Presentazione del volume di A. Vercelli, Crisis and Sustainability. The delusion of free markets
Commentiamo un bellissimo libro[1]. È nutrito di teoria, non solo economica, di contezza metodologica. È rispettoso dei fatti. Sono preziose le appendici – dovute a Maria Carmen Siniscalchi – sulle norme e sul linguaggio della finanza. Cosa rara, l’analisi arriva alla proposta.
Ne condivido lo spirito critico, incentrato sui limiti dell’ortodossia analitica neo-classica e del neo-liberismo che ispira. Ne condivido l’assunto di fondo: il sistema di mercato capitalistico è instabile, oltre che iniquo e inquinante. Al tempo stesso un modo di produzione diverso e migliore non è dietro l’angolo. Quindi non rimane, come dovette ammettere lo stesso Keynes, che cercare di contenere le negatività del sistema che abbiamo e lenire le loro ripercussioni sociali.
Il libro fa perno sulla crisi del 2008. Di quella del 1929 tuttora si discute. Anche di questa si continuerà a discutere a lungo, pur essendo stata infinitamente meno grave. Allora il Pil del mondo cadde del 17%. Nel 2009 il Pil mondiale non è caduto: solo – si fa per dire… – la crescita è scesa dal 3% a zero.
Le spiegazioni dell’ultima crisi si sono rapidamente moltiplicate: Blinder, Greenspan, Geithner, Bernanke, Mervyn King. Personalmente, ho di recente pubblicato anch’io un libro su questi temi, per la stessa Palgrave Macmillan, seppure con un taglio diverso: Stabilising Capitalism. A Greater Role for Central Banks.
Quindi leggendo il libro di Alessandro Vercelli non potevo non porre a confronto i due contributi, il suo e il mio.
È poco utile richiamare le convergenze, largamente prevalenti. Forse è più utile esporre i punti di almeno parziale non coincidenza.
1) Un primo punto riguarda l’accento posto sulla dimensione finanziaria della crisi. Nella “Teoria Generale” Keynes è stupendamente equanime nell’attribuire l’instabilità tanto al rischio del debitore (la volatilità dell’efficienza marginale del capitale d’impresa, l’aspetto “reale”) quanto al rischio del creditore (la volatilità delle valutazioni di chi finanzia le imprese). Non è questo il caso di Alessandro Vercelli, ma una sorta di visione demonologica rischia di far pensare che al netto della finanza il capitalismo sarebbe stabile, il che non è. Gli stessi grandi modelli matematici del ciclo – Samuelson, Hicks, Goodwin – sono “reali”: ci sono l’investimento e il risparmio, non c’è la moneta, non c’è la finanza.
2) Il secondo punto, connesso col primo, è che si può tracciare un’origine “reale” della crisi del 2008, segnatamente negli Stati Uniti. Di fronte ai salari calmierati dalla concorrenza cinese e dall’immigrazione, Clinton e Bush, a caccia di consensi, hanno cercato di compensare i lavoratori a basso reddito con l’accesso all’abitazione a condizioni ipotecarie di favore, orientando il sistema finanziario a tale fine. Quindi la finanza… ha finanziato, con mutui impacchettati per diversificare i rischi. Ma l’assunto, fondato su un’evidenza secolare, secondo cui nel grande paese se i prezzi degli immobili salgono in una regione degli Stati Uniti scendono in un’altra, è stato questa volta smentito: i prezzi sono saliti e poi scesi ovunque, correlati. La diversificazione del rischio, quindi, è stata impedita da un fatto “reale”, prima che finanziario. È quindi seguito il crack esteso alla finanza, crack che l’econometria – basata sul passato – non consentiva a nessuno, vigilanti compresi, di prevedere.
3) Il terzo punto, connesso con i primi due, è che la crisi “reale”, ma non la crisi “finanziaria”, è stata pressochè mondiale. Giappone e Italia, ad esempio, nel 2008-2009 hanno sperimentato la caduta più forte del Pil e nessun fallimento di banche.
4) Il quarto punto concerne il neo-liberismo – su cui il libro dice cose illuminanti – visto anche come concausa della crisi. Un ex-banchiere centrale – un “pratico” – come me potrebbe obiettare che il prevalere della conventional wisdom ultra-neoclassica ha riguardato le accademie – e nemmeno tutte ! – e la relativa letteratura, ma non i policy makers, che veramente contano. I banchieri centrali, quando non fanno conferenze ma devono agire sotto stress, escludono che i mercati siano perfetti. E così molti ministri dell’economia. Lo stesso Greenspan è intervenuto pesantemente più volte, dollari alla mano, per sventare crolli di borsa, LTCM, crisi asiatiche, messicane, russe. Geithner, il meno accademico di tutti, salva l’economia americana con politiche fiscali e monetarie brutalmente non liberiste.
5) Deregulation? Sì, ma. Sul piano normativo la liberalizzazione ha riguardato aspetti delle attività bancarie, non i mercati finanziari. Questi sono stati inondati da regole per trasparenza e correttezza. La legge bancaria italiana del 1936, tuttora operante, aveva pochi articoli sulla Borsa. Oggi in Italia abbiamo un Testo Unico della Finanza il quale tutto è tranne che laissez-faire per i mercati. Sul piano dei controlli non c’è mai stata al mondo tanta vigilanza, bancaria e finanziaria, come negli anni precedenti la crisi del 2008. Personalmente, sono stato membro del Financial Stability Forum dal 1999 – anno della sua fondazione per volontà di Hans Tittmayer, Presidente della Deutsche Bundesbank – al 2006. Il team italiano era completato da Spaventa per la Consob e Draghi per il Tesoro. Ma anche altri colleghi erano niente affatto neo-liberisti. Quando, insieme con francesi e tedeschi, interrogavamo i nostri Chairmen – Andrew Crockett e Roger Ferguson, tanto bravi quanto diversi da un Milton Friedman! – e le delegazioni anglosassoni sulla loro bolla immobiliare, la risposta era econometrica. Lo ripeto, dai modelli basati sulla storia conosciuta non emergeva il crack, nemmeno ipotizzando crolli del dollaro e schizzi verso l’alto dei premi al rischio e dei tassi d’interesse
Note
1. Il contributo si riferisce alla presentazione del volume che si è tenuta il 19 aprile 2017 presso l’Università LUMSA, Roma. ↑
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