1929 e 2009: due crisi commensurabili?

Una versione aggiornata con i dati della primavera 2009 è stata pubblicata il 4 giugno 2009. Una versione successiva, aggiornata con la previsione  FMI del luglio 2009, è stata pubblicata il 16 luglio 2009

I

Disponiamo ormai di dati su attività economica, distribuzione del reddito, prezzi, finanza estesi al mondo nell’intero arco degli ultimi due secoli in cui si è affermata l’economia di mercato. Questo patrimonio empirico permette di tracciare uno schizzo storico della instabilità economica orientato al confronto fra il 1929 e il 2009.
E’ utile muovere dalla distinzione della instabilità rispettivamente concernente i prezzi, la produzione, la finanza.
a)    Prezzi. Più dell’inflazione ai nostri fini rileva la deflazione. Si è soliti distinguere una deflazione “buona”, da espansione dell’offerta, e una deflazione “cattiva”, da flessione della domanda globale. La deflazione del 1875-95 fu una Grande Deflazione buona, non una “Grande Depressione”. I prezzi al consumo diminuirono del 20 per cento nei paesi industriali. Ma il PIL mondiale crebbe del 2 per cento l’anno, rispetto al più magro 1 per cento del 1820-70. La deflazione cattiva seguì invece ai crolli di domanda del 1929-33. Fu ben più forte: in soli 4 anni i prezzi all’ingrosso mondiali diminuirono del 40 per cento, i prezzi al consumo dei paesi industriali del 25 per cento.
Ma dal punto di vista della sua interazione con le crisi finanziarie e reali anche la deflazione buona … è cattivissima! Lo è dal punto di vista macroeconomico, al di là degli effetti distributivi favorevoli ai redditi fissi che tende a provocare. Nella deflazione, pur essendo prossimi allo zero i tassi nominali d’interesse, il costo reale del debito sale. I debitori diventano illiquidi o insolventi e sono comunque costretti a svendere beni patrimoniali per evitare di rimborsare i creditori con moneta rivalutata. Le imprese tagliano gli investimenti.
Oggi la deflazione cattiva resta soltanto un rischio sebbene, con una previsione di inflazione 2009 (proposta dal Fondo monetario internazionale il 28 gennaio) dello 0,3 per cento, le economie avanzate stiano pattinando su ghiaccio davvero sottile. I banchieri centrali, quelli europei in primo luogo, sono chiamati a contrastare il rischio di deflazione con lo stesso impegno con cui hanno contrastato l’inflazione, giungendo a innalzare i tassi d’interesse ancora l’estate scorsa, allorché l’economia europea già sfiorava la recessione. Decisiva sarà la tenuta dei salari nominali di fronte alle spinte al ribasso che verranno esercitate dall’accresciuta disoccupazione.
b)   Produzione. Negli andamenti delle attività produttive occorre distinguere il corridoio fisiologico delle fluttuazioni solo cicliche, o accidentali, e le contrazioni profonde, durature, estese. Occorre inoltre distinguere l’Ottocento, ancora molto agricolo e già non poco terziario, dal Novecento industriale, oltre che terziario. Nell’Ottocento le recessioni furono più frequenti, anche acute, ma brevi. Su scala mondiale si ebbero tre punte annuali negative negli scarti dal trend del prodotto reale: nel 1835 (-8 per cento), nel 1853 (-8 per cento), nel 1870 (-4 per cento). Nel Novecento forti e prolungate contrazioni rispetto al trend coincisero con la fine del primo (-7 per cento) e del secondo conflitto mondiale (-11 per cento).
Il primato spetta naturalmente al 1929-33. Lo scarto del PIL mondiale dal suo trend arrivò a sfiorare il 12 per cento. Fra il 1929 e il 1932-33 il PIL cadde del 30 per cento negli USA, del 15 in America latina, del 9 in Europa, del 5 in Italia. Restò stabile nell’Unione Sovietica e in Asia. Nel mondo il livello del 1932 era del 17 per cento inferiore a quello del 1929. Precipitarono soprattutto gli investimenti e la produzione di beni capitali. Negli Stati Uniti – il caso estremo – l’offerta di beni strumentali diminuì del 55 per cento, vis à vis il 20 per cento di quella dei beni di consumo (ma 70 per cento gli autoveicoli). La produzione industriale cedette, ovviamente, più del PIL: del 40 per cento in Germania e negli USA, del 23 per cento in Europa Occidentale e in Italia. Il commercio internazionale scemò di un quarto in quantità, di quasi due terzi in valore. Movimenti di capitali e flussi migratori si azzerarono. Si stima – stime incerte – che su scala planetaria il numero dei disoccupati triplicò tra il 1929 e il 1933 e che il tasso di disoccupazione industriale mediamente eccedette il 20 per cento nell’intero arco degli anni Trenta.
La ripresa fu in effetti lenta, e accidentata. La produzione manifatturiera mondiale non tornò sui valori del 1929 prima del 1937. La ripresa fu altresì diversificata, in funzione dei diversi fattori che nei singoli paesi sostennero la domanda. In ciascuna economia il sostegno derivò principalmente dal riaprirsi dell’offerta di credito e dalle svalutazioni competitive, più che dal deficit spending. Keynes stava ancora traghettando dal pur sempre ortodosso Treatise on Money (1930) alla rivoluzionaria General Theory (1936). Negli Stati Uniti l’attivismo un po’ confuso di Roosevelt contò meno della necessità di riarmare alla vigilia della guerra.
Avvicinandoci all’oggi, dal 1950 al 2007 il PIL mondiale non è mai diminuito in singoli anni, sebbene scarti negativi dal trend del 2-3 per cento si siano avuti nel 1958, 1975, 1980, 1991. Per il 2008 le stime del FMI indicano una crescita del PIL mondiale in rallentamento ma pur sempre del 3,4 per cento. Indicano altresì una espansione del commercio in volume del 4,1 per cento. Alcune economie avanzate, tuttavia, sono in recessione tecnica, con il PIL in flessione da almeno due trimestri. Per il 2009 il FMI sconta una crescita minima dell’economia mondiale: 0,5 per cento. Essa risulterebbe da una espansione del 3,3 per cento nelle economie emergenti (con la Cina al 6,7) e da una netta flessione (-2,0) delle economie avanzate (con gli USA a -1,6). In questo senso quella in corso è una crisi dell’area dell’Ocse – segnatamente di Stati Uniti, Europa, Giappone – più che dell’economia globale, sebbene anche il volume del commercio mondiale sia previsto in calo, del 2,8 per cento. Nel quarto trimestre del 2009, rispetto al quarto del 2008, le economie avanzate ancora sperimenterebbero una sia pur attenuata variazione negativa del PIL (-0,5 per cento). Nel 2010, tuttavia, il prodotto mondiale tornerebbe sul ritmo di sviluppo del 2008 (3,4 per cento), mentre l’inflazione riavvicinerebbe l’1 per cento.
Lo scenario tracciato dal FMI è non poco incerto, ma il senso della previsione è che una contrazione su scala mondiale sia, allo stato, improbabile. Queste proiezioni, va sottolineato, non considerano le ulteriori politiche espansive che potranno essere decise d’ora in avanti, nel 2009, con effetti immediati sulle aspettative. Va sottolineato inoltre che, a differenza del 1929, i movimenti dei capitali e i flussi migratori non si sono azzerati, non vi è traccia di svalutazioni competitive (anzi il dollaro si è rafforzato), i tassi reali di interesse restano su livelli normali.
Due termini di paragone aggiuntivi possono essere rilevanti. Nel 1930 – il primo anno di recessione nella crisi del 1929-33 – il PIL diminuì del 5 per cento sia nell’area industrializzata che fu epicentro della recessione mondiale sia nell’intera economia del globo, nonostante la tenuta in Asia e la crescita (del 10 per cento) nell’Europa dell’Est. In termini di scarto cumulato del prodotto effettivo da quello potenziale – la misura più accurata della gravità di una recessione – la perdita di reddito delle economie avanzate attualmente prevista dal FMI per il 2009-2010 (6 punti percentuali) è simile a quelle sperimentate nel 1974-75, dopo il primo shock petrolifero, e nel 1980-83, dopo il secondo shock petrolifero.
c)    Finanza. Sul fronte dei prezzi e della produzione l’analogia della fase attuale con la drammaticità della crisi del 1929 appare quindi destituita di fondamento. Più complessa è invece la comparazione delle due crisi nella instabilità dei valori patrimoniali, bancari, finanziari.
Nel quadro delle normali fluttuazioni da moltiplicatore-acceleratore, ma anche indipendentemente dal ciclo, la meccanica delle crisi di finanza è unica. E’ tipizzata in un modello standard, via via affinato, dopo Henry Thornton (1802), da Bagehot, Wicksell, Hawtrey, Fisher, Keynes, Minsky, Kindleberger. Un evento imprevisto dischiude nuove aspettative di lucro. La speculazione rialzista monta. Alimentata da un’offerta di credito inevitabilmente elastica, diventa smodata. Allorché – incertus quando, certus an – l’eccesso comincia ad apparire evidente, si svende in fretta per rimborsare il debito, stanti le attese di deflazione e i più onerosi tassi reali d’interesse. Crollano allora i prezzi dell’oggetto della speculazione, che può essere qualsivoglia: prodotti, immobili, terreni, azioni, obbligazioni, contratti, scommesse. Il circolo vizioso si arresta allorché la fiducia viene ripristinata dalla politica economica, o semplicemente torna. Il significato ultimo del modello è che l’instabilità è radicata nel capitalismo. Delle crisi può darsi la cura, il contenimento, il rinvio, mai con certezza la prevenzione.
Nella crisi attuale l’eccesso speculativo si è incentrato sulle case e sui mutui proposti dalle banche a cinque milioni di famiglie povere in America, ancora sugli immobili in altri paesi occidentali, sui derivati e sui titoli “tossici” quasi ovunque. Ottanta anni fa l’eccesso speculativo si incentrò sulle azioni, in prevalenza industriali. La propensione all’indebitamento eccessivo – di famiglie, imprese, speculatori – trovò, come sempre trova, un’offerta di credito bancario e non bancario con segmenti dalla incontrollabile elasticità.
In stridente contrasto con la regolarità morfologica tipizzata dal modello standard, la casistica empirica delle crisi è di una varietà disarmante. Ogni crisi è specifica, nelle forme, nei tempi, nella gravità, nelle ripercussioni politiche e sociali. In questo senso è oggetto di storia, più che di teoria.
Le fasi di crisi finanziaria davvero grave su scala mondiale precedenti l’attuale sono state tre: 1873-1878, 1889-1894, 1921-1933. La prima e la terza hanno coinciso, la seconda non ha coinciso, con cedimenti del PIL a livello internazionale. In effetti, storicamente non sono rari gli scompensi finanziari che hanno mancato di risolversi in contrazione del reddito. La crisi venne circoscritta da avvenimenti o da provvedimenti che ristabilirono in tempo la fiducia.
Intercorrono due secoli fra il caso di Londra del 1793 e quello di Wall Street del 1987, ma l’intervento esterno fu in entrambe le occasioni risolutivo. Nel 1793 il panico si diffuse nella City a seguito del crack di banche operanti fuori Londra. La domanda di biglietti della Bank of England crebbe a dismisura, per ragioni precauzionali; la stretta si fece rapidamente durissima. Ma la catena dei dissesti bancari venne spezzata e non si estese al mondo della produzione. Bastò l’annuncio del Parlamento di porre a disposizione dei mercanti solvibili titoli dello Scacchiere, a breve e facilmente liquidabili: moneta con cedola. Nell’ottobre del 1987 il crollo da primato storico dei corsi azionari a Wall Street – peggiore che nell’ottobre del 1929 – venne bloccato dalla pronta correzione di segno della politica monetaria americana, attuata da Greenspan. L’immissione di liquidità evitò che l’attività produttiva venisse intaccata.
Altri episodi di tensione finanziaria rientrata per accidente o per intervento esterno si sono avuti in Inghilterra nel 1797, 1810, 1825; in Francia nel 1818; negli Stati Uniti e in Europa nel 1857; di nuovo in Inghilterra nel 1866 e nel 1890; in Italia nel 1907, nonostante una caduta di borsa dell’80 per cento tra quell’anno e le cosiddette “radiose giornate” del maggio 1915.
Per non riandare tanto indietro, dopo il 1987 sono stati contenuti i danni per l’economia internazionale derivanti dalle crisi finanziarie asiatiche, latino-americane, dell’Est europeo, dello SME, dello LTCM. Anche in questi casi è stato prezioso l’apporto del Federal Reserve di Alan Greenspan.
Al contrario, allorché una forte contrazione produttiva vi è stata – specie se unita, come nel 1929, a deflazione dei prezzi – essa non ha mancato di interagire con una crisi finanziaria. La crisi detta del “1929” fu la più pesante, per entità e per durata, anche nella dimensione finanziaria. La si può quantificare con la sommatoria delle perdite bancarie scalate per il PIL di un anno rappresentativo e con la flessione dei corsi azionari deflazionati per i prezzi al consumo. Tra il 1921 e il 1933 nei due paesi sino ad allora a più alta instabilità finanziaria fra quelli oggi sviluppati – l’Italia e gli Stati Uniti – le perdite bancarie – accertate anni dopo da contabili e tribunali – furono pari al 5 per cento del PIL negli Stati Uniti e all’8 per cento in Italia; le borse crollarono del 50 per cento in Italia nel 1925-1932, come negli Stati Uniti nel 1929-33 (-85 per cento i valori nominali, -30 per cento i prezzi al consumo). In Italia si dovette ricorrere alla eterodossa soluzione dell’IRI, che evitò il panico bancario sperimentato negli USA e che oggi, mutatis mutandis, torna a suscitare interesse, anche fuori d’Italia.
Per singoli paesi piccoli o emergenti il quadro è in realtà altamente variegato, con punte anche molto più gravi rispetto ai due casi appena evocati. Già l’Austria nel 1931 accusò perdite bancarie legate al Kredit-anstalt – grossa banca in piccola economia – pari al 9 per cento del PIL. Nell’ultimo quarto del Novecento in Italia – merito di Via Nazionale – il costo cumulato delle crisi bancarie non ha superato l’1,5 per cento del PIL di un anno rappresentativo. Ma fra i paesi industriali che in quei venticinque anni hanno sperimentato crisi la cifra italiana è inferiore non solo ai casi limite della Spagna (17 per cento del PIL), del Giappone (12 per cento), della Finlandia (10 per cento), ma anche a quelli – compresi fra il 2 e il 5 per cento del PIL – di Svezia, Norvegia, Stati Uniti, Francia, Australia. Nello stesso periodo un centinaio di economie in via di sviluppo hanno sperimentato crisi finanziarie. In questi paesi i costi della crisi non sono stati inferiori a numerosi punti di PIL, con un valore modale di 15 punti. I costi sono giunti a commisurarsi a un terzo del PIL in Tailandia e Turchia, alla metà o poco meno nei casi estremi dell’Argentina e del Cile nei primi anni Ottanta.

II

Non è facile situare la crisi finanziaria odierna in questa ampia scala di gravità. La crisi non è risolta, le stime delle perdite sono approssimative, parte di quelle sinora conteggiate – al fair value – riguardano titoli “tossici” che i mercati sottovalutano o addirittura per ora non prezzano. Soprattutto, la crisi è sorta e si è concentrata nella finanza anglosassone, ma ha anche assunto una vasta dimensione internazionale, se non “globale”.
La flessione dei corsi azionari deflazionati per i prezzi nelle principali borse valori – 50 per cento circa – è, già oggi, non dissimile da quella di ottanta anni fa. Secondo il FMI le perdite sinora subite dalle banche internazionali sono pari a 780 miliardi di dollari (interamente coperte con apporti di capitale, pubblico per 350 miliardi, privato per 438). Le ulteriori perdite previste si ragguagliano a 500 miliardi per le banche statunitensi ed europee. Il sistema mondiale degli intermediari creditizi potrebbe perdere 2.200 miliardi soltanto sugli investimenti (per oltre metà di natura ipotecaria) effettuati negli Stati Uniti. Se – come non è – queste ultime perdite fossero limitate agli intermediari statunitensi, essendo il PIL americano pari a 14 mila miliardi, il peso relativo delle perdite sarebbe ben maggiore (16 per cento del PIL) di quello degli anni Venti e Trenta, sempre negli Stati Uniti. Ma il PIL americano non supera di molto il 20 per cento di quello mondiale, che è prossimo ai 65 mila miliardi di dollari. E financo 2.200 supera… non di molto il 3 per cento di 65 mila. Il denominatore conta. Se si cambia denominatore, capitale e riserve delle banche della sola Europa superano i 2 mila miliardi di dollari. La capitalizzazione dell’intero sistema bancario mondiale è stimabile in oltre 5 mila miliardi. Perché questo capitale, nettamente superiore al totale delle perdite, fluisca e ripiani gli utili negativi degli intermediari in difficoltà, le banche forti di qualunque paese – o i fondi sovrani – devono poter ricapitalizzare le banche deboli di qualunque paese.
Viviamo quindi una crisi finanziaria complessa e particolarmente estesa, anche se non ancora la più grave della storia. Al tempo stesso, si tratta di una crisi dalla tipologia essenziale inscrivibile nel modello standard. La specificità riguarda, come sempre nelle crisi, l’oggetto e le forme della speculazione: semplici mutui per l’acquisto di abitazioni modeste, complicati titoli “tossici”, contratti derivati incomprensibili ai più. Riguarda altresì – vero elemento nuovo – la modalità contabile del fair value: modalità concettualmente preferibile al costo storico, ma fondata sull’assunto che i mercati ai cui cespiti essa si applica non cessino di esprimere quotazioni, o quotazioni ragionevoli.
Come tutte le crisi finanziarie, anche quella attuale non era prevedibile – e non è stata prevista – quanto meno non nei tempi, nei modi, nell’entità, nelle sequenze. Soprattutto, non era prevenibile con regole, politiche economiche, controlli. Norme e supervisione sono capaci di fronteggiare i rischi noti, storicamente sperimentati, assunti da banche commerciali. Possono poco contro i rischi assunti nei mercati finanziari e contro i rischi di tipo nuovo di banche e mercati. Banche e soprattutto mercati non erano mai stati, su scala mondiale, tanto regolati per stabilità e segnatamente per trasparenza e correttezza di comportamento degli operatori. Ma nell’offerta di finanza una parte innovativa , opaca, smodatamente avida c’è sempre. Inoltre, non è possibile limitare – entro quali soglie critiche? – la propensione di imprese e famiglie a caricarsi di debiti.

III

Di fronte a una crisi finanziaria grave, di dimensione internazionale, governabile ma certo non facile da governare si deve constatare che, stando alle previsioni più accreditate, una contrazione dell’economia mondiale stile 1929 non è alle viste. Non lo è se si condivide la previsione, in questo momento prevalente tra gli analisti, di una ripresa nello scorcio del 2009 e nel 2010. Perché? Dov’è la differenza profonda tra oggi e allora? Si può prospettare una duplice risposta. I preesistenti squilibri nell’economia reale sono diversi da quelli degli anni Venti. Inoltre, sia l’efficacia delle politiche stabilizzatrici dell’economia reale sia la fiducia in tale efficacia sono, grazie a Keynes, molto maggiori.
La gravità unica della contrazione degli anni Trenta affondava le radici negli squilibri del decennio precedente. Gli anni Venti videro quattro mutamenti di struttura che si rivelarono gravemente prociclici nel decennio successivo: a) la fragilità e la scarsa cooperazione nel ripristinato gold standard; b) gli scompensi nelle bilance dei pagamenti – fra cui le riparazioni tedesche – e l’assenza di un paese prestatore di ultima istanza, nel commercio e nel credito; c) l’accresciuto peso dei consumi durevoli negli Stati Uniti (finanziati a rate), l’ampia offerta di prodotti primari in Canada, Argentina, Nuova Zelanda e negli stessi Stati Uniti, come pure l’eccesso di capacità nelle produzioni industriali moltiplicatesi in Europa durante la prima guerra; d) infine, l’irrigidimento del mercato del lavoro statunitense. Queste e altre strutturali debolezze costituivano tendenziali motivi di ristagno della domanda effettiva. Come Steindl, Sweezy, Sylos Labini per vie diverse avrebbero poi teorizzato, tali fattori rendevano alla lunga insostenibili i profitti degli anni Venti. Infine, era dominante nel pensiero economico – con Pigou, Hayek, Einaudi, Robbins – l’idea pre-keynesiana che la crisi dovesse seguire un suo naturale decorso e che l’economia di mercato, con la flessibilità di prezzi, tassi d’interesse e salari, disponeva di meccanismi riequilibratori che era bene non turbare. Per i pratici e per i responsabili della politica economica, quindi, non ha senso parlare di “errori”, come invece ha fatto Friedman attribuendo la crisi del 1929 alla morte prematura di Benjamin Strong, il saggio capo della Fed di New York. Errata era la teoria di riferimento. Su di essa non potevano non fondarsi le decisioni dei policy makers, a cominciare da Herbert Hoover, lo sfortunato presidente degli Stati Uniti nella crisi, il “Grande Ingegnere”, il tecnocrate … purtroppo colto in economia, certo ben più dell’avvocato Roosevelt. Allora, la scintilla che innescò il potenziale di crisi accumulato negli anni Venti fu l’orientamento restrittivo assunto dalla politica monetaria americana nel 1928. Di fronte alla speculazione borsistica al rialzo, la Fed sterilizzò gli afflussi d’oro: una piccola coda agitata da un molosso.
Oggi siamo giunti alla crisi di finanza essenzialmente con uno squilibrio macroeconomico strutturale: l’enorme indebitamento netto verso l’estero del paese leader, gli Stati Uniti. La gravità potenziale di un vero e proprio crollo del dollaro, impennata dei tassi d’interesse, stagflazione dirompente e contagiosa negli Stati Uniti è stata denunciata per anni, in specie dagli europei. Nello stesso Financial Stability Forum, istituito nel 1999 per il coordinamento della supervisione finanziaria internazionale, i timori si sono appuntati su questo squilibrio macroscopico, oltre che sulla speculazione edilizia, sugli hedge funds e sugli off-shore centers. E tuttavia il rischio era calcolato. Era calcolato dall’oggi vilipeso Greenspan, la cui politica monetaria e di vigilanza bancaria ha peraltro consentito agli Stati Uniti una crescita annua del 3 per cento per due decenni e ha sventato in più occasioni crisi di finanza potenzialmente acute e diffuse. Nella ignavia europea lo sviluppo degli USA, insieme con quello cinese, ha tonificato l’economia mondiale. Quel rischio era soprattutto calcolato nel concerto di fatto fra la politica estera degli Stati Uniti – il grande debitore – e quella di Cina e Giappone, i principali creditori. Almeno sinora questo pur precario equilibrio ha retto e il crollo del dollaro non c’è stato. La scintilla che ha rovesciato le aspettative degli speculatori su mutui, titoli e derivati non è stata il dollaro, ma forse l’imprevedibile e difficilmente comprensibile decisione dell’amministrazione Bush di far fallire la casa finanziaria Lehman.

IV

Alcune considerazioni, disperatamente tese a intravedere barlumi di luce alla fine del tunnel, possono suffragare la previsione, forse relativamente benigna, del FMI:
1)   La Cina, nuovo motore della crescita mondiale, vero prestatore di ultima istanza, crescentemente consapevole di esserlo.
2)   La resilienza dei salari e quindi dei prezzi verso il basso nei paesi industriali.
3)   All’opposto, la flessibilità verso il basso delle quotazioni internazionali dell’energia.
4)   La moderazione dei tassi d’interesse reali a lungo termine, in assenza di deflazione dei prezzi.
5) La condizione debitoria delle imprese, a differenza di quella delle famiglie relativamente contenuta. Nel 2007, alla vigilia della crisi, negli stessi Stati Uniti l’indebitamento delle imprese era – come in Italia e in Germania – inferiore ai ¾ del PIL, rispetto a valori prossimi o superiori al 100 per cento in Giappone, Francia, U.K., Spagna. Il debito delle imprese americane era altresì pari al 35 per cento delle loro passività (rapporti di leverage, ai prezzi di mercato) – come in Francia – rispetto al 40 per cento negli altri paesi menzionati: valori comunque non maggiori di quelli mediamente riscontrati nel decennio precedente. Sempre negli USA, l’indebitamento delle famiglie in rapporto al reddito disponibile si ragguagliava a 1,45 (1,03 nel 2000): un valore molto più elevato di quello medio nell’area dell’euro (0,93; 0,74 nel 2000), ancorché inferiore a quello dello U.K. (1,60; 1,03 nel 2000) e a quello, abnorme, dei Paesi Bassi (2,40; 1,60 nel 2000).
6)   Il prevalere del credito inside sul credito outside. Una quota maggiore che nel passato riguarda rapporti finanziari fra intermediari. Non tocca direttamente le unità finali di spesa, famiglie e imprese. Inoltre, i contratti derivati con finalità speculative, e non assicurative, si configurano spesso come scommesse, con un perdente che forse spenderà meno, ma anche con un vincente che potrà spendere di più. E’ l’analogo della critica 1944 di Kalecki – più inside money che outside money – al real balance effect di Pigou.
7)   Infine, copia della General Theory… è in tutte le librerie, comprese quelle di Francoforte. E’ a disposizione di governanti e banchieri centrali, sperabilmente più pragmatici degli economisti neoclassici. Sappiamo, da Keynes e dall’esperienza, come evitare una contrazione forte dell’attività economica. Investimenti pubblici produttivi e detassazione temporanea e ad alta progressività, uniti a sblocco dell’interbancario e offerta di credito resa elastica dando liquidità, garanzie e capitale agli intermediari costituiscono la diga, da consolidare e da innalzare al più presto, per contenere l’ondata recessiva. L’ultima Thule è il “teorema di Haavelmo”, insito nel fatto che la spesa pubblica è oggi intorno al 40 per cento del PIL mondiale, non a meno del 20 come negli anni Trenta. Occorre una abilità non-keynesiana davvero speciale, affinché i policy makers di Stati Uniti, Europa e Giappone manchino di evitare una contrazione più profonda e lunga di quella, già grave, oggi prevista.

Naturalmente, neanche l’ottimismo più argomentato può escludere che questa crisi si riveli fortemente recessiva. L’esito finale è imprevedibile, come sempre sono state le crisi del capitalismo. Keynes ha in via definitiva chiarito che il capitalismo è intrinsecamente instabile, oltre che iniquo, inquinante, spesso ingovernabile. E’ tuttora socialmente e politicamente accettato perché in duecento anni si è dimostrato capace di moltiplicare per dieci il reddito medio pro capite dell’umanità: quel reddito che nei precedenti 18 secoli, da Cesare Augusto a Robert Malthus, non era salito più del 40 per cento.