Trump e l’accordo di Parigi

Per leggere in modo adeguato quanto è accaduto con la decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di ritirarsi dall’accordo concluso a Parigi nel dicembre del 2015 da ben 195 paesi sul cambiamento climatico, occorre tener conto di alcuni elementi che invece appaiono incomprensibilmente trascurati.
Il primo elemento è il ruolo svolto dagli Stati Uniti nella storia, ormai venticinquennale, della faticosa costruzione di accordi internazionali sui cambiamenti climatici.
La Convenzione quadro sui cambiamenti climatici fu proposta nel primo vertice delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 1992 e venne ratificata da 196 paesi (compresi gli Stati Uniti il cui presidente era allora George Bush, che non partecipò però alla conferenza), entrando in vigore nel marzo del 1994.
La Convenzione prevedeva che l’implementazione delle linee strategiche generali in essa indicate per affrontare il problema dei cambiamenti climatici avvenisse attraverso annuali Conferenze delle Parti; la prima di queste ebbe luogo a Berlino nel 1995, la seconda a Ginevra nel 1996, la terza a Kyoto nel 1997.
A Kyoto venne firmato (ma non ratificato) da più di 180 paesi il ben noto protocollo, nel quale i paesi venivano divisi in due categorie: i paesi sviluppati del cosiddetto Annex I, ai quali venivano imposti dei limiti all’aumento delle emissioni dei gas responsabili del riscaldamento dell’atmosfera e quindi dei cambiamenti climatici (prima fra tutti l’anidride carbonica), e i paesi in via di sviluppo del cosiddetto Annex II, ai quali tali limiti non vennero imposti.
A Kyoto il vice-presidente degli Stati Uniti Al Gore ebbe un ruolo positivo nella promozione del protocollo; ma quando il Senato degli Stati Uniti fu chiamato a discuterlo, esso venne bocciato, bloccando il processo di ratifica da parte di quel paese.
La presidenza Bush, dopo quella di Clinton, assunse una posizione apertamente contraria al protocollo di Kyoto, che comunque, grazie anche all’impegno dell’Unione Europea, venne ratificato nel 2005 essendo stato raggiunto, con l’adesione della Russia e del Canada, il numero minimo necessario. Il Canada comunque uscì dal protocollo nel 2011.
La ragione principale dell’atteggiamento contrario degli Stati Uniti è sempre stata che la Cina, ma anche l’India, paesi emergenti il cui elevato tasso di crescita avrebbe comportato un ruolo leader nell’aumento delle emissioni future di “gas serra”, non avevano alcun vincolo a queste emissioni, mentre questo vincolo era imposto solo ai paesi sviluppati la cui dinamica delle emissioni era andata rallentando.
L’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del problema dei cambiamenti climatici tornò favorevole con il presidente Obama. Però quest’ultimo ebbe sempre grandi difficoltà a fa approvare politiche per combattere il cambiamento climatico dalla Camera dei Rappresentanti e soprattutto dal Senato.
Bisogna comunque riconoscere che con Obama l’atteggiamento internazionale degli Stati Uniti nei confronti del problema del cambiamento climatico è cambiato radicalmente in una direzione positiva.
Con gli anni 2000 però il tema degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici è entrato in una fase di crescente complessità, soprattutto con riferimento al modo più appropriato di coinvolgere i paesi in via di sviluppo, in particolare il più importante tra essi, la Cina.
La Conferenza delle Parti del dicembre del 2009 a Copenhagen, la prima con la presidenza Obama negli USA, nonostante si fosse conclusa con un documento proposto dagli Stati Uniti e dalla Cina (con Brasile e Sud-Africa) portò a risultati insoddisfacenti e decisamente rappresentò una perdita di opportunità.
Le successive conferenze delle parti non hanno portato a risultati concreti definiti, ma sono state occasioni nelle quali si è progressivamente manifestata la presa di coscienza da parte di un numero crescente di paesi che dovessero essere intraprese azioni, possibilmente coordinate, per lasciare aperta una ragionevole possibilità che l’aumento della temperatura globale venisse mantenuto in media a 2° centigradi rispetto alla media del diciannovesimo secolo. Indubbiamente il ruolo di Obama in tutto ciò è stato importante.
Nel 2012, data della scadenza del Protocollo di Kyoto, la conferenza di Doha si è conclusa con la decisione di mantenere in vita il protocollo anche oltre il 2012, ma di cominciare a negoziare un nuovo protocollo nel 2015 (che avrebbe dovuto entrare in vigore nel 202).
Di fronte all’evidenza che i risultati del protocollo di Kyoto non erano stati raggiunti, e che gli stessi impegni imposti in termini di emissioni non erano stati rispettati, senza peraltro alcuna sanzione, si decise che ogni nuovo accordo sarebbe stato caratterizzato da maggiore flessibilità rispetto al protocollo di Kyoto, in modo da tener conto delle esigenze nazionali e del principio di una “comune, ma differenziata responsabilità” sul quale si era manifestata grande insistenza in particolare da parte della Cina, come leader dei paesi in via di sviluppo.
A questo punto dobbiamo considerare un secondo elemento costituito dal cambiamento in positivo del ruolo della Cina sul terreno dell’azione contro i cambiamenti climatici.
Per molti anni la Cina non ha prestato una adeguata attenzione al tema dei cambiamenti climatici. Ma le cose sono progressivamente cambiate nel corso degli anni 2000. Dal 2006 la Cina ha preso coscienza di essere diventata il maggior emittente di “gas serra”. Dopo aver sottoscritto l’accordo di Copenhagen, la Cina ha assunto l’impegno di ridurre la propria intensità di emissioni (quindi non il livello assoluto, ma il rapporto con il PIL) del 40-45 per cento rispetto al 2005 entro il 2020.
In un pronunciamento congiunto tra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping nel novembre del 2014, la Cina ha annunciato due nuovi obiettivi per il 2030: il raggiungimento del picco massimo assoluto di emissioni di gas serra e l’aumento al 20% dell’energia fornita da fonti rinnovabili.
La Cina peraltro, e con lei tutti i paesi emergenti e in via di sviluppo, non hanno però mai accettato l’imposizione dall’esterno di vincoli alle emissioni; hanno sempre sostenuto che gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra avrebbero dovuto essere espresse in programmi nazionali, da annunciare a tutti gli altri paesi.
Si è così venuta formando l’idea degli INDC (Intended Nationally Determined Contributions), contributi intenzionalmente determinati a livello nazionale alla riduzione globale delle emissioni di gas serra che è poi stata assunta alla base degli accordi di Parigi, frutto della 21-ma Conferenza delle Parti alla fine del 2015.
Entra a questo punto un terzo elemento da prendere in considerazione, e cioè il capovolgimento della logica che ispira l’accordo di Parigi rispetto a quello sottostante al protocollo di Kyoto.
Quest’ultimo si basava su un approccio del tipo “top down”: obiettivi di emissioni dovevano essere definiti dall’alto nell’accordo per i vari paesi; l’accordo di Parigi è invece ispirato da un approccio “bottom up”: gli obiettivi sono definiti nelle INDCs e poi confrontati e modificati sulla base di un accordo dal basso in seguito a una appropriata azione di monitoraggio.
Nell’accordo di Parigi non vengono eliminate le indicazioni quantitative. Viene ribadito l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura media globale a 2° C al disopra del livello pre-industriale, e addirittura viene auspicato ogni sforzo per ridurre tale incremento a 1.5° C; questo sulla base delle indicazioni dell’IPCC (Intergovernmenatal Panel for Climate Change) l fine di ridurre i rischi degli impatti negativi più gravi dei cambiamenti climatici.

Ma nell’accordo di Parigi non si trova alcuna indicazione sul sentiero di riduzione delle emissioni compatibile con il raggiungimento di questo obiettivo generale. Si trova solo un impegno generico a conseguire quanto prima, attraverso le INDCs, il picco delle emissioni assolute per poi ridurle in modo da raggiungere la parità tra emissioni prodotte e emissioni assorbite dall’ambiente nella seconda metà del secolo.
Questo processo verrà fatto oggetto di un monitoraggio che partirebbe dal 2023 e si ripeterebbe ogni 5 anni. I risultati di questi monitoraggi servirebbero a dare suggerimenti ai singoli paesi su come aggiustare le loro future INDCs.
L’accordo prevede anche un notevole impegno finanziario da parte dei paesi avanzati per aiutare i paesi in via di sviluppo nel raggiungimento dei loro obiettivi.
Fondamentale però sarà, oltre alla mobilizzazione delle risorse finanziarie, il trasferimento verso i paesi in via di sviluppo di tecnologie a bassa intensità di carbonio e la collaborazione scientifica e tecnologica in questo campo tra i paesi avanzati e i più importanti paesi emergenti, quali la Cina.
Di fronte alla evidente ben maggiore flessibilità che l’accordo di Parigi mostra rispetto agli approcci internazionali precedenti al cambiamento climatico, in particolare al protocollo di Kyoto, viene da chiedersi perché il presidente Trump ha deciso di ritirarsi da un accordo che in fondo non richiede a nessun paese rigidi vincoli alle emissioni di gas serra.
In fondo l’accordo di Parigi non pone gli stessi impegni quantitativi alla riduzione di emissioni del protocollo di Kyoto; Trump non si trova dunque di fronte alla stessa situazione alla quale si è trovato di fronte Bush jr, alla fine degli anni 1990.
La ragione sta probabilmente nell’atteggiamento generale di Trump sulle questioni economiche internazionali. Egli appare meno preoccupato anche dei suoi stessi predecessori di non mettersi contro la stessa maggioranza degli altri paesi; appare invece preoccupato di lanciare segnali sulle politiche che intende perseguire.
E nel campo delle politiche ambientali e energetiche sono ormai molti e evidenti i segnali di una svolta radicale rispetto alla linea seguita dal presidente Obama.
Certo il fatto che il presidente degli Stati Uniti non ritenga il problema dei cambiamenti climatici una minaccia tale da giustificare adeguate politiche per contenerla è una grave ferita alle opportunità che le stesse politiche intraprese dagli altri paesi in questa direzione possano avere successo.
Ma la logica stessa dell’accordo di Parigi comporta che gli altri paesi, quelli che hanno firmato l’accordo e intendono agire secondo le sue indicazioni, rafforzino gli impegni e la reciproca collaborazione in questa direzione. Tra questi vi sono in primo luogo l’Unione Europea e la Cina.
L’Unione Europea deve certamente fare di più per rendere credibile la sua accettazione dell’accordo di Parigi; dovrebbe dare in primo luogo maggiori segnali nella direzione di una politica energetica comune verso un sempre maggiore impiego di fonti energetiche rinnovabili.
Inoltre è auspicabile una intensificazione della collaborazione tra Unione Europea e Cina, dato che quest’ultima continua a mantenere, anzi a rafforzare, il suo impegno nella lotta ai cambiamenti climatici attraverso la costruzione di una economica a sempre minore intensità di carbonio.
Ma qui entra in gioco un elemento finale: l’accordo internazionale sui cambiamenti climatici non dovrebbe essere visto come un accordo isolato; la collaborazione internazionale in questo campo deve essere vista nel suo rapporto con la collaborazione internazionale anche in altri campi.
Un esempio viene da alcuni recenti problemi che si sono manifestati nel rapporto tra Cina e Unione Europea. Entrambi intendono rafforzare la collaborazione nel campo della lotta ai cambiamenti climatici, soprattutto dopo la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo di Parigi.
Ma queste buone dichiarazioni di intenti potrebbero essere minacciate dalle reazioni negative della Cina di fronte alla continuazione da parte dell’Unione Europea di riconoscere alla Cina lo stato di “economia di mercato”, per difendersi dall’eccesso di esportazioni a basso costo dalla Cina.
In un recente incontro a Bruxelles tra Unione Europea e Cina non si è arrivati a un documento congiunto sul clima, e questo dopo che, e probabilmente perché, da parte dell’Unione Europea non ci sono stati segnali a favore del riconoscimento dello status di “economia di mercato” alla Cina nell’ambito della World Trade Organization.
Sembra che la Germania, attraverso la Cancelliera Angela Merkel, abbia dato segnali positivi in questo senso; ma sembra anche che questi segnali non siano stati confermati a livello di funzionari della Unione Europea, con il risultato di creare un certo risentimento da parte cinese anche sul tema della collaborazione sul clima.
Certo, se al ritiro di Trump dall’accordo di Parigi si aggiungesse un raffreddamento nei rapporti tra Unione Europea e Cina, le cose per il futuro delle iniziative globali per contrastare i cambiamenti climatici diventerebbero più difficili. La delicatezza e complessità della collaborazione internazionale è oggi evidente al di là del tema del clima; il messaggio è che questo tema non va considerato in modo separato.