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Kennst du das land wo die Zitronen bluhn?*

di - 14 Marzo 2022
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Il sistema delle imprese italiane è caratterizzato innanzitutto da un profilo familiare della conduzione aziendale, non solo laddove il singolo albergo coincide con l’azienda nella sua totalità, ma anche in quei rari casi di catene totalmente italiane, peraltro estremamente contenute come numero di esercizi, soprattutto se comparate ai grandi network alberghieri internazionali. Questa realtà porta, in nuce, dei rischi che, in momenti di particolare stress, come quello che ormai si prolunga dal 2008, la pandemia ha solo drammaticamente accentuato. Tali rischi possono essere così riassunti: a) interruzione generazionale nella catena della gestione aziendale. Anche questo fenomeno è omogeneo con quello che sta succedendo a buona parte del resto del tessuto imprenditoriale nazionale, ma in questo specifico settore è ancora più vistoso. Forse c’è un unico territorio in cui tale format “tiene”, perché, oltre alla gestione familiare, c’è un sistema di mutua coesione “a rete”, cementata da un forte senso di “appartenenza” territoriale e di parentele che vanno al di là delle stretta cerchia familiare, ed è il territorio del Trentino Alto Adige, soprattutto di quest’ultimo. Tale cluster è caratterizzato inoltre da un elevato standard tipologico e di qualità, relativo non solo alla singola unità ricettiva, ma anche, se non di più, all’ambiente circostante, nonché, dato non irrilevante, da una solidità creditizia garantita dal sistema locale delle Casse di Risparmio; b) un costante rischio finanziario, dovuto, ovviamente, alla scarsa capitalizzazione che corrisponde a spalle piccole di fronte a momenti di congiuntura negativa; c) una bassa propensione, proprio a causa della bassa capitalizzazione, all’esecuzione di quei lavori di manutenzione, rifacimento ed adeguamento che l’immobile sede dell’esercizio inevitabilmente richiede con un turnover medio di 8/10 anni, soprattutto dei singoli piani che alloggiano le stanze e degli impianti, assoggettati alla pressoché continua evoluzione degli standard normativi; d) le tre criticità precedenti portano, a loro volta, le singole aziende, specie se con buoni risultati economici, ma, appunto in situazione di fragilità finanziaria, ad essere facile preda di acquisto da parte di grandi gruppi internazionali che inseriscono i nostri alberghi più prestigiosi nei loro brand, estromettendo progressivamente, come si diceva prima, il tessuto imprenditoriale italiano dal “sistema” alberghiero italiano e mondiale. Per fare un banale esempio, le cosiddette “catene alberghiere italiane” (rigorosamente facenti capo ad una manciata di famiglie storiche) all’apice del loro splendore potevano contare al massimo su di una decina, forse una ventina di asset. Tra le prime dieci aziende alberghiere internazionali, dove la fanno da padroni gli USA, ma anche la Francia, la Spagna ed ora anche la Cina, vi sono dei brand che possono vantare 3000, 5000 strutture alberghiere sparse per il mondo (Intercontinental Hotels Group, Accor, Marriot).
In particolare i francesi e gli spagnoli sembrano avere provato negli ultimi 20 anni un particolare gusto a mettere le loro bandierine sui migliori pezzi del nostro patrimonio alberghiero.
Un’altra caratteristica peculiare del sistema delle imprese italiane alberghiere è che l’esercizio spessissimo coincide con la proprietà dell’immobile. Tale fatto, lungi da essere un fattore di solidità, è, nel settore alberghiero, fonte di fragilità aziendale: infatti, l’esercente, invece di concentrare tutti i suoi sforzi imprenditoriali sulla qualità della gestione, è spesso costretto a sacrificare tempo e denaro a favore del mantenimento del valore immobiliare, sostenendo, tra l’altro, impegni fiscali di cui potrebbe fare tranquillamente a meno.
Le grandi holding internazionali non si sognano neanche di essere proprietarie delle migliaia di alberghi che gestiscono. Alla proprietà (ed alla manutenzione straordinaria e ordinaria, il gestore provvede solo al “contract”, ovvero all’arredo, che deve rispondere ai propri criteri gestionali) provvedono fior di fondi immobiliari che sono legati ai tenant da contratti di mutuo interesse regolati ormai da format standardizzati internazionalmente in cui i compiti, le responsabilità e le durate sono molto ben definiti ed hanno l’obiettivo di raggiungere da parte di tutti i contraenti risultati vantaggiosi misurabili, com’è ovvio (e come spesso sfugge alla classe imprenditoriale italiana che, sottocapitalizzata com’è, cade nel circolo vizioso della rincorsa al profitto immediato, come un cane che si morde la coda), non nel breve, ma nel medio-lungo termine.
L’aspetto più paradossale di tutta questa vicenda, e qui piano piano ritorniamo all’inizio del nostro articolo, anzi, al suo titolo in tedesco, è che l’Italia, con l’esiguità del suo territorio, reso ancora più ridotto dalla scarsa accessibilità morfologica e infrastrutturale, è e continua ad essere una delle 5 mete turistiche più ambite al mondo. È perfettamente inutile ricordare il perché di tale fenomeno, la stampa specializzata e non ripete fino alla noia il mantra del nostro patrimonio, mix unico di paesaggio, storia umana e arte.
Quello di cui, francamente, non ci si può fare una ragione, è l’accanimento che mettono gli italiani (e con tale sostantivo, in tutta onestà, non ci si può riferire solo ai politici ed agli amministratori) a negarsi lo status di prima potenza mondiale nel settore turistico, obiettivo che potrebbe tranquillamente essere perseguito, cominciando, per esempio, da una seria politica strategica nei confronti del comparto alberghiero (mirando, per iniziare, ad innalzare la media della permanenza temporale che è scandalosamente bassa ed è sintomo della mediocre qualità, intesa come propensione alla spesa, del turista straniero che viene a trovarci, il tutto a favore della Francia e deli USA).
Oltre alla debolezza endemica del tessuto imprenditoriale italiano, di cui si è già detto, a concorrere all’impegno che profondiamo nel degrado del settore, possiamo annoverare tutti gli archetipi negativi, da discussione al bar, che noi siamo bravissimi ad elencare, ma che restano tutti lì, inchiodati da perlomeno 55 anni (e il periodo temporale non è messo a caso, in quanto coincide con il completamento dell’Autostrada del Sole e a pochi anni dalle Olimpiadi di Roma): burocrazia, trascuratezza del territorio, pochissima cura della propria memoria (se non, spesso, una vera e propria damnatio memoriae), litigiosità interna, provincialismo, incapacità di una vision strategica a medio-lungo termine, politica isterica del vincolo  e chi più ne ha più ne metta.

Ora, di fronte ad un panorama del genere, come ci si può stupire se nessuno abbia avuto il merito di andare oltre un mero progetto, anche tardivo se vogliamo, che mettesse a sistema il potenziale turistico di tutti quei territori che non sono né Roma né Venezia, né Firenze né Milano, sfruttando non nuovo suolo, ma utilizzando una minima parte di quel patrimonio che, nel corso dei millenni, aveva contribuito a rendere il nostro Paese, come dice sempre Goethe, stavolta nel suo Viaggio in Italia (che dovrebbe essere libro di testo in tutte le scuole italiane), l’unico posto al mondo in cui convivono in perfetta simbiosi ed equilibrio due nature, una creata dal Padreterno e l’altra dall’uomo?
Ma noi, nella nostra miopia, siamo stati così bravi da cedere la palma di paese dove fioriscono i limoni, per riprendere la bellissima sineddoche del grande di Francoforte che fuggiva dal “paese dei Cimmeri” assetato di sole, ai nostri vicini, Francia e Spagna da un lato, Slovenia, Croazia e Grecia dall’altro lato, dove sicuramente il profumo ed il sapore dell’agrume giallo non è neanche lontanamente paragonabile con quello che cresce da noi.

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