Atto amministrativo
3. Nella sua celebre voce “Atto amministrativo” dell’Enciclopedia del diritto [6], Massimo Severo Giannini sosteneva che una delle classificazioni dei pubblici poteri degli ordinamenti generali ha riguardo alla norma base che disciplina l’azione dell’apparato amministrativo; uno dei tipi compresi in questa classificazione è l’amministrazione che si definisce “ad atto amministrativo”. Ne traeva la conseguenza che un ordinamento generale positivo “ad atto amministrativo” ha una propria logica di principi ai quali occorre attenersi nel costruirne la dogmatica [7]. Tali principi sono la separazione dei poteri, il principio di legalità, la tendenziale agibilità delle pretese dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Tutto ciò, scriveva Giannini, ha introdotto la nuova figura reale, sostanziale dell’atto amministrativo; il gioco dei tre principi ora ricordati “rappresenta l’occa-sione che portò alla soglia di coscienza dei giuristi la realtà dell’atto amministrativo, aprendo la relativa dottrina, ma la realtà già esisteva nel diritto positivo, allo stato criptico” [8]. Segue la storia dei tentativi fatti nel corso degli anni per definire questa figura, assunta da Giannini sì come reale, ma come esistente “allo stato criptico”.
Come spesso in Giannini, il paradosso e la possibile contraddizione sono il veicolo per introdurre nel discorso un’intuizione che trascende di gran lunga le parole. L’intuizione è che, nel regime maturato nella seconda metà del XIX secolo [9], nel quale la pubblica amministrazione era soggetta alla legge, di cui però poteva valersi nei confronti di tutti, ed in primis dei cittadini, per operare ed agire essa aveva bisogno di un apparato strumentale ad hoc, fino allora generico ed indeterminato, certo non soggetto a regole rigorosamente prestabilite. Questo apparato strumentale non poteva fondarsi sul contratto, come è intuitivo. L’amministrazione pubblica non era neppur pensabile come una controparte così equiordinata al cittadino da ammettere la struttura teorica astratta del “negozio giuridico” quale suo strumento ordinario di azione: mancava qualunque omogeneità, sia delle volontà (solo le amministrazioni potevano realmente – e coattivamente – volere), sia degli interessi coinvolti (pubblici, generali, quelli delle amministrazioni, individuali quelli delle persone, dei cittadini). Era dunque necessario ricorrere ad uno strumento giuridico, collocato ad un livello di astrazione pari a quella del “negozio giuridico”, che esprimesse la posizione di superiorità dell’amministrazione, pur nella sua soggezione alla legge. Di fronte al vasto numero di mezzi a disposizione delle amministrazioni (decretali, ordini, ingiunzioni, etc.), l’unico strumento, debitamente astratto, non poteva essere altro che una nuova versione dell’atto giuridico, applicabile all’agire delle pubbliche amministrazioni: l’ “atto amministrativo”, appunto.
Questo – e solo questo – è il significato che ha avuto l’espressione “atto amministrativo” e che ad esso ancor oggi si può dare: non già fenomeno giuridico univoco, meritevole e suscettibile di una trattazione organica, ma termine convenzionale di riferimento per individuare genericamente e riassuntivamente una serie di categorie di fenomeni, attraverso i quali le pubbliche amministrazioni esercitano le loro funzioni.
Si può ben dire che la situazione è esattamente inversa rispetto a quella che ricorre per l’atto giuridico. L’espressione “atto amministrativo” esprime in forma sintetica una serie di manifestazioni lato sensu di volontà. Come tale non esiste, ovviamente; ma vi sono concretissimi decreti, ordinanze, autorizzazioni, nulla osta, licenze, permessi, piani, programmi etc. etc., con i quali le amministrazioni operano. Sono molti diversi tra loro, ma hanno alcune cruciali caratteristiche in comune: provengono da amministrazioni pubbliche; mirano a regolare e disciplinare situazioni di interesse generale; possono essere impugnati di fronte ad un giudice. Al contrario, l’atto giuridico non riassume né può riassumere alcunché del mondo reale. Vorrebbe esprimere una sorta di quidditas dell’agire umano, là dove produce conseguenze giuridiche ed in quanto le produca. Tra il testamento ed il contratto non corrono maggiori simiglianze di quante se ne colgano osservando il matrimonio e l’atto costitutivo di una società. Eppure sono tutti “atti giuridici”, perché producono effetti giuridici. Non è un caso che la teoria degli atti e dei negozi giuridici nel corso dei decenni si sia sostanzialmente spenta, lasciando spazio allo studio del diritto positivo [10].
4. Ciò detto, il tema dell’atto amministrativo acquista una propria specifica rilevanza. La assume non in quanto “atto giuridico”, cioè puramente astratto, ma perché espressione concreta del multiforme agire delle pubbliche amministrazioni: nel contesto di tale agire ed in esso soltanto, insomma, gli “atti” delle amministrazioni hanno rilevanza giuridica, in quanto mirano a produrre, e producono, effetti negli ambiti di interessi e di rapporti in cui incidono. Come è intuitivo – ed evidente – questi “atti” sono disciplinati da regole: il principio medievale della prestazione taillable et corvéable à merci (come ad es. nel caso dei reclutamenti forzati) disciplinava l’agire amministrativo non meno di quanto fanno oggi le leggi, quando minuziosamente prescrivono ciò che può o non può essere autorizzato o preteso o – addirittura – quali comportamenti si debbano tenere in un numero qualsiasi di situazioni.. Su questo genere di regole e sulle profonde trasformazioni che hanno avuto negli anni, si deve dunque portare l’attenzione [11].
Il problema chiaramente non è di ordine per così dire contenutistico. La legge può prescrivere ciò che ritiene più opportuno, nel rispetto della Costituzione e di pochi altri blocchi normativi sovraordinati rispetto all’ordinamento italiano (come ad es. il diritto dell’Unione Europea). Il problema sta nel comprendere come l’ordinamento nella sua globalità abbia disciplinato l’agire dell’amministrazione, a prescindere quindi dal merito, dal tipo di interesse oggetto dell’agire: in altri termini, come abbia disciplinato la formazione delle decisioni ed il controllo su esse.
In linea puramente teorica si sarebbero potute immaginare diverse soluzioni per il problema delle regole. La prima era ignorarlo, magari con qualche correttivo, come ad es. un ricorso al re, modellato sull’idea della grazia. Questa via non venne seguita, se non del tutto marginalmente [12]. La seconda era trasferire l’esperienza del diritto privato nel nuovo diritto pubblico e così utilizzare il modello del contratto come riferimento per la definizione di assetti di interessi. È facile osservare che una rimodulazione di questo genere dell’ancien régime nella seconda metà dell’Ottocento può essere oggi frutto di retroattive speranze, ma non è mai stata un percorso realmente praticabile in Europa. La terza soluzione era concentrare l’attenzione sull’organizzazione, costruendola in modo che il sistema garantisse al meglio la qualità dell’agire. Le vie concrete potevano essere molte. Si poteva pensare ad accademie di formazione del personale, in modo da collocare comunque la burocrazia di un certo livello nella fascia alta della società: il prestigio avrebbe garantito il risultato della qualità dell’amministrazione e dell’amministrare (come del resto è accaduto in Francia). Si poteva pensare – ed in effetti si pensò – di costruire anzitutto una coesione tra i diversi ex-Stati che costituivano l’Italia, accentrando presso il governo centrale tutte le decisioni più rilevanti; si poteva anche accompagnare questo sistema amministrativo centralizzato con un apparato di tutela giurisdizionale, anch’esso essenzialmente centralizzato.
Note
6. Vol. IV, 1959, p. 157 segg. ↑
9. L’anno di riferimento è il 1865. Dopo l’unificazione, infatti, in quell’anno venne approvato il grandioso “pacchetto normativo”, come si direbbe oggi, costituito dalla legge del 20 marzo 1865, n. 2248. I suoi allegati disciplinarono praticamente tutti i settori di attività delle pubbliche amministrazioni, dai lavori pubblici alla pubblica sicurezza, alla nuovissima tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Per alcuni suoi articoli, quest’ultimo allegato è ancora in vigore. ↑
10. È corretto pensare che l’ultimo aedo dell’atto e del negozio giuridico sia stato F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, che ha avuto un grande numero di edizioni. Tutt’altra struttura hanno le successiva trattazioni organiche del diritto civile. Basti ricordare che le Istituzioni di diritto civile, di A. TRABUCCHI (38° edizione, del 1998) dedicano una sola pagina agli atti giuridici, confinati tra gli atti i cui effetti sono determinati dalla legge e non dalla volontà (p. 127-128). ↑
11. Sotto questo aspetto è fondamentale lo studio di B. MATTARELLA, Fortuna e decadenza dell’imperatività del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, p. 1 perché disaggrega l’imperatività in relazione ai singoli tipi di atto, negandone anche il ricorrere continuo.. ↑
12. Ancor oggi esiste il ricorso straordinario al Capo dello Stato, come alternativa al ricorso giurisdizionale. ↑