Un attentato all’autonomia della Banca d’Italia
La secolare storia della Banca d’Italia ha conosciuto attentati all’autonomia di tale istituzione (basti pensare alla nota vicenda Baffi – Sarcinelli della fine degli anni ’70 del novecento). Tuttavia non si è mai registrato un attacco pervasivo all’indipendenza della nostra banca centrale di portata uguale a quella della recente «proposta» del M5S e della Lega. Ci si riferisce alla presentazione del d.d.l. n. 1332/AS che intende riformare la Banca d’Italia, innovando i criteri di nomina del suo Direttorio e sottraendole la possibilità di introdurre modifiche al proprio Statuto (che verrebbero demandate alla legge).
La necessità di adeguare il nostro ordinamento a quello dei paesi europei più virtuosi non giustifica tale provvedimento normativo, nel quale si trascura di considerare che l’attuale procedura di nomina del Governatore – introdotta dalla l. n. 262 del 2005, il cui art. 19 prevede l’emanazione di un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio e previa deliberazione del Consiglio dei ministri – riconduce alla politica la designazione del titolare della carica. Va, inoltre, tenuto presente che nella virtuosa Germania l’autonomia della banca centrale è tutelata da una norma di rango costituzionale (art. 88) nella quale si prevede espressamente che «le sue responsabilità e i suoi poteri possono essere trasferiti alla Banca centrale europea, che è indipendente».
Le motivazioni a fondamento della necessaria indipendenza della Banca d’Italia sono risalenti nel tempo. Già nel Rapporto della ‘Commissione economica’ istituita presso il Ministero della Costituente venne espresso il convincimento che «la statizzazione aumenterebbe i poteri d’ingerenza delle forze politiche nella distribuzione del credito» (v. Rapporto, vol. IV, p. 63); successivamente la dottrina con unanime orientamento ha individuato nell’indipendenza lo status giuridico indispensabile a garantire la capacità di intervento di detta istituzione. In particolare, l’indipendenza è stata ricollegata ai profili funzionali dell’attività posta in essere, nonché all’autonomia dell’organizzazione. La teoria delle «amministrazioni indipendenti» ha supportato detta tesi, ritenendo coessenziale all’affermazione di un sistema di mercato la presenza di amministrazioni riconducibili ad una «posizione intermedia non solo tra il pubblico ed il privato… ma anche tra politica e amministrazione» (Massera).
In tale contesto, prescindendo dalle opinioni che definiscono in chiave costituzionale il livello di governo del Capo della Banca d’Italia (Merusi), è evidente che l’attuale procedura di nomina dei vertici di tale istituzione sintetizzi adeguatamente ragioni di necessità economica non disgiunta da autonomia di analisi nella ricerca di strumenti ottimali per il raggiungimento delle finalità perseguite; da qui la stretta correlazione tra l’indipendenza della Banca d’Italia e quella dei suoi organi esponenziali. Attualmente, l’intervento dell’autorità politica non è posizionato in termini riduttivi, in quanto la regolazione riconosce a quest’ultima una competenza specifica. Versandosi in presenza di un procedimento complesso, la nomina del Governatore è espressione di un proprium valutativo della politica, riconducibile alla sua sfera di attribuzioni (Montedoro); non v’è dubbio che essa ha un potere d’intervento che va ben oltre l’azione demolitoria, esperibile nel passato, attraverso l’atto di «gradimento».
Sono di intuitiva percezione le ragioni a fondamento della nominata proposta: assoggettare al volere dei pubblici poteri detta autorità, reputando insufficiente il legame di indirizzo politico con l’organo governativo, oggi ancora assicurato (nonostante le implicazioni del processo d’integrazione europea) dalla presenza del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (CICR) nella «diarchia politico/tecnica» posta al vertice dell’ordinamento bancario. Aumenta sempre più il rischio che la nomina degli esponenti del Direttorio, da sempre espressione di eccellenza professionale e culturale, possa scivolare nella logica «spartitoria», che – com’è noto – caratterizza le scelte della politica!
Per converso, qualora la riforma prospettata dal M5S e dalla Lega si proponga di definire un «nuovo modello di democrazia», dando vita ad una realtà nella quale l’affermazione dell’ideologia sovranista si compendia in una «critica alle tecnostrutture», si recupera – forse inconsapevolmente – la concezione di Stato inteso quale «forma intensiva di unità politica», di schmittiana memoria, tristemente sperimentata nel passato. A ben considerare, siamo in presenza di un interventismo che tende a cancellare l’elite, a negare la funzione selettrice di quest’ultima svolta dalla democrazia, con la conseguente prospettiva dell’emersione (in assenza del suo basilare apporto) delle criticità che connotano i modelli sostanzialmente autarchici.