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Trump e l’accordo di Parigi

di - 11 Luglio 2017
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Ma nell’accordo di Parigi non si trova alcuna indicazione sul sentiero di riduzione delle emissioni compatibile con il raggiungimento di questo obiettivo generale. Si trova solo un impegno generico a conseguire quanto prima, attraverso le INDCs, il picco delle emissioni assolute per poi ridurle in modo da raggiungere la parità tra emissioni prodotte e emissioni assorbite dall’ambiente nella seconda metà del secolo.
Questo processo verrà fatto oggetto di un monitoraggio che partirebbe dal 2023 e si ripeterebbe ogni 5 anni. I risultati di questi monitoraggi servirebbero a dare suggerimenti ai singoli paesi su come aggiustare le loro future INDCs.
L’accordo prevede anche un notevole impegno finanziario da parte dei paesi avanzati per aiutare i paesi in via di sviluppo nel raggiungimento dei loro obiettivi.
Fondamentale però sarà, oltre alla mobilizzazione delle risorse finanziarie, il trasferimento verso i paesi in via di sviluppo di tecnologie a bassa intensità di carbonio e la collaborazione scientifica e tecnologica in questo campo tra i paesi avanzati e i più importanti paesi emergenti, quali la Cina.
Di fronte alla evidente ben maggiore flessibilità che l’accordo di Parigi mostra rispetto agli approcci internazionali precedenti al cambiamento climatico, in particolare al protocollo di Kyoto, viene da chiedersi perché il presidente Trump ha deciso di ritirarsi da un accordo che in fondo non richiede a nessun paese rigidi vincoli alle emissioni di gas serra.
In fondo l’accordo di Parigi non pone gli stessi impegni quantitativi alla riduzione di emissioni del protocollo di Kyoto; Trump non si trova dunque di fronte alla stessa situazione alla quale si è trovato di fronte Bush jr, alla fine degli anni 1990.
La ragione sta probabilmente nell’atteggiamento generale di Trump sulle questioni economiche internazionali. Egli appare meno preoccupato anche dei suoi stessi predecessori di non mettersi contro la stessa maggioranza degli altri paesi; appare invece preoccupato di lanciare segnali sulle politiche che intende perseguire.
E nel campo delle politiche ambientali e energetiche sono ormai molti e evidenti i segnali di una svolta radicale rispetto alla linea seguita dal presidente Obama.
Certo il fatto che il presidente degli Stati Uniti non ritenga il problema dei cambiamenti climatici una minaccia tale da giustificare adeguate politiche per contenerla è una grave ferita alle opportunità che le stesse politiche intraprese dagli altri paesi in questa direzione possano avere successo.
Ma la logica stessa dell’accordo di Parigi comporta che gli altri paesi, quelli che hanno firmato l’accordo e intendono agire secondo le sue indicazioni, rafforzino gli impegni e la reciproca collaborazione in questa direzione. Tra questi vi sono in primo luogo l’Unione Europea e la Cina.
L’Unione Europea deve certamente fare di più per rendere credibile la sua accettazione dell’accordo di Parigi; dovrebbe dare in primo luogo maggiori segnali nella direzione di una politica energetica comune verso un sempre maggiore impiego di fonti energetiche rinnovabili.
Inoltre è auspicabile una intensificazione della collaborazione tra Unione Europea e Cina, dato che quest’ultima continua a mantenere, anzi a rafforzare, il suo impegno nella lotta ai cambiamenti climatici attraverso la costruzione di una economica a sempre minore intensità di carbonio.
Ma qui entra in gioco un elemento finale: l’accordo internazionale sui cambiamenti climatici non dovrebbe essere visto come un accordo isolato; la collaborazione internazionale in questo campo deve essere vista nel suo rapporto con la collaborazione internazionale anche in altri campi.
Un esempio viene da alcuni recenti problemi che si sono manifestati nel rapporto tra Cina e Unione Europea. Entrambi intendono rafforzare la collaborazione nel campo della lotta ai cambiamenti climatici, soprattutto dopo la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo di Parigi.
Ma queste buone dichiarazioni di intenti potrebbero essere minacciate dalle reazioni negative della Cina di fronte alla continuazione da parte dell’Unione Europea di riconoscere alla Cina lo stato di “economia di mercato”, per difendersi dall’eccesso di esportazioni a basso costo dalla Cina.
In un recente incontro a Bruxelles tra Unione Europea e Cina non si è arrivati a un documento congiunto sul clima, e questo dopo che, e probabilmente perché, da parte dell’Unione Europea non ci sono stati segnali a favore del riconoscimento dello status di “economia di mercato” alla Cina nell’ambito della World Trade Organization.
Sembra che la Germania, attraverso la Cancelliera Angela Merkel, abbia dato segnali positivi in questo senso; ma sembra anche che questi segnali non siano stati confermati a livello di funzionari della Unione Europea, con il risultato di creare un certo risentimento da parte cinese anche sul tema della collaborazione sul clima.
Certo, se al ritiro di Trump dall’accordo di Parigi si aggiungesse un raffreddamento nei rapporti tra Unione Europea e Cina, le cose per il futuro delle iniziative globali per contrastare i cambiamenti climatici diventerebbero più difficili. La delicatezza e complessità della collaborazione internazionale è oggi evidente al di là del tema del clima; il messaggio è che questo tema non va considerato in modo separato.

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