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Commento a F. Amatori, L’impresa italiana, Treccani, Roma, 2022

di - 13 Marzo 2023
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Questo libro è da apprezzare, oltre che per la scientificità, la chiarezza e la brevitas, perché costituisce la sintesi dei decenni di studi che Franco Amatori ha dedicato alla storia economica italiana.

La storia economica dell’Italia contemporanea non è più solo una storia di tare e di ritardi. Sulla scia dei contributi di Alberto Caracciolo, Luciano Cafagna, Franco Bonelli, è stata riscritta da studiosi quali Stefano Fenoaltea, Gianni Toniolo, Vera Zamagni ed altri spesso vicini alla Rivista di Storia Economica fondata nel 1936 da Luigi Einaudi e riproposta nel 1984, come pure da istituzioni quali la Banca d’Italia e l’ISTAT.

E’ stata riscritta come la storia di un formidabile progresso, che ha moltiplicato la ricchezza netta degli italiani sino a innalzarla a otto/nove volte il reddito disponibile: il rapporto più elevato nel novero dei paesi del Gruppo dei Sette. Nondimeno, le contraddizioni e i limiti che pure hanno caratterizzato un siffatto progresso ne hanno provocato l’arresto in termini di produttività e di reddito nazionale nel volgere dell’ultimo ventennio. Il Pil pro-capite degli italiani, che alla fine del Novecento si era situato sui livelli europei è sceso, nel ventennio, del 15% al disotto di quegli stessi livelli, conpreoccupanti prospettive future.

Franco Amatori ha contribuito in modo decisivo a riscrivere tale vicenda dal punto di vista dell’impresa, uno dei tre protagonisti insieme con i lavoratori e con lo Stato. In questo saggio ha compiuto il miracolo di collegare questa dimensione microeconomica – le singole aziende e gli imprenditori degni e indegni di questo nome – alla dimensione macroeconomica, alle determinanti e alle risultanze complessive dell’economia del Paese. Oltre il titolo, il saggio è un lucido compendio della storia economica dell’Italia unita.

Di speciale interesse è che questa storia viene ripercorsa per fasi e non, come prima facie si potrebbe pensare, come uno sviluppo pressochè lineare da Cavour alla fine del secolo scorso, poi spezzato dal ristagno dell’ultimo ventennio.

Personalmente, mi riconosco in questa analisi per grandi fasi. Da fine Ottocento a oggi la mia scansione preferita, largamente coincidente con quella di Amatori, basata sull’alterno andamento della produttività delle imprese, è la seguente:

  • crescita rapida nell’età giolittiana
  • ristagno fascista
  • massima accelerazione nel 1948-1973
  • rallentamento successivo seguito da crescita zero.

Il saggio di Amatori illumina sul ruolo dell’impresa nell’imprimere alla produttività dell’intero sistema tale profilo temporale, in aggiunta al ruolo giocato dallo Stato e dal movimento dei lavoratori organizzato in associazioni, sindacati, partiti.

Ho trovato nel libro più conferme che smentite a una interpretazione macroeconomica davvero di sintesi estrema[1]: la produttività è migliorata quando fare profitti è stato difficile, sollecitando le imprese a investire e innovare, mentre è peggiorata quando fare profitti è stato facile:

  1. Giolitti spronò le imprese, al punto che l’alta borghesia – con in testa Società Italiana di Navigazione, Banca Commerciale Italiana, Corriere della Sera – non lo sostenne in Parlamento nel marzo del 1914 e nel suo opporsi alla guerra nel 1915. Lo giolittiano sprone scaturì dal cambio della lira forte, dal rigore di bilancio, dalla imparzialità del governo nel contrasto fra capitale e lavoro, dalla nazionalizzazione dei servizi in concessione mal gestiti dai privati (telefoni, ferrovie, assicurazioni e, nelle intenzioni, trasporti marittimi): la produttività crebbe.
  2. Il fascismo, in economia, significò salari sotto controllo e, per più vie, bassa concorrenza; la produttività ristagnò.
  3. Nel secondo dopoguerra la sferzata concorrenziale scaturì dalla riapertura internazionale dell’economia dopo l’autarchia e il protezionismo fascisti e ancor più dalla prospettiva del Mercato Comune in Europa: preoccupate, le imprese italiane moltiplicarono per tre decenni accumulazione di capitale e produttività.
  4. Infine, l’oggi. La produttività totale dei fattori è ferma da venticinque anni, gli investimenti sono tendenzialmente diminuiti e sono nulli o negativi dal 2011 al netto degli ammortamenti. Al tempo stesso, recessioni a parte, i profitti sono stati soddisfacenti grazie alla bassa concorrenza, alla moderazione salariale, all’evasione fiscale, ai danari pubblici.

Ma accanto a queste dimensioni quantitative il libro è animato dall’analisi delle sorti dell’impresa italiana e degli uomini che, nel bene e nel male, l’hanno diretta. Valletta e Sinigaglia, Mattei e Agnelli, Pirelli e Olivetti: Amatori non nasconde la sua ammirazione di studioso per i grandi imprenditori, come pure per le medie aziende nei distretti industriali celebrati da Becattini, che hanno fatto ricchi gli italiani. Al tempo stesso richiama i clamorosi episodi di crisi, come quello, gravissimo, che negli anni Trenta sfociò nell’IRI. Le grandi imprese italiane si contano attualmente sulle dita di una mano: una produce cioccolatini, un’altra montature per occhiali, la terza gestisce servizi autostradali. Nessuna è sulla frontiera del progresso tecnico.

Amatori non è pessimista sul futuro, ma l’Italia ha già sperimentato i limiti di un capitalismo senza capitalisti. Quando, dopo l’IRI, il conte Cini dichiarò in Parlamento che v’erano uomini d’affari pronti a rilevare le aziende e le banche nazionalizzate solo in pochi si fecero avanti, danari alla mano. Quando, alla Commissione economica per la Costituente, Giovanni Demaria chiese ad Angelo Costa se l’IRI andava smantellato, la risposta fu prudentemente negativa. Quando, nel 1992, il Ministro delle partecipazioni Statali Giuseppe Guarino propose ai maggiori capitalisti italiani di rilevare in blocco le grandi mega-holding pubbliche, la proposta sfociò in privatizzazioni per piccoli lotti.

 

[1] P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2020), Nuova edizione aggiornata, Bollati Boringhieri, 2020.


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