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Tra Darwin e Frankenstein: Alcune riflessioni sulle forme di gestione dei servizi pubblici

di - 13 Luglio 2009
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Le ragioni di questo, pur molteplici, sembrano evidenti, ed alcune in effetti alimentano una perversa spirale di causa ed effetto. Ma l’essenza può ricondursi all’insufficienza dell’infrastruttura di trasporto pubblico, intesa come insieme dei mezzi, delle reti e della capillarità dei punti di accesso, che complessivamente determina tempi “commerciali” insostenibili, rispetto alle esigenze che si trovano, più o meno fondatamente, costrette ad integrare con il ricorso al mezzo privato le potenzialità del trasporto pubblico. Sono in corso grandi opere di ampliamento delle reti e, negli ultimi anni, si è assistito ad un imponente ammodernamento dei mezzi. Ma le aspettative dei possibili fruitori sono ancora lungi dall’essere soddisfatte, e l’obiettivo di riduzione del traffico urbano (e dell’inquinamento che ne consegue) è ancora fuori dalla reale portata. Sarebbero necessari enormi investimenti per colmare il divario fra richieste e possibilità – e sarebbero altresì necessari i fondi per realizzare tali investimenti.
Non c’è, tuttavia, disponibilità nelle casse pubbliche per finanziarli, né disponibilità di credito bancario – a prescindere dalla crisi della finanza – alle attuali condizioni di redditività negativa. Mentre la struttura del rapporto di affidamento in concessione, con investimenti da realizzare nel corso dell’intero periodo di gestione a fronte di flussi di cassa costanti, ma spalmati nel tempo, rende impossibile il ricorso all’autofinanziamento. Il servizio di trasporto pubblico è oggi strutturalmente in perdita, nonostanti i coraggiosi interventi di alcune amministrazioni, e comunque largamente inadeguato al bisogno. Considerazioni più o meno analoghe potrebbero svolgersi per altri servizi – dallo smaltimento dei rifiuti al ciclo delle acque – senza che le conclusioni facciano registrare sostanziali varianze.
La leva tariffaria è, di per sé, inidonea ad incentivare il ricorso al servizio, quindi ad incrementarne la fruizione[4]; questa è relativamente più sensibile a parametri come qualità ed efficienza (fruibilità) del servizio stesso, parametri che dipendono, però, da investimenti il cui costo di realizzazione non trova copertura in dimensioni avulse dal rapporto di fruizione. L’equilibrio economico-finanziario delle gestioni, come assicurabile da un corretto esercizio di pianificazione degli interventi e ponderato controllo dei costi a fronte di un corrispondente intervento sulle tariffe, ancorché nei limiti della sostenibilità sociale[5], rende, invece, disponibile lo strumento di copertura degli investimenti e la bancabilità dei progetti. Occorre solo operare la scelta giusta. Per altri versi, la tariffa che le amministrazioni determinano nelle diverse sedi in cui operano, da un lato si vorrebbe “bassa”, per ragioni di politica sociale; dall’altro – dovendo coprire i costi di gestione ed investimento – è destinata ad aumentare, per sovvenire l’istanza (di cui sono portatrici le stesse amministrazioni) di nuove realizzazioni, migliorie qualitative, tutela ambientale. Ma sempre della stessa tariffa si tratta!

La L. 36/94 (Legge Galli) che istituì il servizio idrico integrato prese coscienza di tale vincolo all’ottimizzazione del sistema e – segnatamente a fronte dell’ingente mole degli investimenti da realizzare per migliorare l’infrastruttura, oggi stimata in circa 46 miliardi di Euro – pose coraggiosamente l’obiettivo che le gestioni rispondessero ai criteri di economicità, efficacia ed efficienza, per affrancare lo sviluppo del servizio dalle disponibilità finanziarie dei soggetti gestori. Con una tariffa costruita in modo da coprire i costi di esercizio, la quota corrente degli investimenti e la remunerazione vincolata del capitale investito, con l’obbligo di trasferire a beneficio degli utenti i recuperi di efficienza, il Servizio Idrico Integrato veniva consegnato già quindici anni or sono all’economia di mercato, dove il gestore è tenuto ad esercitare la propria funzione ed organizzare i mezzi di cui dispone per realizzare gli obiettivi del Piano d’Ambito assicurando la gestione del servizio. Può dirsi che, in tale contesto, il coinvolgimento dei privati nelle gestioni assolvesse al bisogno di competenza imprenditoriale e di gestione finanziaria.
Dopo tanti anni, e nel fiorire di iniziative legislative e regolamentari spesso disorganiche e contraddittorie, la formula – si può dirlo – non ha mai decollato, e si vuole adesso rivoluzionarla. Senza aver chiarito gli obiettivi della riforma.

Nel discutere fra gratuità e remuneratività del servizio si affaccia ogni tanto, più o meno palesemente, il dubbio sulla natura soggettiva del gestore del servizio medesimo: che si vuole, per le medesime ragioni sin qui in commento, ora emanazione diretta della parte pubblica, ora invece espressione dell’iniziativa capitalistica privata. Con l’avviso, però, che – se sarà gestione pubblica (in-house) – questa dovrà farsi carico delle istanze sociali (gratuità, o comunque contenimento tariffario), mentre l’efficacia della gestione (ammodernamento delle infrastrutture, investimenti, finanziamento) rientrerebbe nel dominio di competenza imprenditorial – privatistico. Il contesto regolatorio delle due ipotesi gestionali, tuttavia, non viene diversificato, assumendo che obiettivi tanto diversi possano raggiungersi con gli stessi mezzi, si trovino in fondo al medesimo percorso: one size fits all.
A cavaliere fra le due ipotesi, non però come ideale ponte fra di esse ed in realtà più simile al meticcio che viene respinto da entrambe le etnie di cui è espressione, sta il modello che incarna le utilities company oggi in circolazione, la società mista. Ideale punto di incontro e camera di compensazione fra le opposte esigenze, la società di capitali compartecipata dalle istituzioni pubbliche e dai privati sconta, in questa fase storica, una crisi di rigetto da parte di tutte le anime del dibattito sull’economia di diritto pubblico. E viene spontaneo andare ad investigare le ragioni di tale crisi.
Il modello di intervento delle finanze pubbliche nel capitale di impresa non è certo nuovo. Ma tra l’IRI di Beneduce e le società miste (ex municipalizzate) affidatarie di concessioni di servizio pubblico esistono forse più differenze che punti di contatto.
Intanto, non c’è l’IRI, cioè la holding finanziaria a capitale interamente pubblico[6] in cui scatenare le forze della politica per ricavarne le direttive di gestione da trasferire alle società operative; né l’identità soggettiva tra Stato-Azionista e Stato-Regolatore, che protegge gli interessi in gioco, nel bene e nel male. È diversa la caratura dell’azionariato pubblico, locale e non statale, ed è diversa la natura delle attività “sottostanti”: che nei casi qui in esame riguardano servizi di pubblica utilità (accessoriamente) gestiti in forma di impresa, mentre ai tempi delle Partecipazioni Statali comprendevano l’esercizio di imprese nelle loro forme più variegate, dalle autovetture ai panettoni, ed (accessoriamente) i servizi (la SIP). Nessun pubblico interesse veniva tutelato nella gestione delle imprese di Stato, salvi la generale salute dell’economia, il mantenimento dei livelli occupazionali, il presidio di alcuni settori strategici.

Note

4.  Per converso, almeno per i servizi che coinvolgono risorse scarse, quali possono essere lo smaltimento dei rifiuti o il servizio idrico, la leva tariffaria appare un efficace strumento regolatorio dei consumi.

5.  Cioè il principio del price cap, come – timidamente – attuato p. es. dal DM 1/8/96 in relazione al servizio idrico integrato, pur con tutti i limiti che di esso evidenzia L. Castellucci su www.apertacontrada.it, I servizi idrici in Italia ed i guasti della non-scelta.

6.  Né il Ministero delle Partecipazioni Statali, cioè il vero ambito di confronto fra esigenze politiche e compatibilità imprenditoriali.

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