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Molti buoni motivi in favore di un global green new deal

di - 7 Maggio 2014
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L’economia americana “esce dalla crisi” degli anni ’30 anche grazie a questi interventi e, sebbene abbiano introdotto cambiamenti sostanziali nel funzionamento del mercato, quali il diritto allo sciopero e alla costituzione dei sindacati, oltre che deboli forme di social security, essa può riprendere il sentiero di crescita pre-crisi. Il modello non è in discussione, ha solo subito una forte crisi dalla quale è riemerso. Si può senz’altro riconoscere che oggi, come negli anni ‘30 di Roosvelt, vi sia necessità di regolamentare un mondo finanziario fuori controllo, in ciò aiutato dai mezzi tecnologici oltre che dalla globalizzazione, e di investimenti pubblici capaci di creare occupazione e rinnovare il tessuto delle infrastrutture. Ma a differenza di allora oggi dobbiamo tener conto del cambiamento climatico e della sostenibilità della crescita e perciò questa crisi potrebbe essere “la” grande occasione per iniziare la transizione verso una società a basso carbonio, una low carbon society come si usa dire. Non basta regolamentare il settore finanziario per la protezione dei cittadini comuni e ricorrere a “stimoli pubblici” [4] per recuperare i livelli di occupazione persi in tutti i paesi. Il modello di produzione e consumo è oggi in discussione proprio per la sua insostenibilità, scientificamente basata[5] e dunque in aperta contraddizione con l’impegno, più che venticinquennale, allo “sviluppo sostenibile”[6] da parte dei G20.
I pilastri del green new deal sono sostanzialmente due: la riduzione della dipendenza dal carbonio e la riduzione della scarsità ecologica. Per ottenere la prima occorre che le attività di produzione e consumo generino minori emissioni di CO2 mentre per ottenere la seconda occorre che assorbano minori quantità di risorse naturali per unità di prodotto. Perseguendo questi obiettivi di lungo periodo si ottiene, nel breve/medio termine, stimoli alla creazione di nuovi posti di lavoro data la elevata intensità di lavoro che caratterizza gli interventi strutturali necessari ad ottenerli. In sostanza perciò gli “stimoli verdi” per la ripresa possono essere i più vari perché saranno tutti quelli che, per esempio, non fanno aumentare la combustione di fossili per produrre energia ma ne migliorano l’efficienza e il risparmio, allargano l’offerta di quella “pulita”, migliorano la sostenibilità dei trasporti ecc.[7] Oppure quelli necessari ad adeguare le infrastrutture per la raccolta e il deflusso delle acque piovane, alle mutate tipologie delle piogge, oggi molto più concentrate e violente che in passato; o ancora, investimenti destinati al recupero delle aree industriali e commerciali dismesse (brown field) per ridurre la necessità di altro consumo di suolo (green field) e la sua crescente sigillazione, fenomeni che aggravano di molto i danni derivanti dalle mutate piogge e sia nei centri urbanizzati che in zone agricole e montane[8]. Ciò significa che le spese in infrastrutture oggi necessarie sono legate alle esigenze di “adattamento” ai cambiamenti climatici già avvenuti[9] e alla “mitigazione” di quelli futuri[10].
Dunque, se da un lato la necessità di “stimoli verdi” sembra inconfutabile, dall’altro c’è da chiedersi se sia sufficiente. In altre parole, gli impatti di questi stimoli sarebbero sufficienti ad innescare la “ripresa verde” e a trasformare l’economia mondiale in un sistema più sostenibile nel lungo periodo? Secondo uno studio recente[11] la risposta è negativa e vi sarebbe pertanto la necessità di affiancare ad essi una politica economica ambientale attiva. Questa è la filosofia di fondo del Blueprint che efficacemente completa il quadro del green new deal. Gli impatti degli stimoli non sarebbero infatti duraturi perché nei mercati si combinano gli effetti distorsivi di “sussidi perversi”[12] e la mancanza di regolamentazioni ambientali atte a far includere nei prezzi le esternalità di inquinamento e la crescente scarsità delle risorse naturali. In assenza di regolamentazioni correttive ed anzi in presenza delle “distorsioni” citate, gli effetti degli stimoli verdi sarebbero ridotti e di breve durata. Le esperienze dei pacchetti energia lo confermano.
Un efficace green new deal richiede dunque che le esternalità da inquinamento e la scarsità ecologica, siano corrette tramite interventi di politica ambientale. Ciò che è stato fatto finora, e con grande differenziazione tra i paesi, è molto al disotto di ciò che dovremmo mettere in pratica. Alcuni paesi sono più virtuosi di altri; quelli europei sembrano più sensibili di altri appartenenti ad aree geografiche diverse e tra questi certamente il gruppetto dei paesi scandinavi fa da capo fila[13]. In generale però quello che è sinora mancato sono iniziative comuni globali in assenza delle quali non si possono risolvere i problemi globali quali il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la riduzione dei pesci negli oceani, ecc. E se nel corso degli ultimi anni qualcosa è stato ottenuto a livello internazionale (Trattato di Montreal, Protocollo di Kyoto), senza una Global Policy Initiative per affrontare congiuntamente i problemi di lungo periodo, le promesse della green economy non si concretizzeranno nella trasformazione dell’attuale modello. Anzi si può immaginare che in assenza di iniziative globali e data la dipendenza energetica mondiale da fonti fossili, non appena la congiuntura economica tornerà al bello e si riprenderà il sentiero di crescita senza cambiamenti sostanziali, il prezzo dell’energia salirà. L’International Energy Agency (IEA) prevede che il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i 180 $ al barile in risposta ad un aumento della domanda del 45% ad opera dai paesi emergenti quali Brasile, Cina ed India[14]. Se ciò avvenisse seguirebbe un sostanziale aumento del costo dell’energia che soffocherebbe la ripresa economica e peggiorerebbe le condizioni di vita dei paesi più poveri perché, come è avvenuto nel 2008, l’aumento del costo dell’energia si ripercuote nell’aumento dei prezzi del cibo (food) aggravando i problemi di povertà di intere popolazioni e con essi i rischi di instabilità sociale nel mondo. Inoltre, ritornando sul solito sentiero di crescita che ottiene l’80% dell’energia da fonti fossili, l’accresciuto consumo di energia da parte dei paesi emergenti, aggraverebbe i problemi del cambiamento climatico. Per evitare questi pericoli e cercare di cambiare il modello globale di crescita, occorre appunto sviluppare una strategia globale. Questa, secondo il Blueprint, dovrebbe svilupparsi su tre direzioni: i) adottare pratiche di prezzi verdi; ii) creare mercati globali per i più importanti impatti ambientali (non solo CO2); iii) immaginare nuove strategie di sviluppo. Per soddisfare il primo requisito basterebbe fare ricorso, nei singoli paesi, agli strumenti, ampiamente analizzati e messi a punto in letteratura, quali tasse pigouviane, sistemi di diritti negoziabili e altri strumenti di mercato del tipo cap-and-trade.

Note

4.  Non entriamo nel dibattito tra i sostenitori dell’austerità ad ogni costo vs i sostenitori della crescita. Il punto centrale è la crisi climatica che si aggrava con la crisi economica mentre se i paesi fossero convinti di dover far qualcosa per curare innanzitutto il clima potrebbero ottenere anche la recovery dell’economia secondo un diverso modello di produzione e consumo sostenibile.

5.  È appena uscito il contributo dell’Working Group 1, all’IPCC, Fifth Assessment Report, “Climate Change 2013: the Physical Science Basis” www.climatechange2013.org

6.  Rapporto UN, Our Common Future, 1987 altrimenti noto anche come Rapporto Brundtland dal nome della presidente del comitato di ricerca estensore dello stesso.

7.  Per chi fosse interessato, Barbier verifica quanto gli stimoli messi in atto dai diversi paesi nel 2009 possano essere considerati “verdi”, fatta l’assunzione conservativa che tali siano quei pacchetti nei quali la spesa pubblica verde sia almeno 1/4 dell’intero pacchetto oppure rappresenti  l’1% del PIL. Applicando questi criteri gli interventi risultano ben poco verdi.  op.cit. p. 20 e 21.

8.  EEA, Flood Risk in Europe: the Long-term Outlook, 2013

9.  La maggiore concentrazione  delle piogge  richiede sistemi di raccolta specifici, più ampie zone di deflusso intorno a fiumi e torrenti, adeguamenti nei sistemi fognari, minore sigillazione (soil sealing) ecc. Nel nostro paese queste esigenze si aggiungono alle necessità di investimenti “tradizionali” per il miglioramento degli acquedotti, per il completamento dei sistemi fognari su tutto il territorio e per la installazione dei depuratori, da anni sottodimensionati rispetto agli impegni comunitari e origine di controversie, condanne e multe. Infine  soltanto un cenno alle drammatiche necessità di investimenti nel settore dei rifiuti per mettere in sicurezza discariche legali e illegali; per attrezzarsi al riciclo e alla loro valorizzazione  nella produzione di energia.

10.  Com’è noto, per evitare che la concentrazione dei gas serra superi la soglia di innalzamento della temperatura di 2 gradi centigradi – soglia della irreversibilità climatica – occorre ridurre il flusso di emissioni corrispondentemente. Un modo per  contribuire a questo risultato è l’investimento in energie pulite.

11.  Barbier E.B.-Markandya A, A New Blueprint for a Green Economy, Routledge, London-New York,2013

12.  Sulla necessità di eliminare i sussidi perversi e che per esempio hanno alimentato il trasporto su strada delle merci a scapito della ferrovia, e di internalizzare le esternalità, insiste molto l’OECD, documentando  l’esistenza di questi sussidi perversi ed esternalità non corrette e dandone la relativa quantificazione. Si veda, Towards Green Growth, 2011. Può sorprendere che non si riesca ad eliminare i sussidi perversi dato il loro controsenso:  i contribuenti pagano per essere danneggiati!

13.  A questi paesi, con la Svezia in prima posizione, dobbiamo ricorrere se vogliamo esempi di buone pratiche come introduzione di carbon tax e congestion charge; autosufficienza delle città; smart cities et al.

14.  IEA, www.iea.org

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