Molti buoni motivi in favore di un global green new deal

Il green va di moda: molto nei discorsi, pochissimo nei fatti. L’operazione di marketing mediatico della green economy è riuscita così bene da averne svuotato il contenuto e relegato gli economisti ambientali nell’angolo di chi è contro progresso e crescita. Per questo le loro ricette sono del tutto inapplicate. Eppure rischi e danni economici del cambiamento climatico sono globalmente crescenti e non circoscritti ai paesi meno sviluppati tant’è che con l’innalzamento del livello dei mari per esempio, non solo Calcutta rischia di essere sommersa ma anche New York e Londra, per non parlare degli atolli e isolette oceaniche già in difficoltà. Inoltre, da quando è iniziata la crisi economica, l’attenzione verso i problemi ambientali è addirittura diminuita e perfino nell’approccio si registra un arretramento culturale verso posizioni a-scientifiche del tipo si “crede o non-si crede” al cambiamento climatico e alle responsabilità dell’uomo . Le questioni ambientali vengono così banalizzate nella contrapposizione tra il partito che crede e quello che non crede e la scienza, dopo più di 200 anni di affermazioni dal secolo dei lumi, si trova marginalizzata e costretta a una difesa anacronistica. La dittatura del PIL fa poi sì che i policy makers di tutti i paesi, salvo rarissime eccezioni, assumano un atteggiamento di sufficienza rispetto ai problemi ambientali perché, di fronte ai seri problemi della crisi economica essi sarebbero del tutto secondari e come tali in grado di aspettare. Questa loro posizione, sostanzialmente condivisa da un’opinione pubblica superficiale e male informata, è intrinsecamente errata perché porre mano ai problemi ambientali potrebbe fare aumentare PIL e occupazione, come sostengono alcuni noti economisti in favore di un green economic model e avanzano ricette che potrebbero alleviare contemporaneamente la crisi economica e quella climatica. Ma, come dicevo all’inizio, sono ghettizzati e la loro voce non riesce a farsi largo nel chiasso dei mercati finanziari. E infatti anche l’ultima conferenza delle NU sui cambiamenti climatici (la COP 19), svoltasi a Varsavia dall’11 al 22 novembre scorso, e alla quale hanno partecipato delegati di 190 paesi, è stata un fallimento nonostante che eventi metereologici estremi si fossero verificati pochi giorni prima del suo inizio a ricordare la concretezza delle questioni[1]. Il tifone Haiyan aveva prodotto pochi giorni prima (3-11 novembre) almeno 6201 morti, 1785 dispersi e 10000 vittime nelle Filippine soltanto[2]. Dagli anni ’80 gli scienziati del clima avvertono che con l’innalzamento della temperatura della terra e degli oceani, a seguito della crescente concentrazione di gas ad effetto serra originati per l’80% dall’attività umana[3] di combustione dei fossili, gli eventi estremi, proprio come il tifone Haiyan, crescono di numero e di intensità e con essi i danni economici conseguenti. Ma i delegati alla discussione sui cambiamenti climatici, decisamente rappresentativi dei loro governi, hanno liquidato con qualche retorico commento il tifone Haiyan, i suoi danni e le sue vittime.
Dunque in questo contesto di ignoranza, pregiudizi e azioni di lobby senza scrupoli, il Green New Deal quale strumento per la transizione dall’attuale brown model ad un green model deve fare ancora molta strada per essere almeno conosciuto, figuriamoci messo in pratica, nonostante i suoi contenuti siano stati chiaramente delineati già nel 2009. Nel 2008 infatti la comunità dei G20 sembrava disposta a contrastare gli shocks nei prezzi di food & fuel dell’anno precedente, oltre che l’emergente crisi finanziaria, con “stimoli fiscali” ad hoc. Ammesso che la crisi fosse facilmente superabile, come allora molti pensavano, c’era da chiedersi se la ripresa dell’economia sarebbe potuta essere duratura e sostenibile. L’United Nations Environment Programme (UNEP) decide di affrontare la questione e promuove uno studio per verificare quanto un modello di green economy potesse essere capace di indurre la ripresa e renderla sostenibile. Lo studio, affidato a Barbier, ben si prestava ad essere visto, quanto a finalità e strumenti, come una riedizione del New Deal di Roosevelt in chiave Green per rispondere ai problemi delle economie mondiali, tutte eccessivamente dipendenti dal carbonio ed esposte alla crescente scarsità delle risorse naturali. Lo studio messo a disposizione dell’UNEP nel 2009 e poi pubblicato l’anno successivo, porta l’eloquente titolo: A Global Green New Deal che richiama l’attenzione sulla necessità che gli stimoli pubblici per la ripresa siano di tipo verde e globale. Segue un altrettanto eloquente sottotitolo: Rethinking Economic Recovery per confermare, se mai ce ne fosse bisogno, che gli stimoli, di ispirazione roosveltiana, devonooggi riflettere le condizioni economiche presenti, alquanto mutate rispetto alla grande crisi del secolo scorso. Al centro di questo mutamento vi sono le condizioni ambientali lato sensu. L’analogia con gli anni ’30 può  aiutare a capire il tipo e la gravità della crisi attuale ma può spingersi poco oltre la constatazione che ora come allora l’origine finanziaria ha investito e trascinato l’economia reale. Le condizioni dell’economia reale sono molto diverse nella sostanza. Oggi gli stimoli per la ripresa non possono essere semplicemente capaci di fare “uscire dalla crisi”, come si usa comunemente dire, per poi tornare, una volta usciti, al modello di crescita pre-crisi. Tale modello di crescita, scaturito dalla rivoluzione industriale e che ha avuto l’indubbio merito di far accrescere enormemente PIL e popolazioni globali, oggi e globalmente, non è più sostenibile. Dunque il green new deal non è solo un ricettario pensato per uscire dalla crisi ma è un mezzo per iniziare concretamente la transizione da un modello di crescita ormai insostenibile ad uno sostenibile, mentre si procede a risanare l’economia . In altre parole, esso promette di risolvere/ alleviare contemporaneamente la crisi economica e la crisi climatica.
Nella filosofia del New Deal di Roosevelt possiamo individuare due linee di interventi per contrastare le maggiori cause all’origine della depressione. Da un lato occorreva regolamentare meglio il settore delle banche e della finanza e dall’altro intraprendere investimenti in infrastrutture per accrescere la produttività del sistema e la domanda globale. L’Emergency Banking Act, il Federal Deposit Insurance Corporation, la sospensione del Gold Standard, sono alcuni degli interventi del primo tipo mentre la costruzione della diga di Hoover, i programmi di elettrificazione della Tennessee Valley Authority, il National Industrial Recovery Act, il Social security Act sono interventi del secondo tipo.

L’economia americana “esce dalla crisi” degli anni ’30 anche grazie a questi interventi e, sebbene abbiano introdotto cambiamenti sostanziali nel funzionamento del mercato, quali il diritto allo sciopero e alla costituzione dei sindacati, oltre che deboli forme di social security, essa può riprendere il sentiero di crescita pre-crisi. Il modello non è in discussione, ha solo subito una forte crisi dalla quale è riemerso. Si può senz’altro riconoscere che oggi, come negli anni ‘30 di Roosvelt, vi sia necessità di regolamentare un mondo finanziario fuori controllo, in ciò aiutato dai mezzi tecnologici oltre che dalla globalizzazione, e di investimenti pubblici capaci di creare occupazione e rinnovare il tessuto delle infrastrutture. Ma a differenza di allora oggi dobbiamo tener conto del cambiamento climatico e della sostenibilità della crescita e perciò questa crisi potrebbe essere “la” grande occasione per iniziare la transizione verso una società a basso carbonio, una low carbon society come si usa dire. Non basta regolamentare il settore finanziario per la protezione dei cittadini comuni e ricorrere a “stimoli pubblici” [4] per recuperare i livelli di occupazione persi in tutti i paesi. Il modello di produzione e consumo è oggi in discussione proprio per la sua insostenibilità, scientificamente basata[5] e dunque in aperta contraddizione con l’impegno, più che venticinquennale, allo “sviluppo sostenibile”[6] da parte dei G20.
I pilastri del green new deal sono sostanzialmente due: la riduzione della dipendenza dal carbonio e la riduzione della scarsità ecologica. Per ottenere la prima occorre che le attività di produzione e consumo generino minori emissioni di CO2 mentre per ottenere la seconda occorre che assorbano minori quantità di risorse naturali per unità di prodotto. Perseguendo questi obiettivi di lungo periodo si ottiene, nel breve/medio termine, stimoli alla creazione di nuovi posti di lavoro data la elevata intensità di lavoro che caratterizza gli interventi strutturali necessari ad ottenerli. In sostanza perciò gli “stimoli verdi” per la ripresa possono essere i più vari perché saranno tutti quelli che, per esempio, non fanno aumentare la combustione di fossili per produrre energia ma ne migliorano l’efficienza e il risparmio, allargano l’offerta di quella “pulita”, migliorano la sostenibilità dei trasporti ecc.[7] Oppure quelli necessari ad adeguare le infrastrutture per la raccolta e il deflusso delle acque piovane, alle mutate tipologie delle piogge, oggi molto più concentrate e violente che in passato; o ancora, investimenti destinati al recupero delle aree industriali e commerciali dismesse (brown field) per ridurre la necessità di altro consumo di suolo (green field) e la sua crescente sigillazione, fenomeni che aggravano di molto i danni derivanti dalle mutate piogge e sia nei centri urbanizzati che in zone agricole e montane[8]. Ciò significa che le spese in infrastrutture oggi necessarie sono legate alle esigenze di “adattamento” ai cambiamenti climatici già avvenuti[9] e alla “mitigazione” di quelli futuri[10].
Dunque, se da un lato la necessità di “stimoli verdi” sembra inconfutabile, dall’altro c’è da chiedersi se sia sufficiente. In altre parole, gli impatti di questi stimoli sarebbero sufficienti ad innescare la “ripresa verde” e a trasformare l’economia mondiale in un sistema più sostenibile nel lungo periodo? Secondo uno studio recente[11] la risposta è negativa e vi sarebbe pertanto la necessità di affiancare ad essi una politica economica ambientale attiva. Questa è la filosofia di fondo del Blueprint che efficacemente completa il quadro del green new deal. Gli impatti degli stimoli non sarebbero infatti duraturi perché nei mercati si combinano gli effetti distorsivi di “sussidi perversi”[12] e la mancanza di regolamentazioni ambientali atte a far includere nei prezzi le esternalità di inquinamento e la crescente scarsità delle risorse naturali. In assenza di regolamentazioni correttive ed anzi in presenza delle “distorsioni” citate, gli effetti degli stimoli verdi sarebbero ridotti e di breve durata. Le esperienze dei pacchetti energia lo confermano.
Un efficace green new deal richiede dunque che le esternalità da inquinamento e la scarsità ecologica, siano corrette tramite interventi di politica ambientale. Ciò che è stato fatto finora, e con grande differenziazione tra i paesi, è molto al disotto di ciò che dovremmo mettere in pratica. Alcuni paesi sono più virtuosi di altri; quelli europei sembrano più sensibili di altri appartenenti ad aree geografiche diverse e tra questi certamente il gruppetto dei paesi scandinavi fa da capo fila[13]. In generale però quello che è sinora mancato sono iniziative comuni globali in assenza delle quali non si possono risolvere i problemi globali quali il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la riduzione dei pesci negli oceani, ecc. E se nel corso degli ultimi anni qualcosa è stato ottenuto a livello internazionale (Trattato di Montreal, Protocollo di Kyoto), senza una Global Policy Initiative per affrontare congiuntamente i problemi di lungo periodo, le promesse della green economy non si concretizzeranno nella trasformazione dell’attuale modello. Anzi si può immaginare che in assenza di iniziative globali e data la dipendenza energetica mondiale da fonti fossili, non appena la congiuntura economica tornerà al bello e si riprenderà il sentiero di crescita senza cambiamenti sostanziali, il prezzo dell’energia salirà. L’International Energy Agency (IEA) prevede che il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i 180 $ al barile in risposta ad un aumento della domanda del 45% ad opera dai paesi emergenti quali Brasile, Cina ed India[14]. Se ciò avvenisse seguirebbe un sostanziale aumento del costo dell’energia che soffocherebbe la ripresa economica e peggiorerebbe le condizioni di vita dei paesi più poveri perché, come è avvenuto nel 2008, l’aumento del costo dell’energia si ripercuote nell’aumento dei prezzi del cibo (food) aggravando i problemi di povertà di intere popolazioni e con essi i rischi di instabilità sociale nel mondo. Inoltre, ritornando sul solito sentiero di crescita che ottiene l’80% dell’energia da fonti fossili, l’accresciuto consumo di energia da parte dei paesi emergenti, aggraverebbe i problemi del cambiamento climatico. Per evitare questi pericoli e cercare di cambiare il modello globale di crescita, occorre appunto sviluppare una strategia globale. Questa, secondo il Blueprint, dovrebbe svilupparsi su tre direzioni: i) adottare pratiche di prezzi verdi; ii) creare mercati globali per i più importanti impatti ambientali (non solo CO2); iii) immaginare nuove strategie di sviluppo. Per soddisfare il primo requisito basterebbe fare ricorso, nei singoli paesi, agli strumenti, ampiamente analizzati e messi a punto in letteratura, quali tasse pigouviane, sistemi di diritti negoziabili e altri strumenti di mercato del tipo cap-and-trade.

Per soddisfare il secondo, sarebbe invece necessario un vero sforzo globale perché si tratta di affrontare casi di fallimento di mercato su scala globale. Effettivamente, dice il Blueprint, “la comunità internazionale ha bisogno di pensare in modo più creativo a come accordarsi, disegnare, mettere in atto meccanismi internazionali per pagare i servizi dell’ecosistema” (p.153) e ha bisogno anche di creatività nell’ideare modi appropriati per finanziare tali meccanismi. Le questioni relative al finanziamento sono le più spinose perché, sebbene tutti gli stati comprendano l’utilità di cooperare alle soluzioni, l’incentivo a usufruire dei beni pubblici globali senza contribuire ai costi per la loro fornitura, rende spesso vani gli accordi faticosamente raggiunti. Timidi accenni di costituzione di fondi si sono registrati nel 2009, durante la Conferenza di Copenhagen e nel 2013 durante quella di Varsavia[15] ma la questione della loro alimentazione non sembra facilmente superabile. L’introduzione, a questo scopo, di una global carbon tax, peraltro sorretta da robusti fondamenti teorici e pratici, sarebbe decisamente auspicabile. Infine, oltre alla Global Environmental Facility (GEF) delle NU che dal 1991 finanzia progetti di protezione/ conservazione ambientale, si potrebbe dar seguito alla proposta innovativa del Blueprint e cioè creare una International Finance Facility (IFF) con la capacità di emettere titoli a lunga scadenza per il finanziamento dei beni pubblici globali. In ultimo, per soddisfare il terzo requisito, bisognerebbe prestare attenzione a ciò che avviene nei paesi di nuova industrializzazione e in quelli meno sviluppati. È cruciale che i paesi sviluppati trovino il modo di trasferire loro le tecnologie più avanzate e pulite, e contemporaneamente mettano a punto meccanismi capaci di garantire la conservazione di habitat specifici e foreste.
Senza una strategia globale su questi problemi,  la transizione verso una crescita sostenibile ha scarse probabilità di successo. Qualora però i vari paesi, per superare la crisi economica, ricorressero a green new deal veri e accompagnati da politiche ambientali attive, le probabilità della transizione aumenterebbero. I costi di questa transizione non sarebbero nulli ma sarebbero comunque molto al disotto dei benefici. In primo luogo perché di fronte alla irreversibilità del cambiamento climatico e alle prospettive di crescenti probabilità di guerre per assicurarsi risorse naturali sempre più scarse[16] , anche costi elevati sarebbero incredibilmente bassi rispetto ai benefici. In secondo luogo perché autorevoli stime, prime fra tutte quelle del Rapporto Stern, danno valori alquanto sostenibili, dell’ordine dell’1% del PIL nell’immediato ma crescenti con i ritardi nelle azioni di contrasto al cambiamento climatico. E se la società non si è ancora incamminata in questa via è perché governi, imprese e consumatori, prendono le loro decisioni di scelta in un’ottica sempre più miope. L’incapacità di accettare oggi un basso costo[17] in cambio di un grosso beneficio futuro, peraltro molto ravvicinato, rischia così di aggravare la duplice crisi economica e climatica e di riportare in scena i fantasmi del malthusianesimo.

Note

1.  Incidentalmente anche la chiusura avvenne sotto il segno di un disastro naturale, sebbene di dimensioni ben più contenute. Il Ciclone Cleopatra che  colpì soprattutto la Sardegna provocando almeno 16 morti e 2700 sfollati . L’unico  risultato positivo, peraltro non banale e che richiamiamo più avanti, della Conferenza di Varsavia riguarda l’accordo sul considerare le foreste parte  integrante della strategia di lotta al surriscaldamento globale.

2.  National Disaster Risk Reduction and Management Council del Governo delle Filippine.

3.  FAQs, IPCC, Fourth Assessment Report, 2007

4.  Non entriamo nel dibattito tra i sostenitori dell’austerità ad ogni costo vs i sostenitori della crescita. Il punto centrale è la crisi climatica che si aggrava con la crisi economica mentre se i paesi fossero convinti di dover far qualcosa per curare innanzitutto il clima potrebbero ottenere anche la recovery dell’economia secondo un diverso modello di produzione e consumo sostenibile.

5.  È appena uscito il contributo dell’Working Group 1, all’IPCC, Fifth Assessment Report, “Climate Change 2013: the Physical Science Basis” www.climatechange2013.org

6.  Rapporto UN, Our Common Future, 1987 altrimenti noto anche come Rapporto Brundtland dal nome della presidente del comitato di ricerca estensore dello stesso.

7.  Per chi fosse interessato, Barbier verifica quanto gli stimoli messi in atto dai diversi paesi nel 2009 possano essere considerati “verdi”, fatta l’assunzione conservativa che tali siano quei pacchetti nei quali la spesa pubblica verde sia almeno 1/4 dell’intero pacchetto oppure rappresenti  l’1% del PIL. Applicando questi criteri gli interventi risultano ben poco verdi.  op.cit. p. 20 e 21.

8.  EEA, Flood Risk in Europe: the Long-term Outlook, 2013

9.  La maggiore concentrazione  delle piogge  richiede sistemi di raccolta specifici, più ampie zone di deflusso intorno a fiumi e torrenti, adeguamenti nei sistemi fognari, minore sigillazione (soil sealing) ecc. Nel nostro paese queste esigenze si aggiungono alle necessità di investimenti “tradizionali” per il miglioramento degli acquedotti, per il completamento dei sistemi fognari su tutto il territorio e per la installazione dei depuratori, da anni sottodimensionati rispetto agli impegni comunitari e origine di controversie, condanne e multe. Infine  soltanto un cenno alle drammatiche necessità di investimenti nel settore dei rifiuti per mettere in sicurezza discariche legali e illegali; per attrezzarsi al riciclo e alla loro valorizzazione  nella produzione di energia.

10.  Com’è noto, per evitare che la concentrazione dei gas serra superi la soglia di innalzamento della temperatura di 2 gradi centigradi – soglia della irreversibilità climatica – occorre ridurre il flusso di emissioni corrispondentemente. Un modo per  contribuire a questo risultato è l’investimento in energie pulite.

11.  Barbier E.B.-Markandya A, A New Blueprint for a Green Economy, Routledge, London-New York,2013

12.  Sulla necessità di eliminare i sussidi perversi e che per esempio hanno alimentato il trasporto su strada delle merci a scapito della ferrovia, e di internalizzare le esternalità, insiste molto l’OECD, documentando  l’esistenza di questi sussidi perversi ed esternalità non corrette e dandone la relativa quantificazione. Si veda, Towards Green Growth, 2011. Può sorprendere che non si riesca ad eliminare i sussidi perversi dato il loro controsenso:  i contribuenti pagano per essere danneggiati!

13.  A questi paesi, con la Svezia in prima posizione, dobbiamo ricorrere se vogliamo esempi di buone pratiche come introduzione di carbon tax e congestion charge; autosufficienza delle città; smart cities et al.

14.  IEA, www.iea.org

15.  Copenaghen 2009: costituzione del Green Climate Fund,  per incentivare i paesi non OCSE a proteggere l’ambiente; Varsavia 2013: creazione di un meccanismo finanziario per contrastare la deforestazione e il degrado delle foreste nei paesi in via di sviluppo noto come “ Warsaw Framework for REDD+”.

16.  Non è più soltanto la questione energetica a rendere molto nuvoloso lo scenario di convivenza globale, ad essa si affianca quella della disponibilità delle risorse idriche e, ultima temporalmente, quella dell’accaparramento delle terre agricole (land grabbing) .Alcuni paesi, per la loro sicurezza alimentare, acquisiscono l’uso di terreni agricoli di paesi generalmente poveri che in questo vedono un sollievo immediato alla loro povertà.

17.  Dopo la pubblicazione del Rapporto Stern nel 2006 e successive revisioni, diversi studi si sono concentrati sulla valutazione dei cosiddetti costs of inaction. A differenza di quanto pensano i policy makers, tutti confermano che l’attesa costa perché i problemi climatici si aggravano e il loro costo di controllo sale.