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Diritto dell’economia, diritto per l’economia

di - 4 Luglio 2022
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Non supplisce l’art. 41 della Costituzione. In una economia di mercato capitalistica – la scelta dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale – l’iniziativa privata dev’essere ovviamente libera. Altrettanto ovviamente non deve ledere l’utilità sociale, concetto vago ma che certo ricomprende l’evitare le esternalità negative che l’attività d’impresa spesso determina.
Quello stesso articolo potrebbe utilmente affermare che chi intraprende un’iniziativa privata di produzione ne sia esclusivo responsabile e che essa deve svolgersi in condizione di concorrenza. Solo in parte il vuoto è colmato da norme europee. Queste identificano la concorrenza con le forme di mercato: che non siano monopolistiche, oligopolistiche, affette da posizione dominante e da intese collusive fra i produttori: tratti negativi, questi, che un organismo antitrust può, entro limiti, contrastare. Del pari, gli aiuti di Stato collidono con le regole europee. Ma il caso italiano dimostra che “profitti facili” possono derivare da altri rapporti delle imprese con lo Stato, dall’evasione ed elusione dei tributi, dalla moneta sottovalutata, dalla debolezza sindacale. E’ un fatto che le imprese italiane in generale traggono in un anno ampio vantaggio da contributi pubblici alla produzione e agli investimenti per circa 50 miliardi, da una evasione ed elusione per una cifra anche  maggiore, da concessioni di favore per decine di miliardi di attività economiche, da prezzi esosi a carico delle amministrazioni pubbliche lucrati su forniture e appalti (consumi intermedi, prestazioni sociali in natura acquisite sul mercato, investimenti fissi lordi) che sfiorano 200 miliardi. Alle risorse estorte a quello che con l’aggiunta degli aiuti da pandemia si è chiamato “Stato provvidenza”[13] si sono uniti il tasso di cambio strutturalmente basso con cui la lira sfociò nell’euro e salari stagnanti. L’aspettativa e la realizzazione di questi “profitti facili” hanno reso le imprese irresponsabili, disabituate a dipendere esclusivamente da sé stesse. Non le hanno certo sollecitate all’investimento, all’innovazione, all’efficienza. Secondo le valutazioni dell’ISTAT nel 1995-2020 la produttività totale dei fattori nell’intera economia italiana è diminuita dello 0,1% l’anno, cioè quasi del 3% nell’intero periodo.
La sottovalutazione, la non accettazione, da parte delle stesse imprese dei fondamentali principi della imprenditorialità e della concorrenza ha ostacolato l’operare in Italia del meccanismo virtuoso dell’innovazione illustrato da Schumpeter: “Chi crea con successo qualcosa di nuovo non trova inizialmente concorrenza, per lo meno fino a che il suo successo non è alla portata di tutti. Poi naturalmente arriva la concorrenza ed elimina il grande profitto (…). Questo meccanismo è estremamente ingegnoso: sulla base di un unico e medesimo principio esso fa nascere la prospettiva di premi abbastanza consistenti da indurre i migliori cervelli di una nazione a concentrarsi con disperata energia su tali obbiettivi; e nello stesso tempo fa sì che essi, una volta raggiunti, scompaiano automaticamente quando hanno assolto alla funzione per cui erano nati. Lo stesso processo che li elimina trasferisce alle masse il risultato delle innovazioni sotto forma di riduzioni dei prezzi”[14].
Il terzo valore suscettibile di rafforzamento, oltre alla funzione imprenditoriale e alla concorrenza nella più larga accezione, è l’equità distributiva unita al rifiuto della povertà.
Al tempo della Costituzione la sperequazione dei redditi si commisurava a uno 0,40 dell’indice di Gini e i molto poveri erano il 13 per cento della popolazione. Soprattutto, disoccupati e sottooccupati superavano un quinto della forza-lavoro. Non a caso, nella Costituzione l’accento venne fortemente posto su occupazione e salari. La Carta scandisce all’art.1 come l’Italia sia una Repubblica “fondata sul lavoro”; afferma all’art.4 che quello al lavoro è un diritto; impegna la Repubblica a tutelare il lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” (art. 35); attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36); dichiara libera l’organizzazione sindacale (art. 39).
Ciò avveniva in un’Italia il cui reddito medio pro capite nel 1948 era da paese sottosviluppato, appena il 15% dell’attuale. Ma nonostante il generale progresso economico da allora registrato, ancor oggi l’Italia vede profondi divari distributivi fra i cittadini e un alto tasso di povertà. L’indice di Gini sui redditi, seppure diminuito dal dopoguerra, resta dell’ordine di 0,33, a metà fra i picchi statunitensi e i più civili, bassi livelli dei paesi nordici europei. Ciò che è più grave, in povertà assoluta vivono 5,6 milioni di persone, ovvero quasi il 10% della popolazione: una quota di cittadini solo di poco inferiore a quella stimata dalla “Inchiesta sulla miseria” deliberata dal Parlamento nel 1951.
Occupazione e salari, pur fondamentali, non sono tutto. La forza-lavoro supera appena i 24 milioni, su quasi 60 milioni di abitanti. Al di là del rapporto profitto/salario, la distribuzione dei mezzi materiali e la condizione dei meno abbienti sono influenzate da una molteplicità di forze.
Manca, nella Costituzione, l’affermazione di un principio generale d’equità nella ripartizione degli averi, da perseguire in quanto tale. L’unico riferimento esplicito e concreto al problema distributivo è allo strumento fiscale: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53). Ma le vie per prevenire e per correggere una distribuzione sperequata, a monte e a valle del mercato, vanno ben oltre la tassazione progressiva. L’intero bilancio pubblico, il welfare state, l’istruzione, l’azione dello Stato in tutti i suoi strumenti dovrebbero orientarsi a questo fine. Specifico contro l’altro e più grave problema, la povertà, è l’art. 38: ”Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Ma perché limitare il sostegno all’inabile al lavoro che al tempo stesso sia a rischio d’inedia, e non estenderlo a ogni cittadino che sopravvive, sì, ma in povertà assoluta?
Contrastare la sperequazione distributiva ed eliminare la povertà sono obiettivi, valori, coerenti con un’economia di mercato capitalistica, oltre che con la democrazia. Le considerazioni d’ordine morale volgono a favore di chi è posto in basso nella scala dei redditi e dei patrimoni. Volgono ancor più a favore di chi sopravvive in condizione di povertà assoluta. Ma alle considerazioni di natura etica[15] si uniscono quelle d’ordine economico. Disporre di risorse aggiuntive consente a chi ne è privo di potenziare le proprie capacità culturali e professionali, quindi di contribuire al progresso dell’intera economia. Le indagini econometriche registrano una correlazione positiva fra equità distributiva e crescita economica[16].
Imprenditorialità, concorrenza, equità sono tre valori a cui la riforma organica dell’esperienza giuridica italiana potrebbe meglio ispirarsi.

Note

13.  G. Amato, Bentornato Stato, ma, il Mulino, Bologna, 2022, p. 30.

14.  J.A. Schumpeter, Funzione imprenditoriale e interesse operaio, (1927), in Id., L’imprenditore e la storia dell’impresa. Scritti 1927-1949, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 41.

15.  Un’anima tormentata dal problema della povertà fu quella del massimo degli scrittori (L.N. Tolstoj, Che fare, dunque?, (1882),  Fazi, Roma, 2017.

16.  Rinvio a P. Ciocca, Ricchi/Poveri. Storia della diseguaglianza, Einaudi, Torino, 2022.

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