Codice Brubaker
La prima uscita, dopo la designazione, del neoministro della giustizia Carlo Nordio sulla necessità di avviare con urgenza un programma di nuova edilizia carceraria (forse anche per uscire dall’inevitabile imbarazzo che, nonostante le smentite del suo Governo, deve avergli procurato la querelle innescatasi sulla legge sui rave, ma soprattutto sul carcere ostativo) mi spinge a mettere finalmente mano ad un articolo che in realtà avevo in mente già più di un anno fa e riguardante, appunto, l’edilizia carceraria di cui mi sono personalmente occupato molti anni fa.
Andiamo per ordine.
Seguo Carlo Nordio da molti anni, sin da quando si occupava di terrorismo negli anni ’70, poi nelle inchieste su Mani Pulite, e mi ha sempre colpito la sua tendenza ad assumere atteggiamenti in spiccata controtendenza, se non in aperta polemica, rispetto al mainstream di settori dominanti della magistratura conservando, nello stesso tempo, un fermo atteggiamento da strenuo difensore dei principi garantisti più profondamente radicati nella tradizione liberale.
Al di là della conoscenza di Nordio attraverso i canali ufficiali della informazione, c’è un’altra fonte che ha contribuito in maniera decisiva a farmi conoscere ed apprezzare il nuovo guardasigilli: Radio Radicale.
Come è noto, RR è molto impegnata sul tema delle carceri, sia direttamente, con la sua rubrica serale Radio Carcere, sia indirettamente attraverso il sostegno e lo spazio che dedica ad alcune organizzazioni che affrontano di petto il tema dei delitti e delle pene, tipo Nessuno Tocchi Caino, Antigone, ecc
Nei confronti dell’edilizia carceraria RR ha sempre avuto un atteggiamento che mi sembra ora non coincida con le posizioni del ministro Nordio, perlomeno stando alle più recenti uscite di questo. Infatti, RR, e debbo ritenere quindi anche il suo partito di riferimento, sostiene, e non da oggi, che, invece di realizzare nuove carceri, si dovrebbero studiare ed adottare misure alternative alla detenzione. In particolare, i temi che ricorrono spesso negli interventi sul tema di RR, riguardano da un lato la depenalizzazione di alcuni reati (nella fattispecie quelli che riguardano l’uso di sostanze psicotropiche leggere, in particolare la cannabis, sostenendo che una notevole percentuale dei detenuti è costituita da questo tipo di consumatori) e dall’altro che l’Italia è ancora lontana, al contrario di altri paesi, dallo studio e dall’adozione di misure di pena nei confronti di reati “leggeri” che, da un lato non comportino la restrizione all’interno di siti carcerari, e dall’altro comportino l’applicazione di efficaci strumenti di riabilitazione e recupero.
In realtà, ci sarebbe da approfondire innanzitutto se il tema dell’edilizia carceraria significhi la realizzazione di nuove carceri oltre quelle esistenti o non, piuttosto, la sostituzione di quelle vecchie.
Allo stato attuale, basandosi solo sulle scarne dichiarazioni del neo ministro, non è facile capire in quale direzione egli abbia in mentre di dirigersi. Sta di fatto che entrambe le soluzioni precedenti possono sottintendere il raggiungimento di alcuni obiettivi strategici che hanno alcuni punti in comune.
La realizzazione tout court di nuovi siti penitenziari potrebbe contribuire ad ovviare ad un problema endemico del sistema detentivo nazionale e cioè il sovraffollamento delle strutture esistenti. Tale soluzione però non ovvierebbe ad un altro dei punti di debolezza delle nostre strutture, e cioè l’obsolescenza di molte di esse e la loro inadeguatezza igienico-funzionale. Di qui l’avvio, di cui si parla da molti anni, della seconda soluzione: la sostituzione delle vecchie carceri, perlomeno di quelle più obsolete, con un sistema completamente nuovo. Com’è ovvio, entrambe le soluzioni comportano l’apertura di un capitolo di bilancio non da poco nei ragionamenti economici del Governo: l’edilizia carceraria, soprattutto quella che risponde ai criteri moderni che viene richiesta da più parti, costa.
Vale la pena, a questo punto, ricordare il riflesso che la situazione del sistema detentivo in Italia ha prodotto nei confronti dei rapporti con l’Unione Europea.
L’8 febbraio 2014 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, ed in particolare per aver sottoposto a trattamenti inumani e degradanti 7 detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. La questione era legata fondamentalmente al fatto che ai detenuti era riservata una superficie pro capite inferiore a quella da regolamento europeo. Il problema, come ai tempi riferirono i vari organi di informazione, era di natura strutturale e risaliva a molto tempo prima dei fatti specifici.
In realtà, ad oggi, la situazione si è leggermente modificata in meglio, non tanto perché lo Stato ha nel frattempo ovviato alle carenze del sistema edilizio pertinente, quanto perché il numero dei detenuti è sensibilmente diminuito negli ultimi 10 anni. Al 30 giugno 2022, secondo il DAP (Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria) la popolazione delle carceri italiane assommava a 54.841 unità a fronte di 50.900 posti regolamentari, quindi con un tasso di sovraffollamento pari al 107,7%. Nel 2010 le persone detenute erano 67.961 mentre nel 2012 erano già calate a 66.585. Bisogna poi considerare che la popolazione detenuta si divide in quelli in stato di custodia cautelare (una volta sarebbero stati definiti in attesa di giudizio) e quelli sottoposti a condanna definitiva, i cui criteri detentivi dovrebbero, dal punto di vista tecnico progettuale, rispondere a parametri ben diversi l’uno dall’altro. Mediamente, le due categorie si rapportano in termini quantitativi rispettivamente in un terzo e due terzi.
Resta il punto che, in ogni caso, molte delle strutture detentive italiane non sono più all’altezza degli standard europei, soprattutto a causa della loro vetustà e quindi non rispondono più ai criteri progettuali moderni.
Come si è detto, oltre alle barriere ideologiche, uno dei nodi da sciogliere per poter affrontare questo problema consiste nel reperimento delle fonti finanziarie necessarie all’avvio di un piano di nuova edilizia carceraria. Mediamente, la realizzazione di un carcere costa, chiavi in mano, circa 125.000 Euro a detenuto. Se si assume il dato del giugno 2022 del DAP, la popolazione in eccesso nelle nostre carceri, rispetto agli standard europei, dovrebbe essere di 3.941 unità, per un costo totale quindi, se si volesse raggiungere l’equilibrio con gli standard realizzando nuove strutture, pari a circa mezzo miliardo di Euro, a cui, in realtà, si dovrebbe aggiungere quanto necessario ad adeguare dal punto di vista igienico-funzionale le strutture esistenti.
Dall’avvento in Italia, nel 1994, del Project Financing, si è molto discusso in varie sedi se fosse possibile applicare tale formula di realizzazione di opere pubbliche anche all’edilizia carceraria. Detto in altre parole, dato che la declinazione italiana del PF è “concessione di costruzione e gestione”, il nodo da risolvere è: è possibile delegare ad un privato, che si accolla il costo di realizzazione di un carcere, la gestione dello stesso per rientrare del costo sostenuto? Mentre per altre categorie, vedi l’edilizia ospedaliera (che, in fondo, presenta alcune analogie con quella carceraria), un certo equilibrio si è potuto conseguire, vuoi, soprattutto, attraverso i canoni di disponibilità vuoi con la terziarizzazione di alcuni servizi “non core”, come catering e laundry, per l’edilizia carceraria, per quanto ci si sia sforzati, non si è trovata una soluzione che contemperasse, ad oggi, il perseguimento degli equilibri economico-finanziari con il rispetto delle disposizioni amministrativo-costituzionali.
Il “decreto liberalizzazioni” del 2012, all’articolo 44 introduceva proprio la norma per la realizzazione di infrastrutture carcerarie facendo ricorso al Project Financing allo scopo di “fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri”. Il decreto prevedeva che le Fondazioni bancarie entrassero nel capitale delle Società di Progetto concessionarie perlomeno per il 20%. Lo strumento finanziario avrebbe dovuto essere l’emissione di Project Bond, formula immaginata dall’allora sottosegretario al Tesoro Ciaccia che, come è noto, non ha avuto alcun successo, e tantomeno per l’edilizia penitenziaria.
Di fondo, si potrebbe affermare che, al di là dell’insuccesso delle formule finanziarie, c’è una forte resistenza “culturale” in Italia ad affidare ad un privato un servizio eminentemente pubblico come quello della custodia penitenziaria. Tale atteggiamento ci differenzia molto, per esempio, dal mondo anglosassone, a regime Common Law. Negli USA tale indirizzo ha avuto un grande successo a partire dall’amministrazione Reagan, poi con Clinton per finire con la presidenza Trump, al punto che ci sono alcune società private che sono talmente cresciute negli anni da essere quotate in Borsa ed operano a livello internazionale in paesi dove tale modello è stato adottato, come l’Australia. Nel Regno Unito, patria del Project Financing, che pure aveva adottato il modello dell’affidamento ai privati della gestione dei siti carcerari, si va viceversa verso una conversione ad U ed un riaffidamento allo Stato dopo che una inchiesta del 2017 del Ministero della Giustizia aveva messo in luce un grave degrado delle strutture e dei servizi detentivi determinato dalla politica di massimizzazione dei profitti delle società concessionarie a discapito dei costi di gestione e manutenzione.
Al di là di questo o di quell’altro modello da adottare, resta quindi l’esigenza di fronteggiare l’emergenza carceraria.
A questo punto chi legge potrebbe legittimamente cominciare a chiedersi cosa c’entra l’articolo col titolo “Codice Brubaker”
Nel 2003, l’allora Governo Berlusconi, per idea del ministro del Tesoro Tremonti, creò una società denominata Patrimonio dello Stato SpA, il cui scopo statutario era quello di ottimizzare il patrimonio immobiliare pubblico, in altre parole: valorizzarlo e dismetterlo per fare cassa. La Patrimonio faceva il paio con la Infrastrutture SpA che avrebbe dovuto occuparsi di colmare il gap infrastrutturale del nostro Paese.
In particolare, la mission di Patrimonio era quella di andare a pescare nell’universo dello stock pubblico, che, come noto, si articola in disponibile, non disponibile e demaniale, quegli immobili, edifici o terreni, che non fossero più utilizzati o versassero in condizioni di fatiscenza, che, per un motivo o per un altro, costituissero un peso economico per lo Stato, invece che un valore.
Oggettivamente, a 21 anni di distanza e col senno di poi, l’idea fondante delle due società partiva da una visione meritoria degli obiettivi da conseguire, ma, nella migliore tradizione italiana, fallirono entrambe. Infrastrutture SpA durò pochissimo mentre Patrimonio dello Stato ebbe sorte un po’ più lunga, circa sei anni di vita operativa. Il motivo del fallimento va ricercato in parte in una certa improvvisazione nell’allestimento dei due strumenti, dal punto di vista del management, delle risorse e forse anche nella non limpidissima chiarezza sugli obiettivi e sulla strategia, ed in buona parte anche per la forte resistenza delle opposizioni e dell’apparato amministrativo centrale e locale. Tale resistenza era composta prevalentemente da ragioni di natura ideologica ed in altra parte, che interagìva efficacemente con la prima, dalla fittissima maglia burocratica delle norme attuative e dei vincoli preesistenti che, in sostanza, resero inattuabile il disegno strategico sottostante.
Di fatto, l’unico intervento di una certa rilevanza che la Patrimonio SpA portò a termine riguardò il settore carcerario, anche se rimase a livello di studio. Parallelamente alla Patrimonio fu infatti creata una società ambiziosamente denominata Dike Aedifica, partecipata dal Ministero del Tesoro e dal Ministero di Grazia e Giustizia, sotto il coordinamento del DAP, il cui scopo statutario era quello di dare il via ad un vasto programma di nuova edilizia carceraria, che fosse adeguato a criteri moderni e che sostituisse le innumerevoli carceri obsolete presenti sul territorio nazionale. Il programma avrebbe ottenuto anche lo scopo di rimuovere le critiche e le sanzioni che l’Europa già ci muoveva in merito.
In ossequio ai principi di base che informavano quel Governo, improntati ad una visione liberistica dell’economia pubblica, il programma di Dike Aedifica avrebbe potuto essere realizzato attraverso misure di stampo imprenditoriale, ancorchè attuate dallo Stato, che vedevano al primo posto il reperimento delle risorse finanziarie necessarie facendo ricorso solo in minima parte alle risorse pubbliche ed in gran parte, secondo la filosofia alla base di Patrimonio SpA, attuando un processo di valorizzazione e di immissione sul mercato del patrimonio immobiliare pubblico disponibile.
In particolare, c’era una fetta non indifferente di questo patrimonio che faceva proprio caso agli scopi che si prefiggeva il Governo in ordine all’edilizia penitenziaria, e cioè le cosiddette carceri dismesse.
Per poter comprendere in che misura l’insieme dei siti carcerari non più utilizzati avrebbe potuto essere di ausilio efficace nel finanziamento del nuovo programma di edilizia penitenziaria era però necessario avere un’idea esatta in cosa consistessero le “carceri dismesse”. Per fare questo Patrimonio affidò ad un professionista romano l’incarico di effettuare un’indagine su 55 siti carcerari riconsegnati dal Ministero di Grazia e Giustizia all’Agenzia del Demanio, definendo uno stato di consistenza, una stima sommaria del valore a quel momento e sviluppando delle ipotesi di percorso di valorizzazione funzionale ed economica. Quel professionista, il sottoscritto, aveva una passione per il cinema ed il vezzo di attribuire ad ogni suo dossier il titolo di un film. In quel caso la scelta cadde su di un bel film, Brubaker, appunto, con protagonista Robert Redford che interpretava il direttore di un carcere con visione illuminata che si fingeva detenuto per vivere di persona, e denunciare, lo stato di degrado strutturale ed esistenziale delle carceri americane.
L’indagine fu un viaggio alla Guido Piovene nel mondo dell’Italia delle carceri, vecchie e meno vecchie, che si estese lungo tutto lo Stivale, isole minori comprese, alla scoperta di realtà inedite e stupefacenti. Purtroppo, l’indagine rimase fine a sé stessa, al netto di qualche operazione spot, e di dubbio esito, che in seguito fu attuata dai responsabili della Società e che certamente non contribuì al raggiungimento degli obiettivi preposti, non tanto per il valore intrinseco del lavoro, quanto per la mancanza di volontà dei politici che lo commissionarono e di quelli che a loro succedettero.
I 55 siti carcerari messi sotto esame in realtà sono solo una porzione dell’insieme delle strutture detentive dismesse dallo Stato, valutate, ai tempi, in circa 250.
Esse sono composte da edifici prevalentemente vecchi, se non addirittura storici, ma anche da qualcuno, come si dice a Roma, nuovo di pacca, e mai utilizzato, per ragioni misteriose. Un esempio eclatante, tra quelli esaminati, fu quello del carcere di San Valentino, in provincia di Pescara, in Abruzzo. Si trattava di un carcere circondariale, cioè una struttura piccola, di poche decine di celle, destinata all’attuazione di misure cautelative, ma che, nondimeno, costò all’Erario svariati milioni di Euro. La struttura, progettata secondo criteri moderni, era stata inaugurata con tanto di taglio dell’immancabile nastro, dotata di tutte le attrezzature più recenti, impianti compresi, e pronta a funzionare. Quando fu effettuato il sopralluogo, i funzionari del DAP addetti alla custodia riferirono che dopo l’inaugurazione, e prima che fosse sottoposto a sorveglianza, gli unici “ospiti” furono ladri muniti di trattori e benne che provvidero a sfondare gli ingressi asportando nottetempo cucine, frigoriferi, gruppi elettrogeni, bagni ed arredi vari. Il sito non sarebbe mai entrato in funzione.
La stragrande maggioranza delle carceri dismesse è però costituita da edifici molto vecchi o antichi. L’esistenza di alcuni di essi è strettamente legata alla vita del comune dove essi sono situati. È il caso di Lagonegro, un piccolo comune della Basilicata di poco più di 5000 anime la cui sussistenza ruotava tutta attorno al vecchio carcere, realizzato nel 1910. Sarte, piccole pensioni per i parenti dei detenuti in visita, panifici, trattorie e piccole aziende agricole si trovarono improvvisamente senza occupazione quando il carcere fu chiuso e tutto il paese ebbe un tracollo anche demografico da cui ancora non si è risollevato.
Per capire quanto il mancato utilizzo di tali edifici costituisca un danno per l’erario, e non solo, è sufficiente dire che molti di questi, a causa della loro vetustà e precarietà strutturale, sono spesso soggetti a crolli, più o meno importanti, delle loro strutture e quindi debbono essere messi in sicurezza. Quando tali crolli si verificano all’esterno delle loro mura perimetrali, come per esempio nel caso di cedimenti e cadute di cornicioni o di porzioni di tetto, chi deve intervenire d’urgenza, quantomeno per recintare l’area, è il Comune dove tali strutture insistono. Il Comune da un lato ha l’obbligo di intervenire per non essere imputato a causa di eventuali danni a cose e persone e dall’altro non ha nessuna competenza patrimoniale nei confronti dell’edificio, che ovviamente, è demaniale e compete al DAP. Data la totale latitanza del “padrone di casa”, il Comune deve eseguire i lavori “in danno”, con una perdita cioè in bilancio del Comune stesso, sperando che prima o poi lo Stato provveda al risarcimento.
Molte delle strutture sottoposte ad indagine sono di grande pregio storico-architettonico o paesaggistico, alcune non nate per lo scopo a cui sono state adattate, altre sì. Tra queste ultime, la più caratteristica, molto legata alla storia del ‘900 del nostro Paese, è sicuramente il carcere di Santo Stefano, nei pressi di Ventotene. Frutto di un concetto progettuale ideato nel 1791 dal giurista inglese Jeremy Bentham, e denominato Panopticon per l’ottimizzazione del controllo visuale dei detenuti, ma utilizzato anche per ospedali psichiatrici, di tale modello, oltre a quello di Ventotene, si trovano solo altri tre esempi a Cuba, a Birmingham ed in Colombia. Tra le strutture destinate inizialmente ad altri scopi, l’indagine ha esaminato, tra le altre, il Forte di Gaeta, utilizzato come carcere militare, due strutture a Procida, l’isola di Pianosa, nota per avere ospitato in regime di 41 bis molti ergastolani mafiosi, e, soprattutto, la villa Favorita di Ercolano, in realtà utilizzata fino a circa venti anni fa dal DAP come scuola per la formazione delle guardie penitenziarie. Lo splendido edificio, realizzato nel 1791 su progetto dell’architetto Ferdinando Fuga, è forse uno dei più sontuosi del circuito delle ville nobiliari vesuviane che facevano da contorno alla Reggia borbonica di Portici. A quasi venti anni dalla indagine di Patrimonio dello Stato, la villa continua a versare in un gravissimo stato di degrado e abbandono.
Questi sono solo alcuni esempi, forse i più significativi, tra gli edifici esaminati, ma ce ne sono di simili in tutta Italia, per non considerare gli impianti carcerari ancora operanti, ma che palesemente non sono più in grado di assolvere alla loro funzione, se dovesse essere orientata verso criteri attuali; uno tra tutti, il carcere di Regina Coeli nel Centro di Roma.
Si può discutere di tutto, se la funzione del carcere sia degna o meno di un paese democratico del terzo millennio, se debbano o meno essere impegnati soldi pubblici per la realizzazione, sicuramente impegnativa dal profilo finanziario, di un nuovo piano carcerario, se poi gli istituti penitenziari debbano assolvere fino in fondo il loro fine primario, ossia l’erogazione della pena, quasi come vendetta della società, o se viceversa debbano essere il luogo dove si cerca il recupero del detenuto e lo si prepara alla reinmissione nella società stessa. Il tutto fermo restando il principio di Voltaire che “la civiltà di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri”. Quello che appare francamente inaccettabile e fuori dal campo di una qualsiasi discussione è invece la sciatteria con cui un Paese tratta il proprio patrimonio e la propria memoria. Che potesse essere utilizzato o meno per contribuire alla realizzazione di un nuovo piano carcerario, questo può essere oggetto di dibattito, ma il campione di 55 carceri dismesse posto sotto osservazione a suo tempo dalla indagine di Patrimonio dello Stato, aveva messo in luce che l’insieme dei compendi, opportunamente valorizzati, anche ricorrendo, stavolta sì, al concorso del privato, avrebbe potuto rendere allo Stato circa 400 milioni di Euro, somma che, con i tempi che corrono, non mi sembra che il nostro Paese si possa permettere di trascurare e che, nel remoto caso, avrebbe potuto coprire buona parte del fabbisogno necessario alla realizzazione di un nuovo “piano carceri”. Si può poi si estendere questo concetto, pantografandolo a tutti i siti carcerari dismessi ed al resto dell’enorme patrimonio pubblico. Mentre la politica si consuma in eterni e sterili dibattiti sulla opportunità di dismettere o no, di valorizzare o di mantenere nello status quo, questo insieme di beni continua a degradare ed a costituire, insieme ad altre, troppe strutture abbandonate, una cicatrice sul territorio nazionale nonché una voce costantemente passiva del bilancio pubblico, e ci si chiede che concetto potranno farsi di noi le future generazioni che erediteranno questo scempio.