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La complessità della questione migratoria

di - 3 Ottobre 2023
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CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                                                LETTERA DIPLOMATICA

Piazzale della Farnesina, 1                                                                                         n. 1357 – Anno MMXXIII

00135 Roma                                                                                                                Roma, 31 luglio 2023

 

La complessità della questione migratoria

 

  1. Storia e motivazioni dei flussi migratori verso l’Europa

Mentre negli ultimi tre secoli, con una forte accelerazione tra la metà del XIX e quella del XX secolo, quasi 100 milioni di europei sono emigrati nel resto del mondo, i flussi di migranti verso l’Europa sono iniziati con una certa consistenza all’inizio del secolo scorso nel quadro dei rapporti coloniali costituendo piccole comunità che crescevano attirando gruppi familiari dai loro luoghi di origine. Si trattava in particolare di caraibici, sud-asiatici e africani. Essi si sono poi intensificati nel secondo dopoguerra. Coloro che attualmente arrivano sono ancora in numeri alquanto limitati rispetto ai milioni che si stanno muovendo nel mondo a causa di cambiamenti climatici, guerre, persecuzioni, crisi economiche, volontà di crescita sociale. Non si tratta di esodi biblici o di invasioni, come viene detto da alcuni. Ad esempio, gli africani nati in paesi diversi da quelli in cui sono emigrati sono circa 36 milioni. Di questi 23 milioni si sono spostati all’interno del continente tra paesi vicini (molto maggiori sono gli spostamenti all’interno dell’Asia). 13 milioni sono usciti dall’Africa di cui circa la metà verso i paesi del Golfo e attorno a 6 milioni verso l’Europa. Circa l’1% della popolazione complessiva europea nell’UE e fuori da questa. Nella seconda metà del secolo scorso si sono verificati arrivi dal Medio Oriente allargato, scanditi dalle crisi politiche e dai conflitti in quella regione: curdi, palestinesi, iraniani, afghani. Ma anche qui si è trattato di alcune centinaia di migliaia di persone, almeno fino all’impennata del 2015, poca cosa rispetto alle quantità ammassate nei paesi limitrofi che ospitano milioni di persone importando così le crisi dei paesi vicini. In Europa arrivavano e continuano a cercare di arrivare in paesi con comunità già insediate e migliori condizioni di accoglienza, e quindi in Gran Bretagna, nei paesi scandinavi e poi in Olanda, Belgio e Germania. In quest’ultimo paese si aggiungevano agli immigrati dal Sud Europa: italiani, turchi spagnoli, portoghesi, greci. Complessivamente alcuni milioni fatti venire per contribuire alla ricostruzione e alla crescita di un paese la cui popolazione maschile era stata più che in altri decimata dalla guerra. Un analogo fenomeno si verificava in Francia con gli arrivi di spagnoli, maghrebini (soprattutto algerini) e sub-sahariani per attività allora ad alta intensità di lavoro. Dalla seconda metà degli anni settanta, in coincidenza con la crisi innescata dagli shock petroliferi e dalla fine della grande crescita economica del trentennio precedente, vi è stata in Europa una forte riduzione delle autorizzazioni ad immigrazioni legali che non fossero per protezione umanitaria, e un aumento di quelle irregolari spesso gestite da reti criminali, con crisi in giro per il mondo che facevano crescere le spinte migratorie In Italia il fenomeno immigratorio, nel più ampio quadro delle tendenze che si verificavano in Europa Occidentale sia pure con qualche sfasamento nei tempi, è stato in buona parte una conseguenza della trasformazione economica e sociale del paese, della crescita di classi medie e in questo contesto dell’ampliamento del lavoro femminile fuori dall’ambito familiare e poi dell’invecchiamento della popolazione. I primi flussi migratori di una certa consistenza sono stati quindi nel lavoro domestico: le donne dall’Eritrea, ex-colonia italiana, che in quella generazione avevano ancora familiarità con la nostra lingua, poi seguite da filippini e sud-americani, donne e uomini, mentre le successive ondate 2 dall’Eritrea, prevalentemente maschili, spinte prima dalla repressione etiopica e poi del regime insediatosi dopo il distacco dall’Etiopia, andavano soprattutto verso l’Europa settentrionale quanto più si sbiadiva la memoria delle tracce coloniali italiane. Quasi contemporanei sono stati gli insediamenti di pescatori tunisini in Sicilia (oltre un secolo dopo che pescatori siciliani e campani si insediavano in tutto il Nord Africa dal quale i loro discendenti sono ripartiti negli anni cinquanta e sessanta), la cui assunzione da parte degli armatori siciliani doveva facilitare attività di pesca di questi ultimi in acque tunisine o presunte tali. Ora sono in genere bene integrati e alcuni tra loro sono diventati a loro volta armatori. Negli anni ‘80 un ulteriore flusso, largamente irregolare prima di successive regolarizzazioni, è venuto dal Maghreb e dall’Africa Occidentale, con impieghi soprattutto nell’agricoltura e nel piccolo commercio ambulante (in una narrazione dispregiativa dell’epoca i cosiddetti “vu cumprà”, limitati in numero ma alquanto visibili). E poi, assieme agli egiziani, nella ristorazione e nell’industria. Sono poi arrivati i cinesi, con concentrazioni in alcune zone, come quella di Prato, impiegati in fabbriche o in snodi logistici tessili di imprenditori immigrati, con frequenti alti tassi di sfruttamento in via di riduzione negli ultimi anni grazie anche ad una migliorata collaborazione tra autorità italiane ed esponenti di quella comunità. In tutto il paese sono cresciute attività commerciali cinesi di varie dimensioni, con le maggiori che occupano anche lavoratori italiani e di altri paesi. I loro rapporti con le istituzioni cinesi, che perseguono una organizzata politica dell’emigrazione, come lo era con le dovute differenze quella italiana in decenni precedenti, sono maggiori rispetto ad altri paesi di provenienza. Più recentemente sono arrivati i bengalesi, dediti in gran parte al piccolo commercio, spinti dagli alti tassi di povertà e dai disastri ecologici nel loro paese. Sub-sahariani e sud-asiatici sono impiegati nell’agricoltura, spesso in condizioni di sfruttamento illegale. Da considerare sono anche le presenze di studenti, molto inferiori a quelle in altri maggiori paesi europei e che è nostro interesse far crescere, e di religiosi considerato anche il ruolo di Roma quale centro della Cristianità, impiegati in attività pastorali a causa della crisi nelle vocazioni e presso istituzioni cattoliche nei settori sanitario ed educativo. Entrambi i gruppi in un prevalente contesto di mobilità circolare. Con lo scongelamento del blocco sovietico e la fine della guerra fredda sono arrivati migranti dall’Europa Orientale: polacchi, albanesi e altri balcanici dopo la dissoluzione della Jugoslavia, oltre a rumeni, ucraini e moldavi. Dopo le difficoltà iniziali, con problemi anche sul piano della sicurezza e del reclutamento in attività criminali, dallo spaccio di stupefacenti allo sfruttamento della prostituzione, i processi di integrazione hanno funzionato relativamente bene. Gli uomini impiegati soprattutto nell’industria, nell’edilizia e nell’agricoltura, anche in questo caso con fenomeni di crescita sociale e imprenditoriale. Le donne in gran parte nel lavoro domestico e nella cura alle persone con storie di successo anche nell’imprenditoria. L’Italia si dotava intanto di una legislazione sull’immigrazione che oltre ad eliminare in materia di asilo le limitazioni geografiche, avviava limitati flussi di ingressi legali per lavoro. La Legge Martelli nel 1990, la Turco-Napolitano nel 1998 e la Bossi-Fini nel 2002. La spinta migratoria verso l’Europa, pur con i limiti quantitativi di cui sopra, è molto cresciuta nell’ultimo decennio. Su di essa hanno inciso, di nuovo, le crisi nel Mediterraneo allargato, le guerre civili in Siria e in Libia, l’offensiva jihadista nella Mesopotamia, nel Sahel, in Nigeria e nel Corno d’Africa, l’ennesima guerra in Afghanistan, i cambiamenti climatici, la guerra di aggressione russa all’Ucraina anche con le sue conseguenze sulle condizioni alimentari in Medio Oriente e in Africa, i misfatti dei mercenari russi della Wagner in molte di queste aree. Emblematico e cruciale è il caso della Libia. Il sostanziale sfaldamento dello Stato e di gran parte delle attività economiche ha intrappolato centinaia di migliaia di subsahariani che vi lavoravano rendendoli preda 3 di organizzazioni criminali, colluse con strutture di potere locale, che usano la detenzione forzata, la tortura e ogni tipo di vessazione quali strumenti di estorsione estesi a coloro che in numero ancora maggiore sono arrivati e arrivano nel paese dal sud per cercare la via dell’Europa, anche questi preda fin dalla partenza di organizzazioni criminali. Chi fugge da quelle condizioni, quali che siano la sua provenienza, i motivi della sua partenza e le sue modalità di arrivo, spesso costellate da tragici naufragi per la cui prevenzione il Parlamento Europe ha appena richiesto un sistema comune per il soccorso in mare, non può esservi riportato secondo le regole del diritto umanitario internazionale fin quando le cose non cambieranno in Libia. Occorre quindi definire con le organizzazioni internazionali competenti le modalità della loro accoglienza, integrazione ed equa distribuzione tra i paesi europei, attraverso una revisione del regolamento di Dublino ed altre decisioni vincolanti che la assicurino, tenendo conto che gran parte di coloro che sbarcano attualmente sulle coste italiane vogliono ricongiungersi a familiari e comunità in altri paesi europei. Un rimpatrio volontario assistito e incentivato nei paesi di origine va effettuato e potenziato se in questi vi sono condizioni minime di rispetto dei diritti umani. A tale riguardo va tuttavia tenuto presente che senza consistenti canali legali di immigrazione, che per quanto riguarda l’Italia sono selettivamente in aumento (450.000 nel triennio) considerati i bisogni di settori produttivi e delle famiglie, i ricercati accordi di rimpatrio interesseranno poco questi paesi o funzioneranno con difficoltà, considerato il rilievo delle rimesse dei migranti per il loro sviluppo e in particolare delle comunità e famiglie di provenienza. Si tratta di flussi finanziari assai più consistenti quantitativamente dell’aiuto pubblico allo sviluppo e per certi aspetti più efficaci. Un’altra emblematica situazione recentemente emersa è quella della Tunisia ove alle gravi condizioni economiche e di sopravvenuta repressione politica che spingono giovani tunisini a fuggire verso l’Italia con molti di loro che aspirano ad andare in Francia, si è aggiunta la politica xenofoba del Presidente Saied nei confronti dei sub-sahariani, vittime di vessazioni di vario tipo e di ondate di violenza, che li spingono ugualmente a dirigersi come possono verso l’Europa tramite l’Italia. Il Presidente Saied si è impegnato ad una marcia indietro sul trattamento dei subsahariani, da monitorare internazionalmente, in occasione dell’ultima visita a Tunisi della Presidente del Consiglio Meloni, della Presidente della Commissione Von der Leyen e del Primo Ministro Olandese Rutte che hanno ottenuto un memorandum di intesa tra UE e Tunisia su accordi da perfezionare riguardanti, assieme a vari altri aspetti, un arresto delle partenze non regolari da realizzare in modo conforme alle regole internazionali riguardanti il rispetto dei diritti umani, nonché la riammissione dei tunisini emigrati irregolarmente. Si tratta ora di vedere come questo sarà declinato nella realtà, considerato anche che il pacchetto definito, nel quale un aspetto importante è lo sviluppo di energia verde, prevede, oltre ad un aumento di canali legali di immigrazione, rilevanti impegni finanziari in diversi settori legati tuttavia ad un parallelo accordo con il Fondo Monetario Internazionale con i suoi condizionamenti anche in materia di stato di diritto.

  1. La gestione nei paesi di accoglienza e sul fronte esterno.

Alla luce di tutte le precedenti considerazioni, e del fatto che i nostri sistemi produttivi e di welfare hanno bisogno di lavoratori stranieri, la gestione di un fenomeno che porta le nostre società ad essere sempre più multietniche e pluriculturali richiede all’interno dei paesi di arrivo una corretta informazione e una impostazione culturale che spieghi razionalmente e in modo convincente l’apporto positivo degli immigrati ai nostri sistemi economici e sociali assieme all’esigenza di una gestione corretta dell’accelerazione degli arrivi. E quindi politiche di accoglienza, inclusione e integrazione, comprensive di un adeguamento delle leggi sulla cittadinanza, con una intensa azione formativa di coloro 4 che arrivano coinvolgendo le comunità immigrate. Accanto a queste sono indispensabili azioni sulle condizioni di disagio, insicurezza e degrado di componenti vulnerabili delle popolazioni autoctone su cui si innestano flussi mal gestiti di immigrati, concentrati e non diluiti sul territorio determinando, assieme a legislazioni che non favoriscono l’integrazione, sentimenti di rifiuto e di ostilità xenofoba. Le difficoltà di integrazione sono parallele ad alti tassi di disoccupazione in fasce della popolazione giovanile di discendenza migratoria e alle precarie condizioni di vita in quartieri ove si creano aggregazioni spesso per gruppi etnici e religiosi che frequentemente rafforzano coscienze identitarie e portano a separazioni e segregazioni dal resto della popolazione con esplosioni di violenza come quelle verificatesi in momenti diversi in Francia, nel Regno Unito e in altri paesi. Per la componente musulmana della popolazione immigrata, che tra naturalizzati e non ammonta nell’Europa nel suo complesso a circa 17 milioni di persone, di cui 5 milioni in Francia, 4 milioni in Germania, 2 milioni in Gran Bretagna e un milione e mezzo in Italia, una ulteriore criticità è indotta dalla diffusione tra una parte minoritaria delle sue frange giovanili delle ideologie islamiste, anche di quelle più radicali, incoraggiata dalle precarie condizioni economiche e da sentimenti di esclusione con effetti di esasperazione nell’affermazione delle identità, anche se nelle agitazioni violente delle scorse settimane in Francia l’aspetto religioso è poco emerso. Accanto a storie di successo che vedono in molti paesi persone provenienti dall’immigrazione affermarsi in attività imprenditoriali a diversi livelli, nelle attività accademiche e culturali, nello sport e nella politica (fino ad esprimere un Primo Ministro in Gran Bretagna) vi sono quindi ampi fenomeni di emarginazione e di degrado sociale spesso più visibili dei processi di buona integrazione che pur si verificano e che riguardano altrettanto ampi settori della popolazione immigrata. Sul fronte esterno una mitigazione e una regolazione delle pressioni migratorie destinate a crescere nei prossimi anni, anche se non nelle dimensioni catastrofiche paventate da alcuni, richiede azioni multilaterali sulle cause delle migrazioni stesse e quindi centrate sul contrasto ai cambiamenti climatici e sull’adattamento alle sue conseguenze, sulla sicurezza alimentare e sul sostegno ad uno sviluppo sostenibile secondo l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, e a condizioni di pace e stabilità nei diversi quadri regionali, favorendo correzioni delle distorsioni delle modalità di crescita soprattutto in Africa che in quel continente erano state consistenti ma mal distribuite nella prima decade di questo secolo. A tale scopo gli interventi dell’aiuto pubblico allo sviluppo a livello globale e l’orientamento attraverso adeguate politiche degli investimenti privati andranno diretti soprattutto al sostegno di attività generatrici di reddito e occupazione, al rafforzamento delle istituzioni, ad un impatto sulle dinamiche demografiche, che presentano tuttavia segni di rallentamento, tramite l’educazione alla salute riproduttiva e alla maternità responsabile, l’istruzione e l’empowerment della componente femminile assieme al sostegno a sistemi di protezione sociale. Se non si incide anche su questo aspetto le prevalenti previsioni indicano che la popolazione africana aumenterà dagli 1,4 miliardi di persone attuali a 2,5 miliardi nel 2050. Si tratta di questioni che richiedono un notevole impegno finanziario, in controtendenza rispetto alle riduzioni nei bilanci pubblici dei fondi per la cooperazione allo sviluppo registrati negli ultimi anni malgrado enunciazioni che non trovano sempre riscontri nella realtà. E ciò mentre risorse andranno mobilitate anche per compensare gli effetti sociali della transizione energetica. Sono temi che soltanto a livello europeo e nel più ampio quadro multilaterale possono essere adeguatamente affrontati. Anche con un prudente e vigilato coinvolgimento di paesi, già molto presenti in Africa, che per varie ragioni e con diverse intensità presentano per noi livelli di gradimento variabili. In primo 5 luogo quelli del Golfo, con grandi capacità finanziarie e loro agende economiche e politiche, con risvolti di carattere religioso, alcuni dei quali hanno avuto una presenza importante nella Conferenza svoltasi il 23 luglio scorso a Roma su sviluppo e migrazioni convocata dall’Italia, con la partecipazione della Presidente della Commissione, del Presidente del Consiglio Europeo, di esponenti delle Organizzazioni internazionali a vario titolo interessate e di molti paesi del Mediterraneo allargato. L’incontro ha certamente segnato, malgrado qualche divergenza tra alcuni partecipanti e assenze di rilevanti attori che andranno rapidamente colmate, la comune consapevolezza del nesso tra sforzi comuni per lo sviluppo e gestione delle migrazioni nell’interesse dei paesi di partenza, di transito e di arrivo. Le sue conclusioni contengono largamente l’approccio olistico sopraindicato, centrato su sviluppo sostenibile, con un notevole rilievo dato ai temi della transizione energetica e delle migrazioni legali “perché ne abbiamo bisogno” come ha detto la Presidente Meloni. Ma anche qui si tratterà di vedere come tali princìpi, per i quali è stato anche definito un sistema di seguiti, saranno attuati nella realtà con il necessario concorso coeso e coordinato dei maggiori stati membri dell’UE. In secondo luogo vi è il ruolo di altri grandi paesi emergenti, a partire dalla Cina che prosegue ugualmente un suo disegno. Il contributo dell’insieme di tali paesi per un grande sforzo globale di sviluppo del continente africano inclusivo, come fu fatto negli anni ‘90, di ristrutturazioni, riconversioni o cancellazioni di debiti di nuovo molto cresciuti in gran parte nei confronti di alcuni di essi o di banche private, sarebbe difficilmente eludibile ai fini del raggiungimento del risultato perseguito. Anche su questo sarà necessario definire regole, codici di condotta e dialoghi sulle politiche in un condiviso contesto multilaterale.

Maurizio Melani

 

 

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