Kennst du das land wo die Zitronen bluhn?*

TERRITORIO, CULTURA E RICETTIVITA’
Il 25 febbraio del 2009 all’auditorium dell’Ara Pacis a Roma (il nuovo complesso, ideato da Richard Meyer era stato inaugurato pochi anni prima, nel 2006) veniva presentato in un bellissimo convegno, alla presenza di rappresentanti del Governo di quel periodo, un progetto elaborato dall’Associazione Civita e da Asset srl, con il contributo di ARCUS (la società in house del Ministero dei Beni Culturali, che in quegli anni promuoveva iniziative per la valorizzazione del patrimonio artistico), ANCE, Federalberghi e Unicredit. Il progetto riguardava la costituzione di una catena alberghiera su tutto il territorio italiano basata sul recupero di edifici storici, sulla falsariga dei Paradores spagnoli e delle Pousadas portoghesi. L’idea era venuta a Gianfranco Imperatori, banchiere innovativo e visionario, propugnatore del Project Financing, ex Presidente di Mediocredito Centrale, grande magnate dei beni culturali e Segretario Generale, nonché creatore, dell’Associazione Civita, una organizzazione vocata alla tutela e sviluppo del patrimonio artistico-culturale del nostro Paese.
La fase iniziale del progetto prevedeva uno start up con la realizzazione di quattro casi-pilota su cui si sarebbe concentrata la sperimentazione dei principi innovativi del Progetto stesso. Per i progetti pilota erano stati individuati 4 edifici le cui caratteristiche rispondevano ai criteri fondanti dell’idea: storici, di gran pregio architettonico, in grado di accogliere un’attività ricettiva, di proprietà pubblica, localizzati in zone del territorio fuori dai flussi più gettonati del turismo classico, distribuiti in modo bilanciato tra Nord, Centro e Sud e, soprattutto, con gravi difficoltà di mantenimento sia dal punto di vista strutturale che sotto quello funzionale. Gli edifici erano: la Cavallerizza Reale di Torino (le vecchie scuderie Savoia), la Caserma Monti di Forlì, la Villa Favorita a Ercolano e il Collegio dei Gesuiti a Noto.
Senza entrare, in questa sede, troppo nei dettagli del lavoro e dei singoli edifici, basterà dire che l’attività di selezione dei progetti pilota si caratterizzò non tanto per la difficoltà di trovare oggetti idonei, ma esattamente per il contrario, per la sovrabbondanza di possibili locations inviduate in un numero infinito di comuni italiani. Solo per citare uno dei tanti bacini di ricerca, salvo ritornarci in un apposito articolo, è significativo richiamare, per esempio, quello dei siti carcerari dismessi: all’epoca assommavano a circa 250 e, nella stragrande maggioranza dei casi, erano localizzati in edifici storici e di grande pregio paesaggistico: ex conventi, palazzi signorili, piccole isole, castelli e fortilizi. Il loro numero era così rilevante che, tra il 2003 ed il 2005 l’allora Governo in carica varò un programma di dismissioni che avrebbe dovuto costituire la fonte di liquidità necessaria per dare vita al piano di realizzazione su vasta scala di nuovi siti carcerari, adeguati alla società civile moderna. I risultati furono molto modesti, se non nulli.
Una volta realizzati i progetti-pilota, e a seconda dei risultati operativi conseguiti, si sarebbe dato seguito ad un processo virtuoso con la realizzazione di circa 15/20 strutture all’anno, da completarsi nell’arco di una ventina di anni su tutto il territorio nazionale. Il concept si concentrava sulla creazione di “presidi” del territorio che non solo svolgessero il ruolo base di strutture ricettive, ma in cui il “core” della gestione fosse la capacità di informare ed indirizzare la clientela verso il patrimonio del territorio di competenza, sotto i punti di vista artistico e storico, ma anche enogastronomico e paesaggistico.
Il progetto, ancorchè promosso dal pubblico, come i Paradores spagnoli, doveva rispondere in tutto e per tutto a criteri imprenditoriali, realizzato con la tecnica del Project Financing ed essere strutturato come un vero e proprio netwok alberghiero, inserendosi nella fascia medio-alta del mercato. Ciò significava che avrebbe dovuto essere caratterizzato da un riconoscibile standard stilistico e per i servizi offerti, sia materiali che immateriali, ed avere la capacità di interfacciarsi a livello internazionale con tutti i potenziali bacini di utenza, in particolare con quelli, e non sono pochi, che costituiscono la domanda di cultura e arte, ambito in cui l’Italia dovrebbe farla da padrone.
Come accede spesso in Italia, con la scomparsa di quello che era stato l’ideatore e maggior propugnatore dell’idea, il progetto si sciolse come neve al sole. Il 23 aprile 2009 infatti venne a mancare Gianfranco Imperatori, a pochi giorni quindi dalla presentazione del progetto. Nessuno dei soggetti coinvolti nell’iniziativa ebbe il coraggio e la forza di portare avanti l’idea, nonostante che l’impianto economico strutturato in sede di progetto, in due parole il business plan, avesse offerto delle proiezioni di estremo interesse. Evidentemente, il combinato disposto di due caratteristiche prettamente italiane, l’incapacità di programmare a medio-lungo termine e il disamore e la non consapevolezza del nostro patrimonio culturale, ebbero, una volta di più, il sopravvento.
Il progetto cadde nel dimenticatoio finchè, alla fine del 2020, al sottoscritto, che era stato uno degli estensori dello stesso insieme all’Arch. Sergio Pasanisi di Asset srl, venne l’idea di verificare se lo stesso rispondesse ai parametri previsti per l’elegibilità all’interno del PNRR. I requisiti c’erano tutti: interesse pubblico, sostenibilità, perfetta compatibilità con i parametri operativi e normativi delle concessioni di costruzione e gestione, positiva ricaduta economica sui territori di competenza, potenzialità occupazionali, e chi più ne ha più ne metta. Un giro di consultazioni presso i soggetti che a suo tempo furono promotori dell’iniziativa, allargato a dei sondaggi presso le competenti autorità governative in tema di PNRR, servì a constatare che oggi, come allora, un programma strategico che contribuisse alla salvaguardia e promozione del patrimonio storico-artistico del nostro Paese, e che contenesse un alto grado di valore aggiunto dal punto di vista economico e di visibilità internazionale, non interessava nessuno.
Il bello è che, a chiacchiere, tutte le persone interpellate si sono sperticate, oggi come allora, in lodi nei confronti dello stesso ed a stupirsi del come mai non sia ancora stata portata avanti una iniziativa del genere e di quanto ce ne sarebbe bisogno in un Paese come il nostro.
Sin qui l’asciutta sintesi dei fatti che hanno caratterizzato la storia del progetto. Se però proviamo ad andare oltre tale resoconto e cerchiamo di approfondire ciò che c’è dietro questo fallimento, possiamo scoprire degli elementi molto interessanti.
Innanzitutto, uno dei capisaldi dell’idea si fondava, evidentemente, su di una iniziativa riguardante il comparto alberghiero. E qui emergono subito alcune fragilità del nostro sistema di accoglienza.
La prima domanda che viene spontanea è: se in Spagna e in Portogallo, sin dagli anni ’20, è scaturita l’idea di creare una catena alberghiera (allora statale e ora privatizzata) che sfruttasse il patrimonio immobiliare storico, come mai questa idea non è non dico venuta, ma perlomeno stata emulata in Italia che, con tutta la simpatia ed il rispetto per i cugini iberici, ha un patrimonio storico che non è nemmeno lontanamente da paragonare con il loro?
Restiamo nello stretto campo delle classiche strutture alberghiere, senza addentrarci in tutte le declinazioni della ricettività che sono nate negli ultimi 20 anni, né tantomeno voler analizzare la crisi che ha colpito il settore a seguito della pandemia di COVID 19.
Secondo una rilevazione ISTAT risalente al 2019 (quindi pre-COVID, per avere un parametro non influenzato da un evento straordinario), a quella data in Italia lo stock alberghiero, in senso stretto, senza quindi contare le varie altre declinazioni della galassia della ricettività, tipo B&B, campeggi, agriturismi, ecc., assommava a 32.730 esercizi, con un flusso di 436,7 milioni di presenze e una permanenza media di 3,32 notti. Il Rapporto ISTAT è ricco di indicazioni riguardanti il paragone con gli altri stati europei, le dinamiche dei flussi, le mete preferite, eccetera, ma è carente su di un dato che viceversa è molto significativo, sotto il punto di vista econometrico: il numero delle aziende alberghiere, ovverossia, il numero degli albergatori. Secondo una valutazione di qualche anno fa di Federturismo, l’associazione alberghi di Confindustria (l’altra associazione, la più numerosa, è Federalberghi, che si riconosce sotto l’egida di Confcommercio), il numero degli albergatori italiani è prossimo ai 30.000, ovverossia, un rapporto di quasi 1/1 tra esercizi ed aziende alberghiere. Questo dato è la chiave per capire molti dei fenomeni che contraddistinguono il comparto italiano e risponde fondamentalmente ad un elemento base: la scarsissima capitalizzazione delle aziende di settore, caratteristica, peraltro, perfettamente in linea con il resto del mondo imprenditoriale italiano (si badi bene, si parla di bassa patrimonializzazione delle aziende, non della ricchezza personale degli imprenditori).
Questo elemento dà origine ad una catena di conseguenze che, da più o meno il 2008, stanno portando al collasso non tanto del settore alberghiero, quanto della presenza di imprenditori italiani all’interno dello stesso e, di conseguenza, alla totale assenza di una strategia nazionale della ricettività sul territorio. Infatti, occorre registrare che nel novero dei quasi 30.000 albergatori di cui prima, da una ventina d’anni si sono incuneate nel nostro sistema una decina di grandi holding internazionali che, da sole, stanno monopolizzando il fatturato dell’intero settore (solo per citarne alcune: NH, Accor, Four Seasons, Marriot/Starwood).

* “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?” Goethe, Anni di apprendistato di Wilhelm Meister

Il sistema delle imprese italiane è caratterizzato innanzitutto da un profilo familiare della conduzione aziendale, non solo laddove il singolo albergo coincide con l’azienda nella sua totalità, ma anche in quei rari casi di catene totalmente italiane, peraltro estremamente contenute come numero di esercizi, soprattutto se comparate ai grandi network alberghieri internazionali. Questa realtà porta, in nuce, dei rischi che, in momenti di particolare stress, come quello che ormai si prolunga dal 2008, la pandemia ha solo drammaticamente accentuato. Tali rischi possono essere così riassunti: a) interruzione generazionale nella catena della gestione aziendale. Anche questo fenomeno è omogeneo con quello che sta succedendo a buona parte del resto del tessuto imprenditoriale nazionale, ma in questo specifico settore è ancora più vistoso. Forse c’è un unico territorio in cui tale format “tiene”, perché, oltre alla gestione familiare, c’è un sistema di mutua coesione “a rete”, cementata da un forte senso di “appartenenza” territoriale e di parentele che vanno al di là delle stretta cerchia familiare, ed è il territorio del Trentino Alto Adige, soprattutto di quest’ultimo. Tale cluster è caratterizzato inoltre da un elevato standard tipologico e di qualità, relativo non solo alla singola unità ricettiva, ma anche, se non di più, all’ambiente circostante, nonché, dato non irrilevante, da una solidità creditizia garantita dal sistema locale delle Casse di Risparmio; b) un costante rischio finanziario, dovuto, ovviamente, alla scarsa capitalizzazione che corrisponde a spalle piccole di fronte a momenti di congiuntura negativa; c) una bassa propensione, proprio a causa della bassa capitalizzazione, all’esecuzione di quei lavori di manutenzione, rifacimento ed adeguamento che l’immobile sede dell’esercizio inevitabilmente richiede con un turnover medio di 8/10 anni, soprattutto dei singoli piani che alloggiano le stanze e degli impianti, assoggettati alla pressoché continua evoluzione degli standard normativi; d) le tre criticità precedenti portano, a loro volta, le singole aziende, specie se con buoni risultati economici, ma, appunto in situazione di fragilità finanziaria, ad essere facile preda di acquisto da parte di grandi gruppi internazionali che inseriscono i nostri alberghi più prestigiosi nei loro brand, estromettendo progressivamente, come si diceva prima, il tessuto imprenditoriale italiano dal “sistema” alberghiero italiano e mondiale. Per fare un banale esempio, le cosiddette “catene alberghiere italiane” (rigorosamente facenti capo ad una manciata di famiglie storiche) all’apice del loro splendore potevano contare al massimo su di una decina, forse una ventina di asset. Tra le prime dieci aziende alberghiere internazionali, dove la fanno da padroni gli USA, ma anche la Francia, la Spagna ed ora anche la Cina, vi sono dei brand che possono vantare 3000, 5000 strutture alberghiere sparse per il mondo (Intercontinental Hotels Group, Accor, Marriot).
In particolare i francesi e gli spagnoli sembrano avere provato negli ultimi 20 anni un particolare gusto a mettere le loro bandierine sui migliori pezzi del nostro patrimonio alberghiero.
Un’altra caratteristica peculiare del sistema delle imprese italiane alberghiere è che l’esercizio spessissimo coincide con la proprietà dell’immobile. Tale fatto, lungi da essere un fattore di solidità, è, nel settore alberghiero, fonte di fragilità aziendale: infatti, l’esercente, invece di concentrare tutti i suoi sforzi imprenditoriali sulla qualità della gestione, è spesso costretto a sacrificare tempo e denaro a favore del mantenimento del valore immobiliare, sostenendo, tra l’altro, impegni fiscali di cui potrebbe fare tranquillamente a meno.
Le grandi holding internazionali non si sognano neanche di essere proprietarie delle migliaia di alberghi che gestiscono. Alla proprietà (ed alla manutenzione straordinaria e ordinaria, il gestore provvede solo al “contract”, ovvero all’arredo, che deve rispondere ai propri criteri gestionali) provvedono fior di fondi immobiliari che sono legati ai tenant da contratti di mutuo interesse regolati ormai da format standardizzati internazionalmente in cui i compiti, le responsabilità e le durate sono molto ben definiti ed hanno l’obiettivo di raggiungere da parte di tutti i contraenti risultati vantaggiosi misurabili, com’è ovvio (e come spesso sfugge alla classe imprenditoriale italiana che, sottocapitalizzata com’è, cade nel circolo vizioso della rincorsa al profitto immediato, come un cane che si morde la coda), non nel breve, ma nel medio-lungo termine.
L’aspetto più paradossale di tutta questa vicenda, e qui piano piano ritorniamo all’inizio del nostro articolo, anzi, al suo titolo in tedesco, è che l’Italia, con l’esiguità del suo territorio, reso ancora più ridotto dalla scarsa accessibilità morfologica e infrastrutturale, è e continua ad essere una delle 5 mete turistiche più ambite al mondo. È perfettamente inutile ricordare il perché di tale fenomeno, la stampa specializzata e non ripete fino alla noia il mantra del nostro patrimonio, mix unico di paesaggio, storia umana e arte.
Quello di cui, francamente, non ci si può fare una ragione, è l’accanimento che mettono gli italiani (e con tale sostantivo, in tutta onestà, non ci si può riferire solo ai politici ed agli amministratori) a negarsi lo status di prima potenza mondiale nel settore turistico, obiettivo che potrebbe tranquillamente essere perseguito, cominciando, per esempio, da una seria politica strategica nei confronti del comparto alberghiero (mirando, per iniziare, ad innalzare la media della permanenza temporale che è scandalosamente bassa ed è sintomo della mediocre qualità, intesa come propensione alla spesa, del turista straniero che viene a trovarci, il tutto a favore della Francia e deli USA).
Oltre alla debolezza endemica del tessuto imprenditoriale italiano, di cui si è già detto, a concorrere all’impegno che profondiamo nel degrado del settore, possiamo annoverare tutti gli archetipi negativi, da discussione al bar, che noi siamo bravissimi ad elencare, ma che restano tutti lì, inchiodati da perlomeno 55 anni (e il periodo temporale non è messo a caso, in quanto coincide con il completamento dell’Autostrada del Sole e a pochi anni dalle Olimpiadi di Roma): burocrazia, trascuratezza del territorio, pochissima cura della propria memoria (se non, spesso, una vera e propria damnatio memoriae), litigiosità interna, provincialismo, incapacità di una vision strategica a medio-lungo termine, politica isterica del vincolo  e chi più ne ha più ne metta.

Ora, di fronte ad un panorama del genere, come ci si può stupire se nessuno abbia avuto il merito di andare oltre un mero progetto, anche tardivo se vogliamo, che mettesse a sistema il potenziale turistico di tutti quei territori che non sono né Roma né Venezia, né Firenze né Milano, sfruttando non nuovo suolo, ma utilizzando una minima parte di quel patrimonio che, nel corso dei millenni, aveva contribuito a rendere il nostro Paese, come dice sempre Goethe, stavolta nel suo Viaggio in Italia (che dovrebbe essere libro di testo in tutte le scuole italiane), l’unico posto al mondo in cui convivono in perfetta simbiosi ed equilibrio due nature, una creata dal Padreterno e l’altra dall’uomo?
Ma noi, nella nostra miopia, siamo stati così bravi da cedere la palma di paese dove fioriscono i limoni, per riprendere la bellissima sineddoche del grande di Francoforte che fuggiva dal “paese dei Cimmeri” assetato di sole, ai nostri vicini, Francia e Spagna da un lato, Slovenia, Croazia e Grecia dall’altro lato, dove sicuramente il profumo ed il sapore dell’agrume giallo non è neanche lontanamente paragonabile con quello che cresce da noi.