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Tradizione giuridica e deferenza europea: quali paradigmi per il diritto amministrativo italiano?

di - 22 Dicembre 2016
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Gli ordoliberali avevano un grande bersaglio polemico: i pianificatori sovietici. Oggi l’ordoliberalismo ha perso la sua ragione d’essere. Occorre andare oltre.
L’Europa ci ha regalato il concetto di costituzione economica ed un nuovo modello di intervento pubblico nell’economia (incentrato sulle regole in materia di aiuti di Stato).
Questo ha avuto un effetto liberatorio rispetto a scorie del passato.
Ci ha consentito di superare gli eccessi e le storture dei sistemi a partecipazione statale.
Ciò ha influenzato il diritto amministrativo sostanziale (regalandoci la regola della responsabilità civile per violazione di interessi legittimi) e processuale (con le regole di parità delle armi e la spinta verso l’effettività della tutela giurisdizionale).
La crisi finanziaria spiana tutto ciò.
Lo mette in crisi e rivela alcune contraddizioni non più sostenibili del sistema.
Iniziamo dalla responsabilità civile della pubblica amministrazione per violazione di interessi legittimi.
Cosa determina?
È semplice: determina una rilettura di tutto il diritto pubblico alla luce del diritto privato. Il diritto privato prende il sopravvento sul diritto pubblico; il diritto pubblico è conglobato nel diritto privato.
L’interesse pubblico scompare a fronte dell’interesse privato leso: il procedimento amministrativo viene riletto alla luce del diritto privato e della clausola di cui all’art. 2043 cod. civ. dal processo amministrativo nel quale si può avanzare una domanda risarcitoria; ma v’è di più lo stesso processo amministrativo viene riletto dal processo civile (con un singolare processo al processo) nel caso in cui si ritenga che il giudice abbia violato l’art. 2043 cod. civ. (e si pensi alla riformata disciplina della responsabilità del giudice ed al suo influsso sulla nomofilachia del Consiglio di Stato ormai controllata per più versanti dalla Corte di Cassazione, anche mediante l’allargamento delle ipotesi di controllo sull’eccesso di potere giurisdizionale ed ora “assediata” anche attraverso il riesame nel merito della giurisprudenza del Consiglio di Stato fatto utilizzando l’art. 2043 cod. civ.).
Che ne è della decisione pubblica? La decisione pubblica è in crisi, preda di una rincorsa giudiziaria infinita.
La indecidibilità, l’impossibilità o la somma difficoltà della decisione, la possibilità di individuare sempre un fronte dal quale riaprire un processo decisionale pubblico sembra il connotato dell’epoca dell’eterno presente, in cui il passato non passa mai, nulla va in archivio, tutto è sempre da riesaminare.
L’epoca aperta in fisica dal principio di indeterminazione di Heisenberg e dalla meccanica quantistica, dal calcolo probabilistico e dalla teoria della relatività ci ha portato, nell’economia, al dominio della finanza sull’impresa reale.
La finanza costruisce mondi sulle aspettative, calcola sul futuro, ha nel suo centro la borsa ed i suoi meccanismi innovativi, i contratti derivati e la scommessa.
La scommessa e non la vendita è il contratto centrale dell’epoca del capitalismo finanziario.
L’economia della scommessa si giova di un diritto (weberianamente) incalcolabile, di un’invadenza costante del giudiziario in ogni processo decisionale; del processo al processo; della costante apertura al riesame di ogni decisione, della possibilità del “rilancio” della scommessa a fronte di qualsiasi passaggio critico; di una crisi delle regole e del diritto calcolabile che è crisi del legislatore e della legislazione (forse irreversibile: tanto che possiamo ragionare anche di prospettive di estinzione del “politico” di fronte alla tecnica o di riscosse del “politico” su nuovi versanti inediti di stampo populistico).
L’invadenza del giudiziario è coltivata nelle corti con un horror vacui rispetto all’effettività della giustizia che non si interroga mai sui limiti del potere giurisdizionale e ritiene giustiziabile qualsiasi pretesa.
Ciò indice al mutamento di principi consolidati della democrazia e della divisione dei poteri per effetto della forma economica dominante storicamente in questo passaggio della storia del capitalismo (crisi del legislativo; espansione del giudiziario; autoreferenzialità crescente degli apparati tecnico-amministrativi).
In un’ottica più modesta ed incentrata sul processo amministrativo ciò muta paradigmi tradizionali.
Difficile anche tener fermo il tradizionale modo di affrontare l’ordine logico delle questioni se guardiamo alla sentenza Fastweb della Corte UE ed alla nota e travagliata problematica del rapporto fra ricorso principale e ricorso incidentale.
Dialogo fra le Corti o deferenza verso i giudici europei?
Difficile dire che esista un dialogo quando un ordinamento si pone come un vincolo rispetto ad un altro (art. 117 Cost e sentenza Costa Enel della Corte di Lussemburgo nella quale si sostenne che con l’istituzione della Comunità gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi; tale limitazione di sovranità ha come corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere contro tale ordinamento un provvedimento unilaterale ulteriore; se ciò accadesse sarebbe scosso lo stesso fondamento giuridico della Comunità).
La deferenza tuttavia non può essere chiesta senza una pars costruens.
Se i vincoli (crescenti) non producono il benessere delle comunità alla fine vengono contestati e travolti.
La post-modernità quindi oscilla fra ordine e caos.
Ed in questo quadro quale sorte ha il potere pubblico di cui il potere amministrativo è magna pars?

Potere deriva da ποὶειν (fare). Il ποὶειν è anche la radice della parola poesia. Potere e parola poetica hanno la stessa radice.
Il potere viene quindi declinato come cultura del fare.
Ma fare cosa? Fare per fare o saper fare? Fare senza oggetto o fare qualcosa di determinato? La prevalenza del fare senza oggetto è il frutto della deriva nichilistica dell’uomo occidentale.
Occorre quindi, per limitare tale deriva, recuperare un corretto rapporto fra il sapere ed il fare.
Fra la politica e la tecnica. Sentire sempre la necessità del loro equilibrio. Nell’epoca in cui tutto cambia vorticosamente.
I mercati chiedono la riduzione della spesa pubblica e dettano regole agli Stati (monitorando i loro debiti); la responsabilità civile estende la sua portata a sempre nuovi campi di attività umana (si pensi alla responsabilità da contatto nella giurisprudenza ed al crescere dell’ambito delle azioni umane regolate contrattualmente); il contratto domina incontrastato e diviene, nella lex mercatoria, fonte del diritto; il potere autoritativo diviene invisibile (nelle s.c.i.a.; nei silenzi assensi; nell’autotutela limitata temporalmente e sottoposta a precise condizioni; nella tecnicizzazione delle regole; nella generalizzata riduzione della discrezionalità ormai rinvenibile – nel suo grado medio – solo negli atti aventi portata generale o negli atti pianificatori).
Ma il potere non può scomparire.
La sua scomparsa è un’illusione ideologica.
Il potere è dotato di una sua forza e realtà ontologica.
Le norme lo travestono (come scia o come potere tacito) ma non lo annullano.
Esso riemerge comunque ed ovunque.
Come tutela del terzo nella s.c.i.a. Come autotutela in senso forte di fronte al mendacio dei privati. Come tutela di interessi sensibili nei silenzi assensi. Come interesse pubblico nelle pianificazioni e nei programmi.
Al giurista, come intellettuale specifico del nostro tempo, cosa resta?
Dare testimonianza della permanente validità del diritto pubblico e del diritto costituzionale; e scrivere, scrivere, scrivere, per ricordare.
Scrivere per non rimanere vittime dell’amara postuma constatazione che ci abbaglia nelle parole paradossali di Edmod Jabès: “si conosce solo quello che si distrugge”. Può non essere così; dobbiamo volere che non sia così.

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