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La Germania ordoliberale

di - 16 Novembre 2023
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La Germania ordoliberale[1]

 

Grazie a questo bel libro ricco di letteratura, analitico, rigoroso – forse solo un po’ vittima della “sindrome di Stoccolma” – persino un economista ignorante di lingua e cultura tedesca come me apprende sull’ordoliberalismo e ancor più sui diversi ordoliberali. La loro dottrina trascende l’economia. Ma grazie al libro si comprendono meglio anche natura e limiti dello stile tedesco di governo dell’economia.

Denunciamo da sempre questi limiti. Nelle riunioni tecniche internazionali, con Masera, Padoa, Draghi per anni abbiamo sofferto la dialettica con gli amici tedeschi. Cito per tutti Jurgen Stark, ostinato a cominciare dal cognome. Non c’era verso di convincerli…

Il libro propone più di un collegamento dell’ordoliberalismo con la politica economica tedesca, anche attuale. Attuale perché lo stile tedesco in economia tuttora muove, se non dalla teoria, dalla visione ordoliberalista, mediata dall’ “economia sociale di mercato”, l’abile invenzione di Erhrard per inserire la Germania distrutta nel dopoguerra americano e antisovietico in Europa.

Non dalla teoria, perché le stesse basi teoriche di Eucken, il più noto economista del gruppo, sono davvero fragili, per nulla originali. Nessuno meglio del grande Schumpeter poteva rilevare questo vuoto di “analisi economica”, al punto da non citare nemmeno Friburgo nella storia alta della disciplina. La stessa buona idea del rapporto necessario fra diritto ed economia – il mercato non può esistere senza una cornice normativa – trova ben più illustri precedenti. Adam Smith teneva Lectures on Jurisprudence. Persino il nostro Romagnosi e Pellegrino Rossi, ad esempio, erano su quella linea molti decenni prima.

L’apporto degli ordoliberali è stato non meno debole sul piano empirico. In quel fatale 1932, con l’eccezione di Ropke, non capirono che era l’austerità di Bruning – al di là delle motivazioni – e non la rigidità di salari e prezzi a far crollare il Pil del 17% e a portare al 30% il tasso di disoccupazione, favorendo l’ascesa di Hitler con gli operai comunisti senza lavoro che votarono per il futuro dittatore. Così, di nuovo con l’eccezione di un Ropke in esilio, non denunciarono che fu proprio la politica nazista basata sul riarmo, nella collusione smaccata fra Stato e monopoli privati, a riassorbire la disoccupazione. Eppure quella politica negava alla radice due principi base dell’ordiliberalismo: la non ingerenza programmatoria nell’economia e la concorrenza. Tra l’altro, nonostante l’antitrust attivo dal 1958, in poche economie come in quella tedesca è tuttora dominante la posizione dei grandi gruppi, ciascuno con centinaia di migliaia di dipendenti.

La carenza cruciale degli economisti di Friburgo è nel non essersi misurati con la teoria di Keynes. Questo vuoto è rimasto nella cultura tedesca. Persiste ancora oggi. Vizia, distorce, la politica economica della Germania e la stessa politica economica europea, che la Germania e i suoi satelliti dettano.

Keynes non è l’economista “spendaccione” frainteso da Hayek. Keynes aborre disavanzo e debito pubblico. Keynes è per il pareggio fra entrate correnti e uscite correnti della PA, affinchè il deficit di parte corrente non distrugga risparmio nazionale. Keynes è per investimenti pubblici in valide infrastrutture – civili, non militari! – che moltiplichino la domanda globale e favoriscano la produttività delle imprese. Questi investimenti non innalzano il debito pubblico. Rispetto al Pil lo abbattono. Lo abbattono grazie alla capacità di autofinanziarsi attraverso il maggior reddito e il gettito fiscale che generano.

Il suggerimento di Keynes a Gentiloni per sostituire le regole di Maastricht sarebbe questo: bilancio in rigoroso pareggio di parte corrente; massicci investimenti pubblici; quindi, ritorno dell’Europa alla crescita dopo vent’anni e calo del debito rispetto al prodotto.

Resta da chiedersi come sia stato possibile che una costruzione tanto mediocre come l’ordoliberale offra al governo tedesco dell’economia la narrazione che continua a propinare.

Il libro fornisce ricchi elementi per farsi un’opinione.

Una ipotesi è la seguente.

L’idea-chiave degli ordoliberali è lo stato forte. In linea con la storia della Germania il concetto è intriso di nazionalismo. La Germania non può ridursi a gigante economico e nano politico. La democrazia imbelle di Weimar deve morire.

Dal nazionalismo nasce il solipsismo tedesco, nei rapporti economici con gli altri paesi.

Keynes e White a Bretton Woods, e la migliore teoria economica dopo di loro, hanno chiarito che in caso di squilibrio nelle bilance dei pagamenti la simmetria delle correzioni e la ripartizione dell’onere dell’aggiustamento postulano che il paese in deficit riduca la domanda interna e accetti il deprezzamento del cambio, ma anche che il paese in surplus espanda la domanda interna e accetti l’apprezzamento del cambio.

Ebbene, la Germania dal dopoguerra non ha mai giuocato in modo corretto la partita della cooperazione simmetrica. Il solipsismo è sfociato nel neomercantilismo.

Negli anni Settanta, in avanzo di parte corrente dei conti con l’estero, la domanda interna tedesca seguì una dinamica del 2,7% l’anno rispetto al 3,1% dell’intera area dell’OCSE. Soprattutto, nonostante l’inflazione tanto temuta dal popolo tedesco, fra il 1970 e il 1979 il cambio effettivo del marco si apprezzò del 50%, ma corretto per i differenziali nei prezzi il cambio – reale – addirittura si deprezzò nel 1974-1975 per poi limitarsi a compensare il deprezzamento con un apprezzamento del 7%. Nell’intero decennio un apprezzamento netto del cambio reale del marco non vi fu.

Con l’euro, per vent’anni il surplus nella bilancia dei pagamenti di parte corrente della Germania è stato sistematico. Essendo i cambi in Europa irrevocabilmente fissi, il riassorbimento del surplus andava affidato a una espansione della domanda interna tedesca più rapida di quella complessiva dell’area. La domanda interna tedesca è stata invece scientemente frenata, al disotto del Pil nazionale e di quella media dell’area, dal taglio degli investimenti pubblici e da un bilancio pubblico in crescente avanzo fra il 2012 e il 2018. Con il neomercantilismo la posizione creditoria netta della Germania verso l’estero si è quindi dilatata sino a superare oggi il 70% del Pil, quasi tre trilioni di dollari, una cifra folle.

Su questi investimenti esteri il popolo tedesco ha perso centinaia di miliardi, mentre il suo reddito avrebbe potuto aumentare nel ventennio ben più dell’1,3% l’anno effettivamente realizzato, la crescita più bassa dal dopoguerra.

Il colmo è la recessione attuale. Occorrono davvero o una incompetenza o un sadomasochismo speciali per abbandonare alla recessione la più forte delle economie industriali!

Non c’è, in tutto ciò, nessuna logica economica, ordoliberalismo o meno. Può esservi una logica politica, o geopolitica: la bilancia dei pagamenti in surplus e quindi l’essere creditori verso l’estero consentono di condizionare i partners.

Altrimenti, qual è la logica?

       

 

[1] Recensione a L. Merisi, Stato forte ed economia ordinata. Storia dell’ordoliberalismo (1929-1950), il Mulino, Bologna, 2023, 234 pp. .


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