Diritto dell’economia, diritto per l’economia

In un’economia sviluppata[1], non pressata da squilibri strutturali, può bastare che ordinamento, giurisdizione e scienza del diritto – l’esperienza giuridica nel senso di Capograssi e Orestano[2] – siano conformi al modo d’operare del sistema, vi corrispondano. In questi casi – rari per la verità – può usarsi la locuzione “diritto dell’economia”.
Negli Stati Uniti, in particolare, prima della crisi Lehman si era affermato il convincimento che i mercati non fossero lontani da quelli che la scienza economica americana qualifica come “perfetti” sulla scorta dell’individualismo metodologico e della teoria del valore Walras-Pareto (oggi Arrow-Hahn-Debreu). Nella versione di Eugene Fama la efficient market hypothesis vuole che il prezzo di mercato rifletta l’informazione disponibile.
A questo paradigma si correla “l’analisi economica del diritto”, ispirata dall’economista neoclassico Aaron Director a Chicago negli anni Quaranta, da lui sviluppata poi a Stanford insieme col giurista Richard Posner. L’idealtipo normativo più vicino è il common law. Questo diritto scaturisce in modo decentrato dall’interazione fra le parti, gli avvocati, le giurie, i magistrati, le sentenze. Dati i riferimenti paretiani di teoria economica non sorprende che la diade law and economics/common law orienti l’esperienza giuridica all’efficienza piuttosto che all’equità distributiva. Cito Angus Deaton, Premio Nobel per l’economia 2015: “La Corte Suprema americana è a capo di un sistema legale che tende a emettere giudizi a favore dell’efficienza economica con poca o nessuna preoccupazione per la distribuzione”[3]. Forse anche per questo gli Stati Uniti registrano la sperequazione dei redditi più alta fra le economie avanzate, con un indice di Gini intorno a 0,40 e 30 milioni di persone in condizione di povertà assoluta, democrazia a rischio.
La crisi del 2008 ha imposto un ripensamento critico, a cui con grande onestà intellettuale non si è sottratto lo stesso Posner, che ha scoperto e apprezzato Keynes in età avanzata[4].
Il punto cruciale tuttavia è che nei sistemi di common law l’esperienza giuridica tende ad adattarsi endogenamente, dal basso verso l’alto, al mutare dell’esperienza economica. Nei sistemi di diritto civile, invece, ai fini dell’adattamento è essenziale una politica del diritto, un’azione legislativa esogena, dall’alto verso il basso: un diritto “per” l’economia. Va detto che la distinzione fra i due sistemi si è attenuata nel tempo principalmente per l’accentuarsi della produzione legislativa nei paesi di common law, anche a fini di politica economica attraverso il diritto. Un esempio è il Dodd-Frank Act del 2010, la risposta americana alla crisi finanziaria del 2008: XV titoli, 541 articoli, oltre 8mila pagine di regole altamente tecniche.
Il legislatore di civil law deve muovere dalla consapevolezza dei problemi economici che si pongono e chiedersi se e come la dimensione giuridica possa contribuire a risolverli.
I problemi dell’economia italiana sono riconducibili a uno: un problema di crescita[5]. Da oltre vent’anni il reddito pro capite ristagna. Nel Mezzogiorno è addirittura diminuito.
La teoria economica individua i tre motori della crescita nell’accumulazione privata del capitale, nel progresso tecnico, nella domanda globale. In Italia tutti e tre i motori sono da un ventennio spenti.
La teoria economica indica altresì un insieme di fattori, di natura strettamente economica, che influiscono su questo primo strato di determinanti della crescita, ovvero del ristagno. Ma la stessa teoria economica e ancor prima e ancor più la storia economica hanno attribuito crescente rilievo a un secondo strato. Cultura, politica, istituzioni sono apparse costituire questo secondo strato, quali determinanti metaeconomiche della performance delle economie.
In questo quadro importanza specifica viene sempre più attribuita, financo in indagini quantitative, alla dimensione lato sensu giuridico-istituzionale[6]. Emerge da queste analisi che il diritto conta molto per la crescita; che il diritto di common law può favorire la crescita più del diritto di civil law; che il diritto italiano è ritenuto inadeguato dagli operatori nazionali e internazionali; che la sua riforma recherebbe un contributo significativo al ritorno dell’economia italiana alla crescita.
In Italia il freno giuridico alla crescita dell’economia non è nella rule of law. Anche senza scomodare il diritto romano e la lex mercatoria proprietà, contratto, responsabilità civile – gli istituti cardine della produzione e dello scambio – sono da gran tempo riconosciuti in modo acconcio. Opportunamente Deirdre McCloskey lo ricorda a un bravo economista ma storico dilettante come Daron Acemoglu.[7]  Nondimeno, l’ordinamento italiano dell’economia è affetto da limiti, da più parti   enunciati. Lo stesso Piano di Ripresa e Resilienza se ne dimostra consapevole, anche al di là della riforma “della giustizia”.
I mali sono gravi: un diritto d’impresa che non promuove la trasformazione dei 4 milioni e più di aziende italiane da piccole e familiari in medio-grandi quotabili in borsa; un diritto societario che oscilla fra la voice e l’exit delle minoranze; un sistema processuale che rende le liti eterne e di incerto esito; un diritto fallimentare che stenta a cogliere  precocemente i segni della crisi aziendale e a distinguere gli uomini d’affari sfortunati dai disonesti; un diritto amministrativo che ostacola le produzioni, semina sfiducia fra privato e pubblico, blocca l’investimento pubblico con un codice degli appalti barocco; una magistratura non di rado ignara di economia e finanza, se non prevenuta verso l’economia e la finanza; una scrittura delle leggi da azzeccagarbugli, con buona pace di insigni cultori della forma come Uberto Scarpelli e Piero Fiorelli[8].
Si tratta di arcinoti, antichi problemi per i quali specifiche soluzioni tecniche sono state anche prospettate, ed è desolante che restino ancora da attuare, movendo da una visione organica di quanto occorrerebbe a una moderna economia di mercato.
Perchè v’è di più. Questa visione organica è essenziale.
La ricerca recente ha messo in luce un terzo strato da cui dipende la crescita: i principii, i valori borghesi, il loro riconoscimento, la loro accettazione, la loro centralità. Su di essi si fondano la cultura, le istituzioni e la politica che a propria volta condizionano l’accumulazione del capitale, l’innovazione, la dinamica della domanda. Vale richiamare alcuni di quei valori, per contribuire alla visione organica da cui una politica del diritto per l’economia dovrebbe prendere le mosse.
Delle tredici virtù individuali elencate da Beniamino Franklin decisive per il progresso capitalistico sono “resolution, frugality and industry”[9]. Werner Sombart sottolineò “industry and frugality” come le determinanti cruciali di investimento e risparmio[10]. Da ultimo Deirdre McCloskey ha riportato a sette gli elementi morali che a differenza di quelli strettamente economici – “Economics can’t explain the modern world”! – danno ragione del perché il capitalismo in soli due secoli ha moltiplicato di quindici volte il reddito medio di una umanità che aveva per millenni, malthusianamente, ristagnato nella miseria più nera.
Sono questi i tratti del sistema borghese a cui il mondo si è affidato attraverso la Rivoluzione industriale d’Inghilterra, senza che si affermassero sistemi alternativi.
Questi valori in Italia sono deboli. Lo sono per ragioni storiche. Lo sono anche perché non tutti hanno trovato consacrazione fra i principi cardine della esperienza giuridica, compresa la Costituzione del 1948, per ogni altro verso splendida e da serbare. Accanto a una positiva eccezione – il risparmio e la sua tutela, la frugality, scolpita nell’Art. 47 – spiccano carenze almeno su tre fronti: l’imprenditorialità, la concorrenza, l’equità.
La funzione imprenditoriale è la sorgente dell’innovazione, quindi della produttività. E la produttività spiega due terzi dell’incremento storico del Pil, della ricchezza delle nazioni. Schumpeter ha chiarito questi legami in via definitiva[11]. Ha anche spiegato che la funzione imprenditoriale può coincidere con una singola persona solo nella piccola azienda, con il proprietario che sopporta anche il rischio. Ma questa coincidenza tra funzione imprenditoriale e capitalista è molto meno frequente nei grandi gruppi a proprietà diffusa, articolati in dipartimenti secondo complessi schemi organizzativi e rapporti gerarchici.
Il Codice Civile del 1942 tratteggia una figura d’imprenditore. Tuttavia non fa perno sulla schumpeteriana funzione imprenditoriale. Il personaggio disegnato da Alberto Asquini all’art. 2082 non è il depositario delle idee, della ricerca, dell’innovazione. E’ un mero coordinatore della produzione, se non un lavoratore come gli altri nel sistema fascista delle corporazioni e della collaborazione fra capitale e lavoro. E’ il dirigente necessario a guidare qualsivoglia attività complessa, pubblica o privata che sia, non necessariamente quella specificamente rivolta al profitto attraverso l’accumulazione del capitale e il progresso tecnico, con i relativi rischi assunti in condizione di ineliminabile incertezza dagli investitori-proprietari. Se si vuole nobilitarlo, il 2082 è ispirato al “manager” di Alfred Marshall[12], non all’ imprenditore-innovatore di Schumpeter. Sarebbe oltremodo opportuna una riscrittura di quell’articolo, volta a valorizzare la funzione imprenditoriale al di là dei soggetti che la interpretano in aziende tanto diverse per settore, dimensione, assetto giuridico: proprietari, amministratori, uffici tecnici e di ricerca.

Non supplisce l’art. 41 della Costituzione. In una economia di mercato capitalistica – la scelta dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale – l’iniziativa privata dev’essere ovviamente libera. Altrettanto ovviamente non deve ledere l’utilità sociale, concetto vago ma che certo ricomprende l’evitare le esternalità negative che l’attività d’impresa spesso determina.
Quello stesso articolo potrebbe utilmente affermare che chi intraprende un’iniziativa privata di produzione ne sia esclusivo responsabile e che essa deve svolgersi in condizione di concorrenza. Solo in parte il vuoto è colmato da norme europee. Queste identificano la concorrenza con le forme di mercato: che non siano monopolistiche, oligopolistiche, affette da posizione dominante e da intese collusive fra i produttori: tratti negativi, questi, che un organismo antitrust può, entro limiti, contrastare. Del pari, gli aiuti di Stato collidono con le regole europee. Ma il caso italiano dimostra che “profitti facili” possono derivare da altri rapporti delle imprese con lo Stato, dall’evasione ed elusione dei tributi, dalla moneta sottovalutata, dalla debolezza sindacale. E’ un fatto che le imprese italiane in generale traggono in un anno ampio vantaggio da contributi pubblici alla produzione e agli investimenti per circa 50 miliardi, da una evasione ed elusione per una cifra anche  maggiore, da concessioni di favore per decine di miliardi di attività economiche, da prezzi esosi a carico delle amministrazioni pubbliche lucrati su forniture e appalti (consumi intermedi, prestazioni sociali in natura acquisite sul mercato, investimenti fissi lordi) che sfiorano 200 miliardi. Alle risorse estorte a quello che con l’aggiunta degli aiuti da pandemia si è chiamato “Stato provvidenza”[13] si sono uniti il tasso di cambio strutturalmente basso con cui la lira sfociò nell’euro e salari stagnanti. L’aspettativa e la realizzazione di questi “profitti facili” hanno reso le imprese irresponsabili, disabituate a dipendere esclusivamente da sé stesse. Non le hanno certo sollecitate all’investimento, all’innovazione, all’efficienza. Secondo le valutazioni dell’ISTAT nel 1995-2020 la produttività totale dei fattori nell’intera economia italiana è diminuita dello 0,1% l’anno, cioè quasi del 3% nell’intero periodo.
La sottovalutazione, la non accettazione, da parte delle stesse imprese dei fondamentali principi della imprenditorialità e della concorrenza ha ostacolato l’operare in Italia del meccanismo virtuoso dell’innovazione illustrato da Schumpeter: “Chi crea con successo qualcosa di nuovo non trova inizialmente concorrenza, per lo meno fino a che il suo successo non è alla portata di tutti. Poi naturalmente arriva la concorrenza ed elimina il grande profitto (…). Questo meccanismo è estremamente ingegnoso: sulla base di un unico e medesimo principio esso fa nascere la prospettiva di premi abbastanza consistenti da indurre i migliori cervelli di una nazione a concentrarsi con disperata energia su tali obbiettivi; e nello stesso tempo fa sì che essi, una volta raggiunti, scompaiano automaticamente quando hanno assolto alla funzione per cui erano nati. Lo stesso processo che li elimina trasferisce alle masse il risultato delle innovazioni sotto forma di riduzioni dei prezzi”[14].
Il terzo valore suscettibile di rafforzamento, oltre alla funzione imprenditoriale e alla concorrenza nella più larga accezione, è l’equità distributiva unita al rifiuto della povertà.
Al tempo della Costituzione la sperequazione dei redditi si commisurava a uno 0,40 dell’indice di Gini e i molto poveri erano il 13 per cento della popolazione. Soprattutto, disoccupati e sottooccupati superavano un quinto della forza-lavoro. Non a caso, nella Costituzione l’accento venne fortemente posto su occupazione e salari. La Carta scandisce all’art.1 come l’Italia sia una Repubblica “fondata sul lavoro”; afferma all’art.4 che quello al lavoro è un diritto; impegna la Repubblica a tutelare il lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” (art. 35); attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36); dichiara libera l’organizzazione sindacale (art. 39).
Ciò avveniva in un’Italia il cui reddito medio pro capite nel 1948 era da paese sottosviluppato, appena il 15% dell’attuale. Ma nonostante il generale progresso economico da allora registrato, ancor oggi l’Italia vede profondi divari distributivi fra i cittadini e un alto tasso di povertà. L’indice di Gini sui redditi, seppure diminuito dal dopoguerra, resta dell’ordine di 0,33, a metà fra i picchi statunitensi e i più civili, bassi livelli dei paesi nordici europei. Ciò che è più grave, in povertà assoluta vivono 5,6 milioni di persone, ovvero quasi il 10% della popolazione: una quota di cittadini solo di poco inferiore a quella stimata dalla “Inchiesta sulla miseria” deliberata dal Parlamento nel 1951.
Occupazione e salari, pur fondamentali, non sono tutto. La forza-lavoro supera appena i 24 milioni, su quasi 60 milioni di abitanti. Al di là del rapporto profitto/salario, la distribuzione dei mezzi materiali e la condizione dei meno abbienti sono influenzate da una molteplicità di forze.
Manca, nella Costituzione, l’affermazione di un principio generale d’equità nella ripartizione degli averi, da perseguire in quanto tale. L’unico riferimento esplicito e concreto al problema distributivo è allo strumento fiscale: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53). Ma le vie per prevenire e per correggere una distribuzione sperequata, a monte e a valle del mercato, vanno ben oltre la tassazione progressiva. L’intero bilancio pubblico, il welfare state, l’istruzione, l’azione dello Stato in tutti i suoi strumenti dovrebbero orientarsi a questo fine. Specifico contro l’altro e più grave problema, la povertà, è l’art. 38: ”Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Ma perché limitare il sostegno all’inabile al lavoro che al tempo stesso sia a rischio d’inedia, e non estenderlo a ogni cittadino che sopravvive, sì, ma in povertà assoluta?
Contrastare la sperequazione distributiva ed eliminare la povertà sono obiettivi, valori, coerenti con un’economia di mercato capitalistica, oltre che con la democrazia. Le considerazioni d’ordine morale volgono a favore di chi è posto in basso nella scala dei redditi e dei patrimoni. Volgono ancor più a favore di chi sopravvive in condizione di povertà assoluta. Ma alle considerazioni di natura etica[15] si uniscono quelle d’ordine economico. Disporre di risorse aggiuntive consente a chi ne è privo di potenziare le proprie capacità culturali e professionali, quindi di contribuire al progresso dell’intera economia. Le indagini econometriche registrano una correlazione positiva fra equità distributiva e crescita economica[16].
Imprenditorialità, concorrenza, equità sono tre valori a cui la riforma organica dell’esperienza giuridica italiana potrebbe meglio ispirarsi.

Note

1.  Intervento al seminario “Prima giornata abruzzese ’22. Il diritto e le sue prospettive”, Università degli Studi di Pescara, 24 giugno 2022.

2.  G. Capograssi, Pensieri vari su economia e diritto, (1940), Carabba, Lanciano, 2004; R. Orestano, Della ‘esperienza giuridica’ vista da un giurista, in Id., ‘Diritto’. Incontri e scontri, il Mulino, Bologna, 1981.

3.  A. Deaton, Le troppe rendite di posizione che strangolano il capitalismo USA, in Il Sole 24Ore, 2 gennaio 2021.

4.  R.A. Posner, A Failure of Capitalism. The Crisis of ’08 and the Descent into Depression, Harvard University Press, Cambridge, 2009 e How I Became a Keynesian, in The New Republic, September 23, 2009.

5.  Questa diagnosi è oggi largamente condivisa dagli economisti. La Banca d’Italia la propose per tempo. Fra i documenti della Banca rivolti agli economisti rientra P. Ciocca, L’economia italiana: un problema di crescita, Relazione alla 44a Riunione della SIE, Salerno, 25 ottobre 2003.

6.  Un filone molto seguito è quello aperto da R. La Porta, F. Lopez-de-Silanes, A. Shleifer, R. Vishny, Legal determinants of external finance, in Journal of Finance, 1997, pp. 1131-1150. Per approcci storici diversi si veda, con riferimento al caso americano J.W. Hurst, Law and Markets in United States History. Different Modes of Bargaining among Interests, The University of Wisconsin Press, Madison, 1981 e con riferimento al caso italiano G. Carriero, P.Ciocca, M.Marcucci, Diritto e risultanze dell’economia nell’Italia unita, in P.Ciocca-G.Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia, Laterza, Roma, 2003.

7.  D.N. McCloskey, Bourgeois Dignity. Why Economics Can’t Explain the Modern World, The University of Chicago Press, Chicago, 2010, pp. 320-323, dove si legge, fra l’altro, che “Acemoglu in short has gotten the history embarrassingly wrong in every important detail” (p. 322).

8.  U. Scarpelli, Semantica giuridica, in Novissimo Digesto Italiano, 16 (1969); P. Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, Giuffrè, Milano, 2008.

9.  B. Franklin, Memoirs, Colburn, London, 1833.

10.  W. Sombart, Il Borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, (1913), Guanda, Parma, 1994.

11.  J.A. Schumpeter, The theory of economic development, (1911), Oxford University Press, Oxford, 1961. Altre teorie dell’imprenditorialità sono state proposte dagli economisti, l’ultima da William J. Baumol per l’Accademia Nazionale dei Lincei (The Microtheory of Innovative Entrepreneurship, Princeton University Press, Princeton, 2010).

12.  A. Marshall, Principles of Economics. An introductory volume, (1890), Macmillan, London, 1964, Ch. XII. Una durissima critica all’art. 2082 da parte di un giurista traccia la fonte di teoria economica a cui Asquini, con molto seguito successivo nella letteratura italiana del diritto commerciale, si sarebbe ispirato a un Marshall filtrato e divulgato in Italia dal manuale di G.U. Papi, Principii di economia, Cedam, Padova, 1934 (E. Gliozzi, L’imprenditore commerciale. Saggio sui limiti del formalismo giuridico, il Mulino, Bologna, 1998, spec. pp. 49-51).

13.  G. Amato, Bentornato Stato, ma, il Mulino, Bologna, 2022, p. 30.

14.  J.A. Schumpeter, Funzione imprenditoriale e interesse operaio, (1927), in Id., L’imprenditore e la storia dell’impresa. Scritti 1927-1949, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 41.

15.  Un’anima tormentata dal problema della povertà fu quella del massimo degli scrittori (L.N. Tolstoj, Che fare, dunque?, (1882),  Fazi, Roma, 2017.

16.  Rinvio a P. Ciocca, Ricchi/Poveri. Storia della diseguaglianza, Einaudi, Torino, 2022.