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Cultura del profitto, cultura dello stato, democrazia

di - 5 Giugno 2023
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Stefano Gorini, Nota introduttiva sui motivi ispiratori del corso di Economia Pubblica Avanzata[1]

Sommario

PREMESSA

  1. LEGGE DEL PROFITTO E NEOLIBERISMO
  • La legge universale del profitto
  • L’intellighenzia dissidente senza potere: Keynes aveva torto?
  • Il potere della scuola di pensiero neoliberista
  • I governi hanno il potere di cambiare, ma non la volontà
  • Azione individuale e coscienza sociale
  • Letture di sfondo
  1. ORDINE SOCIALE LIBERALE-DEMOCRATICO E CULTURA DELLO STATO
  • Alternativa ‘stato-mercato’, ordine sociale liberale-democratico e cultura dello stato
  • Lo stato come insieme delle istituzioni di governo
  • Lo stato come insieme degli interessi collettivi
  • La società economica e l’approccio economistico ai problemi sociali
  • Dal piano ‘basso’ della società economica a quello ‘alto’ della società politica e della filosofia morale
  • Una più alta cultura politico-economica
  • Letture di sfondo

IL PIANO DEL CORSO

PREMESSA

 

Questa Nota introduttiva al mio corso di Economia pubblica avanzata è rivolta agli studenti potenzialmente interessati a seguirlo. Nasce dalla convinzione che, nella prospettiva di una cultura sociale libera dai vincoli dei confini disciplinari, l’economia pubblica sia qualcosa di più di uno dei tanti rami specialistici in cui si articolano gli studi economici. La vita economica non si svolge secondo leggi di natura, bensì nel quadro organizzativo e normativo della società civile, che è il prodotto delle attività di governo. Perciò, anche se l’economia pubblica in senso stretto ha per oggetto l’economia del settore pubblico, abbastanza chiaramente distinta da quella del settore privato, il suo studio trae beneficio da una riflessione più ampia su quelli che sono, o dovrebbero essere, i compiti e il ruolo delle istituzioni di governo in una società civile. Propongo qui agli studenti una ‘guida’ orientativa personale a tale riflessione, incentrata intorno a due aspetti qualificanti della società economica contemporanea: da una parte le degenerazioni sistemiche di un capitalismo globale che ha avuto il suo epicentro nelle società liberali-democratiche dell’Occidente (Sezione 1 Legge del profitto e neoliberismo), dall’altra l’indebolimento della cultura laica dello stato che affligge queste stesse società, diminuendone la capacità di contrastare quelle degenerazioni e di fronteggiare le sfide geopolitiche (Sezione 2 Ordine sociale liberale-democratico e cultura dello stato)

 

  1. LEGGE DEL PROFITTO E NEOLIBERISMO

 

La legge universale del profitto. In questi ultimi anni ho avuto modo di constatare che molti giovani economisti, studenti e laureati in economia, dottorandi, addottorati, ricercatori, hanno scarsi incentivi a integrare lo studio e la produzione di raffinati paper teorici e soprattutto empirici con lo studio di lavori di più ampio respiro che li aiutino a esercitare il loro pensiero critico sulla complessa foresta che si estende intorno ai singoli alberi (lo studio e produzione dei primi sono infatti ossessivamente richiesti dalla professione e dalla carriera, mentre lo studio dei secondi non lo è affatto, ed è, per così dire, riservato agli studiosi anziani senza problemi di carriera). Eppure, come emerge spesso nel dialogo con gli studenti, il capitalismo dentro cui i ricchi paesi liberali-democratici dell’Occidente sono comodamente adagiati è un Sistema mostruoso, intriso fino al midollo di disfunzioni e patologie gravi, non facilmente riassumibili:

  • Rendita e lotta distributiva. Il paradigma competitivo, caratterizzato dall’assenza della lotta distributiva che si manifesta nella determinazione dei prezzi, incanta la mente, ma non ha riscontro nella realtà sociale ed è privo di valenza esplicativa.
  • Grandi e crescenti disuguaglianze e ancor più grandi e crescenti concentrazioni della ricchezza, che indeboliscono ed emarginano il ceto medio, colonna portante della democrazia e della stabilità sociale, snaturano i riti democratici (un dollaro un voto), alterano la struttura della domanda, la composizione della produzione e le scelte pubbliche, rispetto a quelle che si avrebbero con distribuzioni più ugualitarie, e in aggiunta le distorcono con l’esercizio del potere di mercato e di condizionamento dei governi.
  • Illegalità diffusa, corruzione, intreccio sistemico tra economia legale, illegale e criminale.
  • Enormi esternalità negative non compensate (esaurimento del pianeta, ma non solo), e positive non realizzate, che redistribuiscono la ricchezza e distruggono quella potenziale.
  • Mercificazione di tutto ciò che non andrebbe mercificato, come educazione e sanità.
  • Commistione inestricabile tra interessi privati e pubblici.
  • Conflittualità economica e militare permanente tra paesi, al posto della cooperazione.
  • Prevalenza degli incentivi – inefficienti – alla rottamazione/scarto su quelli – efficienti – alla manutenzione/recupero (produzione industriale, cementificazione del territorio, ecc.).
  • E tanto altro ancora.

Ma quando il profitto, individuale, di gruppo, e delle nazioni, diventa la legge universale della vita sociale il risultato non può che essere esattamente un tale Sistema, la cui essenza si può sintetizzare con una equazione così semplice da competere con quelle più famose e difficili di Einstein (e = mc2) e di Piketty (r > g)

 

Denaro → Potere

Potere → Denaro

 

anzi, in forma più compatta

 

Denaro = Potere = Denaro

 

(so da chi ebbe la fortuna di seguirne le lezioni negli anni ’70, che già Evsey Domar riassumeva con parole simili il meccanismo distributivo della società, altro che concorrenza!).

Come se non bastasse, quel Sistema è circondato da grandi predatori che vogliono annientarlo e sostituirlo con alternative peggiori.

Quanto alla legge del profitto nell’accademia, che riguarda più da vicino il nostro ambiente, non si può far di meglio che segnalare la recente (luglio 2021) lucidissima denuncia di tre giovani neolaureate della Scuola Normale di Pisa (v. Letture di sfondo).

 

L’intellighenzia dissidente senza potere: Keynes aveva torto? Esistono studiosi, centri di ricerca, ‘dissident public intellectuals’ (Stiglitz, Chomsky, Dasgupta, Judt, e tanti altri del presente e del passato, Smith compreso), e bravissimi giornalisti, che conoscono perfettamente e evidenziano continuamente quelle patologie strutturali, perché le osservano, studiano, indagano e denunciano da una vita, anche a costo della loro libertà e incolumità fisica, per renderne consapevole un pubblico apparentemente avido di ascoltarli, visto che i loro rapporti, scritti e servizi trovano grande risonanza nei media. E tuttavia, al contrario di quanto dice Keynes in un passo molto citato (riportato in fondo a questa Sezione), a me pare che questi intellettuali pubblici di grande valore non abbiano alcun potere, perché è ormai da più di 50 anni che l’impatto delle loro idee sul Sistema rimane vicino allo zero.

 

Il potere della scuola di pensiero neoliberista. Va detto, peraltro, che, a (parziale) conferma della tesi di Keynes, l’impatto zero dell’intellighenzia dissidente può non essere dovuto alla resilienza del Sistema contro le idee, bensì alla forza ideale della opposta scuola di pensiero socio-economico neoliberista, oggi dominante, secondo cui tutte le denunciate patologie non sono altro che inconvenienti collaterali di un Sistema poderoso, perfettamente capace di autocorreggere le sue più gravi disfunzioni, di creare e diffondere, più di qualsiasi altro, ricchezza, benessere, occupazione, e in particolare di far uscire dalla povertà centinaia di milioni di famiglie, che politiche miranti a vincolarlo e a redistribuire la ricchezza in senso più egualitario e meno concentrato condannerebbero invece a rimanere in condizioni di pura sopravvivenza (come sostiene ad esempio il grande prete del neoliberismo Robert Lucas Jr.).

 

I governi hanno il potere di cambiare, ma non la volontà. Esistono pubbliche istituzioni (come ad esempio diverse banche centrali) che sanno benissimo quale enorme sfruttamento dell’economia reale si celi nel mondo delle banche e della finanza, incontrastato regno del profitto a brevissimo termine, ma non hanno il potere, e forse nemmeno la volontà, di rimuoverlo. Il potere di riformare radicalmente il Sistema lo hanno soltanto i governi, ma a tutt’oggi essi (Biden, Merkel, Scholz, Macron, Draghi, per non parlare delle destre dichiarate, rappresentate dai Donald, Johnson, Berlusconi, Le Pen, Orban, Meloni, ecc.) non hanno mostrato alcuna intenzione di riformarlo, anzi, si sono riconosciuti sempre di più nei suoi fondamenti, e parimenti non intendono passare dalla competizione politica alla cooperazione, senza la quale vere riforme sistemiche sono semplicemente irrealizzabili.

 

Azione individuale e coscienza sociale. D’accordo, esiste un senso, quello evolutivo della nostra specie animale, in cui le leggi di funzionamento della società umana non si possono cambiare, perché, come disse con rassegnato distacco Piero Sraffa a un amico (Sergio Steve) pochi mesi prima di morire, “il mondo non cambia”. Il singolo che non si dà per vinto si deve dunque accontentare di subordinare la legge del profitto all’etica civile entro i limiti del suo raggio d’azione personale, ossia dei suoi rapporti umani e dei suoi compiti e competenze professionali, ben consapevole dell’alto costo privato di una tale scelta. Ma per quanto limitato sia il raggio della sua azione, la capacità di inquadrarla in una più ampia visione del mondo sociale la renderà sicuramente più mirata ed efficace.

 

Letture di sfondo. Tra le letture che ci possono aiutare nella difficile impresa di approfondimento della nostra coscienza sociale proporrei al momento la seguente selezione, avvertendo per onestà che io non ho letto interamente nessuno dei libri elencati, ma ne so abbastanza, e ne conosco abbastanza gli autori – tutti di indiscussa reputazione – per prendermi la responsabilità di raccomandarli. Per evitare di essere frainteso dagli studenti ribadisco però che si tratta solo di suggerimenti di natura ‘culturale’, non aventi nulla a che fare con la preparazione dell’esame:

 

 

Economics’ failures present ‘extreme risks’. The world is being put at “extreme risk” by the failure of economics to take account of the rapid depletion of the natural world and needs to find ways to avoid a catastrophic breakdown, a landmark review has concluded. Prosperity was coming at a “devastating cost” to the ecosystems that provide humanity with food, water and clean air, said Prof Sir Partha Dasgupta, the Cambridge economist who conducted the review. Radical global changes to production, consumption, finance, and education were urgently needed, he said. The review was commissioned by the UK Treasury, the first time a national finance ministry has authorized a full assessment of the economic importance of nature. A similar Treasury–sponsored review in 2006 by Nicholas Stern is credited with transforming economic understanding of the climate crisis. The review said that two UN conferences this year – on biodiversity and climate change – provided opportunities for the world to rethink an approach that has seen a 40% plunge in the stocks of natural capital per head between 1992 and 2014 (The Guardian Weekly 5 febbraio 2021).

 

  • Galli Giorgio (2015), Il golpe invisibile. Come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo stato di diritto, Kaos, Milano.
  • Gallino Luciano (2011), La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino.
  • Idem (2013), Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino.
  • Mazzucato Mariana (2020), Mission economy: a moonshot guide to changing capitalism, Penguin, 253pp (trad.it, Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo, Laterza, Bari-Roma, 2021).
  • Scuola Normale di Pisa (2021), “Logica del profitto e retorica dell’eccellenza”, discorso di tre neodiplomate della Classe di Lettere della celebre accademia, Virginia MagnaghiValeria Spacciantee Virginia Grossi, letto il 9 luglio 2021 durante la consegna dei diplomi.

https://www.open.online/2021/07/23/universita-normale-pisa-contestazione-allieve-diplomi-video/

  • Stiglitz Joseph (2019), People, power and profits. Progressive capitalism for an age of discontent, 2019, + versioni abbreviate: interviste al Guardian 30/5/19 e all’Economist 12/7/19 [disponibili Gorini] (trad.it. Potere, popolo, e profitti. Un capitalismo progressista in un’epoca di malcontento, Einaudi, Torino, 2020).
  • Tooze Adam (2018), Crashed: how a decade of financial crises changed the world, Viking, 706 pp. [recensito da Robert Kuttner in New York Review 5/12/18: “… written to mark the tenth anniversary of the great financial collapse, Crashed will stand for a long time as the authoritative account …”].
  • Ziegler Jean (2010), La privatizzazione del mondo. Predoni, predatori e mercenari del mercato globale (traduzione M. Fiorini), Il Saggiatore, Milano.
  • Idem (2021), Il capitalismo spiegato a mia nipote. Nella speranza che ne vedrà la fine (prefazione di Vladimiro Giacchè), Meltemi, Milano [Ziegler è uno dei maggiori sociologi viventi. È svizzero-francese e gli originali dei libri citati sono in francese].

Come risulta dal seguente citatissimo passo finale della General Theory of employment, interest and money, Londra 1936, The collected writings of John Maynard Keynes 1973, Vol. VII, pp. 383-4, Keynes ritiene che nonostante quanto comunemente si creda, le idee siano spesso più forti degli interessi economici:

 

Is the fulfilment of these ideas a visionary hope? … Are the interests that they will thwart stronger and more obvious than those which they will serve? I do not attempt an answer in this place … But if the ideas are correct … it would be a mistake, I predict, to dispute their potency over a period of time … the ideas of economists and political philosophers, both when they are right and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood. Indeed, the world is ruled by little else. Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influences, are usually the slaves of some defunct economist … I am sure that the power of vested interests is vastly exaggerated compared with the gradual encroachment of ideas … Soon or late, it is ideas, not vested interests, which are dangerous for good or evil.

 

  1. ORDINE SOCIALE LIBERALE-DEMOCRATICO E CULTURA DELLO STATO

 

Alternativa ‘stato-mercato’, ordine sociale liberale-democratico e cultura dello stato. Nella letteratura economica e nel dibattito pubblico in tema di ruolo economico dello stato è presente una fonte ricorrente di ambiguità: sia l’una che l’altro sono infatti dominati dalla alternativa convenzionale ‘stato-mercato’ e relativi fallimenti dell’uno e dell’altro. Tale alternativa, che pone da una parte il mercato con la sua logica dell’utilità individuale e del profitto e dall’altra lo stato con la sua logica del benessere sociale, si ritrova in quasi tutti i manuali di Politica economica e di Economia pubblica, troppo spesso accolta senza quell’approfondimento critico che un tema di tale portata richiede. Qui di seguito espongo le ragioni per le quali essa andrebbe superata, inglobando tutta l’economia e tutta la scienza economica entro l’ambito di quella cultura laica dello stato che costituisce l’anima dell’ordine sociale liberale-democratico.

Il mio discorso si ispira in toto al saggio di Tony Judt 2009 sulla socialdemocrazia, con due qualificazioni. Da una parte, per restare aderente agli scopi di questa Nota tento in diversi punti di convertire il linguaggio di Judt, grande storico, in quello più ‘tecnico’ proprio della nostra cultura disciplinare di economisti. Dall’altra, devo avvertire che il respiro, profondità e finezza della visione storica che lo percorre collocano il saggio di Judt a un livello conoscitivo ben più alto di quello al quale mi attesto io. Personalmente lo considero uno dei migliori ‘pezzi’ di pensiero politico-economico apparsi negli ultimi tempi, e per questa ragione invito gli studenti di economia a leggerlo e meditarlo direttamente. Ai miei occhi il suo merito forse principale consiste nell’offrire un tanto indispensabile quanto inascoltato contraltare al programma di ricerca dell’Economia della politica (Political economics) di derivazione americana, oggi dominante nella nostra disciplina, il cui approccio consiste nel combinare scienza economica e scienza politica in un’indagine prevalentemente positiva su come i governi interagiscono con gli individui-elettori, le organizzazioni sociali (corporazioni, partiti, ecc,), e gli interessi speciali nei processi collettivi di formazione delle scelte pubbliche (segnalo di passaggio che diversi studiosi – con i quali concordo – ritengono che il programma di ricerca della Political economics sia diverso da quello della cosiddetta Political economy, nota anche come Public choice, in quanto questo secondo presenta una caratterizzazione ideologico-metodologica molto più forte del primo)

Da parte mia nessuna intenzione di denigrare tale rispettabile ramo di studi, bensì solo di segnalarne agli studenti due limiti rilevanti, che l’autorevolezza di alcuni suoi cultori (Alesina, Tabellini, Persson, Müller e altri) può indurre a lasciare nell’ombra. Un limite è quello implicito in ogni indagine sociale di tipo positivo: la relativamente scarsa attenzione prestata alla divergenza tra le scelte pubbliche così ‘spiegate’ e quelle ‘costruite’ con indagini di tipo normativo orientate al benessere sociale. L’altro limite è quello, rilevantissimo, che tocca il cuore di questa Nota: la rimozione della dimensione morale dalla vita politica. Facendo appello a una lunga e illustre tradizione del pensiero politico e filosofico occidentale, desidero ribadire con Judt che in un ordine sociale liberale-democratico vita politica e moralità laica sono, e devono restare, inseparabili. La perdita di questo inscindibile legame non può che portare a una deriva della fabbrica sociale verso il deserto morale, nel quale le sole alternative valoriali alla non-moralità del perseguimento del benessere materiale, del successo sociale e del potere come ragione primaria di vita sono offerte dai fondamentalismi ideologici e religiosi, la cui incompatibilità con l’ordine sociale liberale-democratico ne mina l’architettura giuridica e la capacità di sopravvivenza.

 

Lo stato come istituzioni di governo. Per superare la contrapposizione convenzionale ‘stato-mercato’ di cui sopra parto dalla constatazione che alla parola stato si possono dare due diversi significati. Il primo è un significato empirico-istituzionale che identifica lo stato con una determinata categoria di soggetti e di attività, i soggetti pubblici in senso lato, quali le istituzioni del potere di governo (i diversi livelli del potere legislativo, esecutivo, giudiziario e di signoraggio, ricompresi nell’unica denominazione di Pubblica amministrazione), i decisori pubblici, i politici, gli enti pubblici, le imprese pubbliche, le partecipazioni statali nelle imprese private, i progetti congiunti pubblici-privati, e tutte le attività produttive, sociali, di prelievo e regolative ad essi facenti capo. Qui lo stato si differenzia dal mercato, identificato con i soggetti privati, e vi si contrappone, per la diversità ‘ufficiale’ degli obiettivi che ispirano, o dovrebbero ispirare, la sua condotta: non il benessere individuale e il profitto, bensì il benessere sociale variamente inteso.

 

Lo stato come insieme degli interessi collettivi. Il secondo è un significato ideale, che ci sposta dal terreno dei soggetti e relativi obiettivi a quello dei concetti economici, politico-sociali e morali. Se consideriamo la società economica come un campo di gioco diviso nelle due parti disgiunte, quella degli interessi rivali di individui e imprese che agiscono uti singuli, costituente l’economia ‘privata’ del mercato chiamata economia ‘commerciale’, e quella degli interessi collettivi (pubblici), condivisi dai membri della società civile che agiscono uti cives, costituente l’economia ‘pubblica’ non-commerciale, allora possiamo identificare lo stato con l’insieme di tali interessi condivisi, ovvero con la consapevolezza da parte dei cittadini degli interessi che essi condividono tra loro in quanto membri paritari della società civile. Dice Judt 2009: “Nessuna collettività di individui può sopravvivere a lungo senza scopi e istituzioni comuni … Cosa si deve fare dunque? Dobbiamo cominciare con lo stato: come incarnazione degli interessi collettivi, degli scopi collettivi, dei beni collettivi”. Vista da questo angolo visuale la contrapposizione convenzionale ‘stato-mercato’ basata sulla diversità dei soggetti e degli obiettivi appare se non mal posta, quantomeno inadeguata, e va sostituita da una visione comprensiva dell’intero spazio economico come sistema integrato nel quale gli interessi rivali dei ‘mercanti’, che possono essere soddisfatti attraverso lo scambio, coesistono e interagiscono con quelli condivisi dei ‘cittadini’, che essendo per loro natura non rivali e non escludibili non possono essere soddisfatti tramite lo scambio, bensì solo tramite la cooperazione politica.

 

La società economica e l’approccio economistico ai problemi sociali. Ora bisogna osservare che, comunque, la società economica non esaurisce lo spazio sociale, perché non tutti gli interessi umani hanno natura economica. Quelli economici ne costituiscono una sottospecie ben definita, che Olson 2000 identifica con la consueta lucidità: gli interessi strettamente economici sono quelli ‘comprabili’, ossia quelli che si possono soddisfare con fatti o cose suscettibili di costituire, almeno in via di principio, oggetto di un contratto di scambio tra acquirente e fornitore, ivi compresi gli interessi economici pubblici, non ‘comprabili’ solo a cagione della loro natura fisica non rivale e non escludibile. Nel linguaggio astratto dell’economista il concetto sostanziale di interessi economici rivali è convertito in quello formale di beni privati, quello sostanziale di interessi economici condivisi pubblici in quello formale di beni pubblici, e il valore economico di tali ‘beni’ è dato dalla disponibilità marginale sociale a pagare per essi. Qui è d’obbligo una precisazione importante, non sempre impressa con la dovuta enfasi nella cultura disciplinare dello studente di economia: per i beni privati tale disponibilità a pagare è data dalla curva di domanda, ottenuta come somma orizzontale dei benefici marginali individuali, mentre per i beni pubblici essa è data dalla somma verticale di quegli stessi benefici. Nella rappresentazione stilizzata della società economica questa semplice differenza formale contiene in nuce la fondamentale separazione qualitativa dell’economia privata ‘commerciale’ da quella ‘pubblica’ non-commerciale.

Questo quadro logico va naturalmente integrato con il gigantesco fenomeno strutturale delle esternalità. Una certa letteratura passata, ma anche presente, tende a presentare le esternalità come un difetto tutto sommato secondario dei mercati. Nella realtà invece esse pervadono profondamente quasi tutti i mercati, rendendo anche i prezzi dell’astratto paradigma competitivo largamente difformi da quelli che sarebbero richiesti dall’efficienza. Inoltre, al crescere delle esternalità positive associate alla produzione/utilizzo/consumo di un determinato bene privato la disponibilità marginale sociale a pagare per esso, e le relative condizioni di efficienza, si avvicinano qualitativamente a quelle di un bene pubblico, e tale esercizio teorico si estende pari passu al caso delle esternalità negative, sostituendo al concetto di bene pubblico e beneficio marginale sociale quello di ‘male’ pubblico e ‘danno’ marginale sociale.

Alla differenza tra gli interessi economici rivali dei mercanti e gli interessi economici condivisi dei cittadini corrisponde il passaggio dalle scelte private alle scelte pubbliche. In un ordine sociale liberale-democratico le scelte pubbliche sono quelle che perseguono, o dovrebbero perseguire, appunto gli interessi condivisi pubblici come sopra definiti. E la logica della società economica fornisce il criterio per monetizzare in termini di rapporto benefici-costi tanto le scelte private, tramite le curve di domanda del mercato, quanto quelle pubbliche, tramite le curve dei benefici marginali sociali come somma verticale dei benefici marginali individuali. Ciò che Judt chiama l’approccio economistico ai problemi sociali non è altro che questa conversione monetaria degli interessi economici.

 

Dal piano ‘basso’ della società economica a quello ‘alto’ della società politica e della filosofia morale. Ciò che, sempre seguendo Judt, voglio qui evidenziare è che la monetizzazione delle scelte individuali e pubbliche così descritta presenta un’intrinseca sostanziale debolezza. Essa contiene infatti, implicitamente, una visione riduttiva della vita sociale, nella quale tanto la vita privata quanto quella pubblica vengono per così dire standardizzate al ribasso tramite la loro ‘compressione’ entro l’universo monetario dei profitti e perdite e dei benefici e costi. Ma il passaggio dagli interessi economici rivali uti singuli a quelli economici condivisi pubblici uti cives non si può ridurre alla sola loro differenza formale. In realtà quel passaggio porta con sé, implicitamente, l’esigenza di andare oltre la dimensione puramente economica della vita sociale, perché presuppone, implicitamente, che l’individuo possieda la capacità morale di sollevarsi al di sopra del livello economistico, non-morale, del benessere sociale come aggregazione delle utilità individuali. E tuttavia oggi, dice Judt 2009, sembra che si sia persa la capacità di immaginare “un tipo di società diverso da quello le cui disfunzioni e disuguaglianze” sono tutte intorno a noi, “di mettere in discussione il presente e ancor meno di offrire alternative ad esso”, di pensare al significato profondo di “una buona società”. Il nostro impoverimento morale e intellettuale è arrivato al punto di essere diventato “discorsivo. Noi semplicemente non sappiamo come parlare di queste altre cose … Quando valutiamo se siamo a favore di una iniziativa non ci chiediamo se è buona o cattiva. Ci chiediamo invece: è efficiente? È produttiva? Aumenta il PIL? Contribuisce alla crescita? E questa propensione a evitare considerazioni morali, a restringerci a questioni di profitto e perdita” si ritrova anche nel rapporto 2009 della Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. Stiglitz, Sen e Fitoussi “non sono andati molto al di là di suggerire modi migliori di valutazione della performance economica; considerazioni non-economiche non hanno risalto nel loro rapporto”.

Qui voglio menzionare agli studenti una mia ulteriore personale perplessità. Pare a me sintomatico del suddetto impoverimento anche il tentativo di rispondere ai limiti dell’economismo con la cosiddetta economia della felicità, un ramo degli studi sociali che ha attirato negli ultimi decenni un gran numero di cultori, anche di alto livello, ma che a mio parere porta con sé l’effetto perverso di allontanare ulteriormente la cultura economica dalla dimensione morale della vita sociale, anziché di riaffermarne l’intrinseca correlazione. Guardando all’economia della felicità dall’angolo visuale del fondamento necessariamente laico dell’ordine sociale liberale-democratico, non è un caso che essa abbia trovato in Italia largo favore soprattutto in ambienti estranei alla laicità, in particolare tra i seguaci della scuola di pensiero economico cattolico-solidaristica del bene comune, impegnati a negare la distinzione laica tra mondo economico e mondo morale, e a riportare i mercanti nel Tempio, da dove il loro Maestro li aveva cacciati.

In ogni caso, con tutto quanto detto sopra non intendo negare che la valutazione economistica dei benefici e costi dei beni pubblici e privati abbia una sua validità. Ce l’ha, ma occorre ridimensionarla profondamente. La tesi che intendo porre al centro dell’attenzione degli studenti è che il passaggio dagli interessi rivali dei mercanti a quelli condivisi dei cittadini porta con sé un mutamento totale di prospettiva sulla vita economica, i cui passi salienti sono i seguenti:

 

  • In un ordine sociale liberale-democratico l’individuo non è mai un singolo non-sociale, bensì sempre un cittadino sociale, anche quando agisce come portatore di interessi rivali.
  • Nella pubblica discussione, al concetto di ordine sociale liberale-democratico si attribuisce esclusivamente un significato empirico-istituzionale. Si fa cioè esclusivo riferimento a leggi e istituzioni che devono garantire le libertà sociali negativa e positiva (secondo la classica definizione di Isaiah Berlin 1958), la separazione dei poteri, specie di quello giudiziario, e la libertà-indipendenza e pluralità dell’informazione, fino a un massimo grado, ovviamente variabile con il variare delle contingenti situazioni storiche e culturali.
  • Ma l’assetto istituzionale è, di per sé, insufficiente. Se si vuole che quell’ordine sociale sia forte anziché debole, bisogna dargli un’anima, che oggi non ha e forse non ha mai avuto. E l’anima, su cui sono in tanti a predicare nel deserto (quelli che all’inizio del mio discorso ho chiamato l’intellighenzia dissidente senza potere), non può essere altro che la moralità laica della cultura dello stato (o comunità civile), una moralità che non significa Madre Teresa, altruismo, generosità, dedizione agli altri, carità, giustizia, bontà d’animo, e tanto meno la Pareto efficienza, l’equità e la ‘funzione del benessere sociale’. Tutte bellissime cose che non c’entrano nulla. Significa una cosa sola: l’imperativo supremo del rispetto dei nostri simili, della loro libertà-indipendenza e dei loro interessi e valori in quanto aventi in principio nella società la stessa valenza dei propri. Un rispetto morale, in quanto motivato non dall’esigenza pratica (utilitaristica) di evitare il collasso della vita sociale, bensì dal riconoscimento dell’identità e libertà-indipendenza dell’essere umano come il valore morale universale laico per eccellenza.
  • In altri termini, bisogna capire e far capire che il concetto di ordine sociale liberale-democratico non può essere pensato senza attribuirgli, accanto al significato istituzionale, anche il significato morale di cui sopra. Riportare la cultura laica dello stato nell’economia e nella scienza economica significa precisamente riportare tutta l’economia e tutta la scienza economica dentro l’alveo di questa idea di società civile, nella quale lo stato, prima di essere espressione dei poteri di governo, è espressione della coscienza morale e civile degli individui nel loro status di cittadini. E così è inteso da due grandi pensatori laici come Tony Judt e Benedetto Croce, portatori di un’idea di stato diametralmente opposta a quella dello stato minimo di Robert Nozick 1974, la cui opera classica è divenuta per lucidità e rigore di pensiero la bibbia politico-filosofica del neoliberismo.
  • Come già detto, vi sono molti interessi della nostra vita che non hanno natura economica. Per darne un’idea basterà qualche esempio: l’interesse a una buona vita di relazione, all’amicizia, alla lealtà, all’onestà, a un sistema economico ben funzionante, a un buon governo, a una più ugualitaria distribuzione della ricchezza, a una cultura ‘sociale’ del rapporto di lavoro, e così via. Poiché questi interessi non sono ‘comprabili’, la domanda su quanto saremmo disposti a ‘pagare’ per il loro soddisfacimento si deve considerare priva di senso.
  • Quanto ai valori, cioè alla moralità, essi appartengono per definizione a un piano della nostra vita cosciente distinto e superiore rispetto a quello degli interessi, e la domanda su quanto saremmo disposti a pagare per essi è ancora più priva di senso di quella precedente. Alla domanda “Quanto siamo disposti a pagare per una buona società?” Judt 2009 risponde: “Non è chiaro”. Ma per lui risponde la filosofia (Croce 1929): poiché quella è un’idea morale, e i valori valgono infinitamente più degli interessi (“… ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza …”), la domanda non ha senso. Se fossimo capaci di convertirli in disponibilità a pagare, essi cesserebbero ipso facto di essere tali.
  • Qui occorre ribadire che se è vera la tesi che i valori e gli interessi, in particolar modo quelli economici, appartengono a momenti distinti della vita cosciente, se cioè è vero che i mercanti non devono fare del Tempio un luogo di mercato, non è altrettanto vera la tesi, che taluni fanno discendere dalla precedente, che il mondo degli affari è e deve restare sganciato dalla moralità e indipendente dai valori. Un’esemplare formulazione di questa tesi, di fatto molto più diffusa di quanto si voglia credere, si trova in un’intervista rilasciata da un grande manager formatosi alla Wharton Business School di Philadelphia, e citata in un servizio dell’International Herald Tribune del 18.2.2008: “non si può organizzare un’economia di mercato in accordo con principi puramente morali [perché] andrebbe in bancarotta … Il mercato internazionale non conosce moralità” (il manager è Klaus Zumwinkel, che all’epoca fu costretto a dimettersi da capo del colosso Deutsche Post, peraltro da lui gestito con riconosciuta capacità professionale, perché finito sotto inchiesta con l’accusa di evasione fiscale e illecite operazioni finanziarie per milioni di euro).
  • Si sta dicendo in sostanza che l’onestà morale (comprensiva dell’onestà legale, ma di gran lunga più estesa e profonda di questa) sarebbe incompatibile con il mercato e le sue leggi. Questo è un dilemma drammatico al quale nessuno studioso sociale può sottrarsi perché affonda le sue radici nella distinzione e inscindibilità tra essere e dover essere che identifica e separa le scienze ‘soft’ dell’uomo e della società da quelle ‘hard’ della natura, dove quella distinzione non ha cittadinanza. Io lo lascio aperto alla riflessione degli studenti, senza peraltro nascondere la mia personale opinione, e limitandomi a ribadire che la possibilità di riconoscere come valida la tesi di Zumwinkel chiarisce meglio di ogni dotta argomentazione che cosa si deve intendere quando si parla di ordine sociale liberale-democratico privo di anima.
  • Dal primato dei valori sugli interessi discende che se l’imperativo supremo del rispetto dei nostri simili è realmente presente nelle coscienze, il perseguimento dei secondi non potrà confliggere con esso. Pertanto la presenza o assenza di quell’imperativo nelle coscienze, e dunque la presenza o assenza dell’onestà morale, non potrà non riflettersi nella stessa valutazione economistica degli interessi economici privati e pubblici in termini di disponibilità a pagare, e quindi anche, indirettamente e nel bene e nel male, nella struttura della domanda tanto dei beni privati quanto di quelli pubblici, e nella composizione della produzione.

 

Una più alta cultura politico-economica e il dilemma della circolarità. Come detto più sopra, in questa mia riflessione sull’ordine sociale liberale-democratico intendo lo stato non nel significato ‘empirico’ degli assetti istituzionali del potere, bensì in quello ‘ideale’ della consapevolezza da parte dei cittadini degli interessi condivisi che li uniscono come membri della società civile, e più in generale della loro coscienza morale e civile. Ma le istituzioni del potere, i decisori pubblici e i politici sono la mano visibile di quello stato nella società, e sono in primis le élite di governo che hanno il compito di coltivare quella coscienza morale e civile, e di tutelare quegli interessi contro lo strapotere dei grandi gruppi commerciali-finanziari e le mille corporazioni che schiacciano l’economia sotto il peso della rendita. In una parola sono quelle élite che devono intendere la loro funzione sociale come consistente nel farsi portatrici di una più alta cultura politico-economica, rappresentata appunto dalla cultura laica dello stato discussa in questa Nota.

Ma qui il processo politico-culturale diventa circolare, tanto in positivo che in negativo, causando l’intrinseca fragilità dell’ordine sociale. Affinché all’interno della società si generino e alimentino élite di governo siffatte è necessario che quella cultura dello stato affondi le sue radici nel sentire diffuso della cosiddetta gente comune, a prescindere dal possesso di qualsivoglia filosofica consapevolezza. Ma se quella cultura è carente o mancante nel sentire diffuso, allora le élite stesse cesseranno di esserne portatrici e di promuoverla tra i cittadini, in un processo circolare discendente che porta inevitabilmente al suo indebolimento e/o scomparsa. E purtroppo molti segni inducono a ritenere che le economie e società dell’Occidente stiano vivendo oggi una fase discendente di quel processo, forse ancor più di quando scriveva Judt.

 

Letture di sfondo. Nelle mie intenzioni queste letture dovrebbero trasmettere allo studente tutto il peso dell’indiscusso prestigio intellettuale degli autori, e aiutarlo a comprendere che cosa intendo quando parlo del piano alto della società politica e della filosofia morale, e di una più alta cultura politico-economica. Come nella Sezione 1 sulla legge del profitto, anche qui si tratta di suggerimenti ‘culturali’ che non hanno nulla a che fare con la preparazione dell’esame:

 

  • Berlin Isaiah (1958), “Two concepts of liberty”, in Four Essays on Liberty, 1969, Oxford University Press, Oxford.
  • Croce Benedetto (1929), Discorso di opposizione al Concordato, pronunciato in Senato il 24 maggio 1929.
  • Idem (1947), Intervento contro l’istituzione delle regioni, pronunciato all’Assemblea Costituente l’11 marzo 1947.
  • Judt Tony (2009), “What Is Living and What Is Dead in Social Democracy?”, The New York Review of Books, vol. 56, n. 20, 17 dicembre 2009.
  • Nozick Robert (1974), Anarchy, State and Utopia, Basic Books.
  • Olson Mancur (2000), Power and prosperity, New York, Basic Books.

 

IL PIANO DEL CORSO

Anche se il Corso è una trattazione analiticamente rigorosa di una serie di temi presenti nella letteratura, cerco comunque – per quanto possibile – di trasfondere nella scelta degli stessi, nel loro inquadramento, e nel loro svolgimento formale le idee esposte in questa Nota. Tra i temi trattati mi limito qui a menzionare, a titolo esemplificativo:

  • la lotta distributiva come causa di estrazione di rendita nell’economia privata e pubblica,
  • gli ostacoli inamovibili alla libera cooperazione per il soddisfacimento degli interessi pubblici, e la necessità del potere coattivo di governo,
  • il ruolo insostituibile del governo nella ripartizione delle risorse tra usi privati e pubblici,
  • il benessere sociale e le scelte pubbliche in un regime democratico,
  • le esternalità positive e negative come approssimazioni ai beni e ‘mali’ pubblici (educazione, sanità, inquinamento, ecc.).

Il programma più dettagliato e il materiale didattico (testi, figure, riferimenti bibliografici) si trovano nella mia pagina web di Facoltà.

 

[1] ApertaContrada è lieta di pubblicare la presente Nota introduttiva, corredata da indicazioni sulle letture di sfondo, del Prof. Stefano Gorini, redatta nell’ottobre 2022 per il Corso tenuto presso l’Università di Roma Tor Vergata (AA 2022-2023).


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