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Recensione di E. Phelps et al., Dynamism. The Values that Drive Innovation, Job Satisfaction, and Economic Growth, Harvard University Press, Cambridge 2020.

di - 28 Settembre 2020
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Aperta dagli storici dell’economia, si è di recente estesa alla teoria la ricerca delle cause della ricchezza delle nazioni tesa ad andare oltre le determinanti strettamente economiche (lavoro, capitale, altre risorse; efficienza nel loro uso; progresso tecnico). Cultura, istituzioni, politica, società civile sono oggi considerate anche dagli economisti influenti in particolare sul ritmo e sulla qualità delle innovazioni. E alle innovazioni la “contabilità della crescita” di impianto neoclassico imputa più della metà dello sviluppo del reddito nelle economie avanzate, a far tempo dalla settecentesca Rivoluzione Industriale d’Inghilterra.
Edmund Phelps – insignito del Premio Nobel nel 2006 – ha da tempo aderito a questo filone col suo Mass Flourishing. How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge and Change (Princeton University Press, Princeton 2013). L’idea di fondo è che la prosperità esplosa negli ultimi due secoli nelle economie che egli definisce moderne – “mass flourishing” – sia scaturita dal “broad involvement of people in the process of innovation”: “indigenous innovation down to the grassroots” (p. vii). Ma questo dinamismo diffuso – la capacità e la volontà di innovare espresse dalla popolazione – si va spegnendo, e così la produttività, persino negli Stati Uniti (Gordon). Non può rinascere dalle istituzioni. Può solo scaturire da valori pur essi radicati e diffusi nel corpo sociale: indipendenza, iniziativa, successo, accettazione della concorrenza.
Phelps è quindi critico della tesi – che attribuisce a Schumpeter e a Solow – dell’innovazione come frutto, esogeno rispetto all’impresa che lo sa cogliere, della scienza, del progresso scientifico. Inoltre ridimensiona l’apporto dell’accumulazione di capitale in quanto tale, perché destinata ai rendimenti decrescenti. Lo scontro, per lui, non è tanto fra capitalismo e socialismo, fra Stato e Mercato, ma tra la società moderna – che introduce ed esalta quei valori – e la società tradizionale (descritte alle pp. 12-13 del nuovo libro).
Scritto in collaborazione con R. Bojilov, H.T. Hoon e G. Zoega – economisti matematici ed econometristi – il nuovo volume è rivolto a una più analitica specificazione e alla verifica empirica delle principali articolazioni dell’ipotesi originaria.
La specificazione decisiva attiene alla distinzione fra innovazione nazionale – “indigena”, appunto – e innovazione importata dall’estero. Come è ovvio, se nessuna economia esprime dal suo stesso seno innovazione indigena esportabile la produttività totale dei fattori non può, su scala globale, crescere. Lo sviluppo del reddito mondiale ne risentirebbe, alimentato dalla sola accumulazione di capitale, fisico e umano.
Sul piano empirico (Tabb. 2.1, 2.2, 2.3, pp. 58-59) emerge che nel 1950-1972 il tasso d’innovazione fu altissimo e fu per un quarto costituito dalla componente indigena, concentrata negli Stati Uniti. Al contrario, nell’ultimo mezzo secolo la produttività ha tendenzialmente rallentato, o ristagnato, in entrambe le componenti dell’innovazione. Nonostante la fiammata della ICT nel 1996-2004 ciò è avvenuto persino nel paese tecnologicamente leader, gli Stati Uniti. Nel caso dell’Italia il miracolo economico postbellico avrebbe visto il tasso d’innovazione situarsi sulla media dei paesi avanzati nella componente autoctona e al di sopra della media nella componente importata. Il cedimento degli ultimi decenni sarebbe stato più grave che altrove in entrambe le componenti. Unitamente al calo dello stock di capitale si è annullato l’apporto del progresso tecnico alla crescita dell’economia italiana. Entrambi i motori della crescita sono spenti da anni. Alla vigilia della recessione da Covid del 2020 il Pil pro capite non superava i livelli di fine secolo.
Confortato dai positivi riscontri statistici di quella che da ipotesi sfocia in tesi, con riferimento all’intero “Occidente” Phelps collega al cedimento della produttività lo scemare dei progressi del Pil, e segnatamente il calo dei redditi delle classi medie. Collega inoltre allo scadimento dei valori fonte del dinamismo generatore  d’innovazione il fenomeno più preoccupante sperimentato da anni, sempre nell’intero  Occidente: “An extraordinary discontent and division – a vast alienation and dissatisfaction with the ‘system’ both political and economic” (p. 201).
Accomunate dalle radici, le manifestazioni più gravi dello scontento sono ravvisate nella nascita e nell’affermazione di partiti in varia guisa populisti e reazionari in Francia, Germania, Spagna, Italia (Lega, 5 Stelle) come pure nell’emergere di motivi populisti negli stessi partiti di governo in America, Inghilterra, Svezia. Con l’economia, sarebbe a rischio la democrazia.
La risposta? Per Phelps non c’è da attendersi innovazione dai fondi pubblici stanziati per la ricerca scientifica. E’invece essenziale cercare di rilanciare i valori da cui in una società moderna dipendono dinamismo e innovazione: individualismo, vitalità, autonoma realizzazione di sé (p. 204). Il tentativo – riuscirà? – di risollevare dal basso la voglia d’innovare passa per una riscrittura dei manuali delle scuole secondarie che esalti quei valori e si estenda alla musica e all’arte, materie da reintrodurre nei programmi d’insegnamento. Le arti vanno sostenute anche con danaro pubblico. Ma la capacità d’innovare postula l’eliminazione di “policies, laws, and deal-making” che ostacolano i portatori di idee nuove. Vanno potenziate la tutela e la promozione della concorrenza, col rilancio dell’azione antitrust, spezzate le relazioni improprie  fra grandi gruppi, governi e parlamenti, combattute regolamentazione, autorizzazioni, burocrazia che frenano la nascita delle imprese, le nuove iniziative.
Si potrebbe obiettare che storicamente non poche, importanti innovazioni produttive hanno trovato nel progresso della scienza il loro presupposto. Si potrebbe obiettare che l’accumulazione di capitale è stata il veicolo mancando il quale l’innovazione non si sarebbe realizzata, incorporandosi nei nuovi beni strumentali.
Ma a conferma di quanto sia difficile capire e governare il mondo attuale non si può non aggiungere una notazione. Il flagello della pandemia esplosa nel 2020 ha duramente colpito anche gli Stati Uniti. Di fronte a una tale tragedia il liberale-liberista Phelps ha dichiarato che i privati non sono in grado di reagire, di decidere se, cosa, quanto e come produrre e che solo l’intervento pubblico può farlo con qualche speranza di successo.
L’incertezza è davvero grande, più che amletica: il mondo è mosso dai fatti, le parole svaniscono nell’aria. La risposta vola via col vento, canta il bardo di oggi…


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