttavia, il prodotto mondiale tornerebbe sul ritmo di sviluppo del 2008 (3,4 per cento), mentre l’inflazione riavvicinerebbe l’1 per cento.
Lo scenario tracciato dal FMI è non poco incerto, ma il senso della previsione è che una contrazione su scala mondiale sia, allo stato, improbabile. Queste proiezioni, va sottolineato, non considerano le ulteriori politiche espansive che potranno essere decise d’ora in avanti, nel 2009, con effetti immediati sulle aspettative. Va sottolineato inoltre che, a differenza del 1929, i movimenti dei capitali e i flussi migratori non si sono azzerati, non vi è traccia di svalutazioni competitive (anzi il dollaro si è rafforzato), i tassi reali di interesse restano su livelli normali.
Due termini di paragone aggiuntivi possono essere rilevanti. Nel 1930 – il primo anno di recessione nella crisi del 1929-33 – il PIL diminuì del 5 per cento sia nell’area industrializzata che fu epicentro della recessione mondiale sia nell’intera economia del globo, nonostante la tenuta in Asia e la crescita (del 10 per cento) nell’Europa dell’Est. In termini di scarto cumulato del prodotto effettivo da quello potenziale – la misura più accurata della gravità di una recessione – la perdita di reddito delle economie avanzate attualmente prevista dal FMI per il 2009-2010 (6 punti percentuali) è simile a quelle sperimentate nel 1974-75, dopo il primo shock petrolifero, e nel 1980-83, dopo il secondo shock petrolifero.
c) Finanza. Sul fronte dei prezzi e della produzione l’analogia della fase attuale con la drammaticità della crisi del 1929 appare quindi destituita di fondamento. Più complessa è invece la comparazione delle due crisi nella instabilità dei valori patrimoniali, bancari, finanziari.
Nel quadro delle normali fluttuazioni da moltiplicatore-acceleratore, ma anche indipendentemente dal ciclo, la meccanica delle crisi di finanza è unica. E’ tipizzata in un modello standard, via via affinato, dopo Henry Thornton (1802), da Bagehot, Wicksell, Hawtrey, Fisher, Keynes, Minsky, Kindleberger. Un evento imprevisto dischiude nuove aspettative di lucro. La speculazione rialzista monta. Alimentata da un’offerta di credito inevitabilmente elastica, diventa smodata. Allorché – incertus quando, certus an – l’eccesso comincia ad apparire evidente, si svende in fretta per rimborsare il debito, stanti le attese di deflazione e i più onerosi tassi reali d’interesse. Crollano allora i prezzi dell’oggetto della speculazione, che può essere qualsivoglia: prodotti, immobili, terreni, azioni, obbligazioni, contratti, scommesse. Il circolo vizioso si arresta allorché la fiducia viene ripristinata dalla politica economica, o semplicemente torna. Il significato ultimo del modello è che l’instabilità è radicata nel capitalismo. Delle crisi può darsi la cura, il contenimento, il rinvio, mai con certezza la prevenzione.
Nella crisi attuale l’eccesso speculativo si è incentrato sulle case e sui mutui proposti dalle banche a cinque milioni di famiglie povere in America, ancora sugli immobili in altri paesi occidentali, sui derivati e sui titoli “tossici” quasi ovunque. Ottanta anni fa l’eccesso speculativo si incentrò sulle azioni, in prevalenza industriali. La propensione all’indebitamento eccessivo – di famiglie, imprese, speculatori – trovò, come sempre trova, un’offerta di credito bancario e non bancario con segmenti dalla incontrollabile elasticità.
In stridente contrasto con la regolarità morfologica tipizzata dal modello standard, la casistica empirica delle crisi è di una varietà disarmante. Ogni crisi è specifica, nelle forme, nei tempi, nella gravità, nelle ripercussioni politiche e sociali. In questo senso è oggetto di storia, più che di teoria.
Le fasi di crisi finanziaria davvero grave su scala mondiale precedenti l’attuale sono state tre: 1873-1878, 1889-1894, 1921-1933. La prima e la terza hanno coinciso, la seconda non ha coinciso, con cedimenti del PIL a livello internazionale. In effetti, storicamente non sono rari gli scompensi finanziari che hanno mancato di risolversi in contrazione del reddito. La crisi venne circoscritta da avvenimenti o da provvedimenti che ristabilirono in tempo la fiducia.