Tradizione giuridica e deferenza europea: quali paradigmi per il diritto amministrativo italiano?

Che cos’è la tradizione giuridica[1]?
Possiamo parlare di tradizione limitandoci all’ambito europeo (come suggerisce il titolo del convegno) ed allora più che di tradizione al singolare dobbiamo discorrere di tradizioni al plurale.
Nel mondo occidentale ed in Europa (nozione che continua a sussistere nonostante la Brexit perché ad essere in discussione non è l’Europa ma una sua specifica forma, quella a trazione tecnocratica e germanocentrica) si incontrano due tradizioni: la tradizione di common law e la tradizione di civil law.
La civil law poi può analizzarsi al proprio interno, dovendosi distinguere una tradizione latina da una germanica, una tradizione liberale, da una socialista ed anche, ormai, post-socialista.
Ma abbiamo bisogno di una definizione della tradizione e possiamo tentarla: tradizione è l’insieme dei modi di pensare, applicare, vivere il diritto, specie nella vita delle corti (per cui proporrei di limitare la qualifica di giurista a chi riesce a pensare la tradizione compiutamente ossia solo a chi ha esperienza concreta della vita delle corti, agli altri riserverei la qualifica di dottrinari puri di cui c’è bisogno ma che andranno, all’occorrenza, riportati alla realtà), modi di pensare il diritto che per assurgere a tradizione debbono essere però profondamente radicati e sempre risultano storicamente condizionati.
La tradizione è legata alla vita del diritto nelle corti.
Naturalmente il posto riservato alla tradizione in ogni sistema giuridico è diverso e dipende dal sistema delle fonti: abbiamo sistemi a diritto scritto e sistemi a diritto consuetudinario; in ciascuno dei diversi sistemi ius e lex sono in diverso equilibrio e subiscono diverse vicende storiche.
All’interno di uno stesso ambiente giuridico possono poi coesistere tradizioni diverse (il riparto di giurisdizione in Italia ha creato tradizioni giuridiche differenti fra giudici ordinari ed amministrativi, ed i giudici dei diversi ordini, pur uniti da un medesimo o analogo status volto a tutelarne l’indipendenza, operando in ambiti istituzionali diversi hanno sviluppato diverse tradizioni di pensiero ed una diversa concettuologia e questa è la ragione del pluralismo giurisdizionale).
È importante – per comprendere una tradizione e le sue caratteristiche – avere o non avere un’idea di codice.
E le idee di codice sono diverse: abbiamo codici razionalisti e codici storicamente intesi, codici generalisti e codici di settore.
La presenza o l’assenza dell’idea di codice (o di una certa idea di codice) e la sua dominanza sulla scena della mentalità giuridica cambia ovviamente l’esperienza giuridica.
Ma non conta solo l’idea di codice: conta anche, se non soprattutto, il tipo di tradizione politico-costituzionale nel quale si innesta la specifica tradizione del diritto che prendiamo in considerazione (ad es. nella tradizione politico costituzionale francese è centrale il pensiero di J.J. Rousseau; nella tradizione politico costituzionale inglese il pensiero di J. Locke; in Italia Croce e Gramsci hanno condizionato molto l’opera dei costituenti; un po’ meno si considera Romano Guardini al quale pure si deve tanto per aver veicolato il personalismo cristiano nella cultura italiana ma che politicamente è sempre stato un po’ ignorato anche dai cattolici personalisti in Assemblea costituente che preferivano riferirsi ai pensatori francesi).
E poi che idea del diritto hanno i giuristi? Normativista e monista o istituzionale e pluralista? Sentono più il fascino di Kelsen o di Santi Romano? E che idea hanno del lato oscuro del diritto (ossia della sua violenza) e della figura di C. Schmitt?
Naturalmente ciò vale sul presupposto che i giuristi sentano il bisogno di avere un pensiero per non diventare solo esperti legali, che è un’altra cosa (degna – direi indispensabile anche per guadagnarsi il pane – ma un’altra cosa).
Il tradizionalismo in filosofia è una sorta di conservatorismo; l’uomo è plasmato dal linguaggio e dalla cultura più che dalla ragione; in altre versioni si sottolinea l’importanza, di volta in volta, della dimensione trascendente, della morale sociale, della vita rurale, del classicismo, della fedeltà, dell’etica.
L’illuminismo ha subito creato una lettura contro-illuministica: De Maistre, Burke, negli Stati Uniti John Calhoun (era un proprietario terriero sudista, era razzista, è considerato tuttora, anche se – come ha mostrato Massimo Salvadori – alcuni aspetti del suo pensiero sono controversi ed inaccettabili, uno dei padri del federalismo di cui diede una lettura conservatrice; egli individuò negli effetti del principio maggioritario semplice una vera piaga, destinata a minare ogni società democratica, indicando anche una soluzione: il principio della maggioranza concorrente, secondo il quale la ricerca del consenso sulle questioni cruciali deve tener conto dei grandi interessi di ogni parte del paese; del Nord come del Sud).
Una breve rassegna dei pensatori della tradizione può citare Donoso Cortes, Gomez Davila, Ernst Junger, Heidegger, Schmitt.
Nel lavoro di Donoso Cortes su Cattolicesimo, liberismo e socialismo è descritto il passaggio cruciale della modernità come la sostituzione di Dio con il demos.
Il grande pensiero del controilluminismo ha cercato di conservare una visione gerarchica dell’ordine sociale in reazione all’individualismo, al liberalismo, alla modernità.
Sir Isaiah Berlin contrappone come elementi fondanti dell’anima europea illuminismo e romanticismo, senza imporci di scegliere, invitandoci a mantenere un equilibrio fra entrambi, coltivando tutte e due le tendenze, la ragione ed il cuore, così conciliando modernità e tradizione, innovazione sociale e ricerca dell’autenticità interiore (quella criticata da Adorno nel famoso testo “Il gergo dell’autenticità” nel quale l’autenticità è identificata come il nucleo oscuro dell’ideologia tedesca). Occorre tener presente la lezione del grande pensatore anglo-russo.
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità (Kant); il romanticismo – movimento culturale assai complesso ed inesauribile per il suo influsso sulle arti e sulla poesia – è la ricerca dell’autenticità che passa per la riscoperta della storia.
Quando si parla di tradizione quindi è in giuoco il rapporto fra memoria ed oblio. Il rapporto fra le generazioni.
Ricordare il passato può salvarci ma può anche, talvolta, costituire un peso insopportabile.
Lo chiarisce una domanda: come superare i traumi? La psicanalisi è una scelta della rammemorazione per la rielaborazione del lutto e della perdita ma talvolta, di fronte a mali radicali, è bene usare anche l’oblio. Dimenticare è un’arte necessaria per chi torna dalle guerre o sopravvive agli attentati e deve gestire una sindrome da stress post-traumatica.
Gli antichi avevano l’immagine mitica del fiume Lete.
Gli illuministi volevano obliare il Medio Evo, superarlo.
Voltaire riscrive a modo suo la storia nel Dizionario filosofico e dileggia le tradizioni giuridiche, loda il diritto scritto (non rinuncia però alla monarchia mettendo un limite alla sua furia iconoclastica).

I tradizionalisti, ricorda Eliot, amano le “cose permanenti”.
Viviamo invece in un’epoca di cambiamento e velocità. Un’epoca del fare. Dominata da impermanenza e precarietà.
La società liquido-moderna dicono alcuni, basata su interconnessione, comunicazione, meccanismi di inclusione/esclusione molto rapidi e repentini.
Lo spazio per la tradizione sembra ridursi in molti ambiti, non però nella vita del diritto e ciò ha la sua ragione.
Occorre ricordare che la tradizione nella vita del diritto è costitutiva della “cosa” del diritto, nel senso che il diritto non è pensabile senza quella cosa che chiamiamo tradizione.
Questo spiega il senso del contrasto sofocleo fra Antigone e Creonte, ius e lex, vita del diritto nella tradizione e vita del diritto nella legge.
Lo ius è il diritto giurisprudenziale, elastico, flessibile, aderente al concreto, con tutte le caratteristiche che il prof. Grossi ha riconosciuto al diritto come oggetto della scienza nel suo mirabile aureo libretto “Il ritorno al diritto”.
Le caratteristiche che portavano Radbruch, tedesco, ad amare il diritto inglese.
La tradizione quindi ha un futuro.
In un sistema delle fonti diverso da quello del passato, un sistema non più monista, ove le leggi si moltiplicano ma perdono centralità.
Sistema delle fonti strutturato secondo i principi europei del costituzionalismo multilivello, con Unione europea, Stati ed enti regionali e locali che si contendono i ruoli di normatori.
Un sistema che vede il criterio della competenza come più importante di quello della gerarchia per la soluzione delle antinomie.
L’ordine è dato dalla tradizione.
La tradizione trascende l’innovazione come lo ius trascende la lex.
L’ordine non è dato dalla riconduzione a sistema (al codice) alla rete dei concetti, ma all’operazione di razionalizzazione postuma che riconduce la legge nell’alveo di una tradizione, di un linguaggio sedimentato, già noto.
Il ruolo del giudice (quando non demolisce) e del giudice amministrativo è centrale in questa chiave.
Il giudice amministrativo ha sempre avuto un ruolo pretorio, che, fino al codice del processo amministrativo, ha consentito al giudice di creare l’actio.
Un giudice – quello del Consiglio di Stato – che è stato capace di funzionare senza un codice dal 1889 al 2010 e che si è inventato un giudizio di appello, dopo l’istituzione dei Tar senza che esistesse uno straccio di norma per regolare il giudizio di appello.
Ebbene questo giudice cosa deve affrontare ora?
Cosa sta succedendo? Quali linee di tendenza si intravedono?
La scomparsa o il tramonto del potere amministrativo (inteso in senso classico) ecco quello che sta accadendo.
Il legislatore la desidera. Ciò è evidente in tante riforme di questi ultimi anni.
Ma perché?
La prima ragione sta nel neoliberismo.
Il capitalismo – guidato dalla tecnica (fino a quando essa non se ne renderà autonoma così ritiene Severino) domina incontrastato l’intero pianeta; il neoliberismo, ossia il main stream dell’ideologia di mercato, è un veicolo del suo dominio.
Attenzione: il capitalismo globale non fa fuori gli Stati.
Cerca negli Stati gli strumenti dei più alti rendimenti per i propri investimenti, in un pianeta che, per l’interconnessione tecnica, appare piatto.
Gli Stati si indeboliscono ma non periscono.
Già il marxismo sosteneva il deperimento degli Stati, teorizzava la società senza Stato.
Ma il capitalismo non è diventato socialista nella sua attuale fase, tutt’altro.
Noi oggi assistiamo ad un fenomeno inedito. Il capitalismo dissolve imbriglia gli Stati in un reticolo di regole sovranazionali perché l’economia è transnazionale.
Tuttavia il capitalismo non vuole – di botto – superare gli Stati .
Piuttosto li usa, attraverso nuove pratiche li condiziona.
Pensiamo agli investimenti diretti all’estero.
Ai c.d. ISDS Tribunali che agiscono in ambito WTO, Investor State Dispute Settlement, Strumenti di risoluzione delle controversie fra investitori e Stati.
Sono giudici arbitrali sovranazionali che – originariamente creati per tutelare gli Stati occidentali nell’epoca della decolonizzazione dai rischi di arbitrarie nazionalizzazioni – oggi mirano ad assicurare la stabilità del quadro giuridico a protezione degli investitori globali.
Nuove regolazioni ambientali che determinino oneri non previsti possono finire nella lente di questi organismi.
Occorre studiarli a fondo per comprendere le nuove pratiche imperiali del capitalismo finanziario.
Pratiche di condizionamento degli Stati.
Pratiche che introducono profondi cambiamenti nel cuore stesso del costituzionalismo europeo.
Abusata è la citazione dei reporti di J. P. Morgan assai critici ed insofferenti nei confronti delle costituzioni c.d. di seconda generazione caratterizzate dalla protezione dei diritti sociali.
Le costituzioni sono entrate nel grande gioco del debito e dei mercati finanziari.
Le transizioni costituzionali (con cambiamenti formali o materiali) sono ovunque in corso.
Ma non riforme costituzionali nazionali ma solo nuove prospettive europee possono salvarci (per usare un termine hiedeggeriano-holderliniano “Solo un Dio ci può salvare”).
Quale Europa?
Non quella attuale.
Connotata da monetarismo, mancanza di unione politica (disunione), alto tasso di potere tecnocratico, idolatria per politiche di austerità, base ideologica ordoliberale.
Occorre una Europa diversa.
Una nuova Europa che superi i limiti della costruzione attuale dando nuova linfa ai Trattati.
La Costituzione europea in fieri è ordo-liberale. Tutela il mercato e la concorrenza. Pensa più al consumatore che al cittadino. E’ interessata più alla stabilità dei prezzi che allo sviluppo. È figlia di un’epoca che doveva difendersi dal totalitarismo comunista e dalle pianificazioni economiche e voleva costruire un mondo affluente attraverso il mercato.

Gli ordoliberali avevano un grande bersaglio polemico: i pianificatori sovietici. Oggi l’ordoliberalismo ha perso la sua ragione d’essere. Occorre andare oltre.
L’Europa ci ha regalato il concetto di costituzione economica ed un nuovo modello di intervento pubblico nell’economia (incentrato sulle regole in materia di aiuti di Stato).
Questo ha avuto un effetto liberatorio rispetto a scorie del passato.
Ci ha consentito di superare gli eccessi e le storture dei sistemi a partecipazione statale.
Ciò ha influenzato il diritto amministrativo sostanziale (regalandoci la regola della responsabilità civile per violazione di interessi legittimi) e processuale (con le regole di parità delle armi e la spinta verso l’effettività della tutela giurisdizionale).
La crisi finanziaria spiana tutto ciò.
Lo mette in crisi e rivela alcune contraddizioni non più sostenibili del sistema.
Iniziamo dalla responsabilità civile della pubblica amministrazione per violazione di interessi legittimi.
Cosa determina?
È semplice: determina una rilettura di tutto il diritto pubblico alla luce del diritto privato. Il diritto privato prende il sopravvento sul diritto pubblico; il diritto pubblico è conglobato nel diritto privato.
L’interesse pubblico scompare a fronte dell’interesse privato leso: il procedimento amministrativo viene riletto alla luce del diritto privato e della clausola di cui all’art. 2043 cod. civ. dal processo amministrativo nel quale si può avanzare una domanda risarcitoria; ma v’è di più lo stesso processo amministrativo viene riletto dal processo civile (con un singolare processo al processo) nel caso in cui si ritenga che il giudice abbia violato l’art. 2043 cod. civ. (e si pensi alla riformata disciplina della responsabilità del giudice ed al suo influsso sulla nomofilachia del Consiglio di Stato ormai controllata per più versanti dalla Corte di Cassazione, anche mediante l’allargamento delle ipotesi di controllo sull’eccesso di potere giurisdizionale ed ora “assediata” anche attraverso il riesame nel merito della giurisprudenza del Consiglio di Stato fatto utilizzando l’art. 2043 cod. civ.).
Che ne è della decisione pubblica? La decisione pubblica è in crisi, preda di una rincorsa giudiziaria infinita.
La indecidibilità, l’impossibilità o la somma difficoltà della decisione, la possibilità di individuare sempre un fronte dal quale riaprire un processo decisionale pubblico sembra il connotato dell’epoca dell’eterno presente, in cui il passato non passa mai, nulla va in archivio, tutto è sempre da riesaminare.
L’epoca aperta in fisica dal principio di indeterminazione di Heisenberg e dalla meccanica quantistica, dal calcolo probabilistico e dalla teoria della relatività ci ha portato, nell’economia, al dominio della finanza sull’impresa reale.
La finanza costruisce mondi sulle aspettative, calcola sul futuro, ha nel suo centro la borsa ed i suoi meccanismi innovativi, i contratti derivati e la scommessa.
La scommessa e non la vendita è il contratto centrale dell’epoca del capitalismo finanziario.
L’economia della scommessa si giova di un diritto (weberianamente) incalcolabile, di un’invadenza costante del giudiziario in ogni processo decisionale; del processo al processo; della costante apertura al riesame di ogni decisione, della possibilità del “rilancio” della scommessa a fronte di qualsiasi passaggio critico; di una crisi delle regole e del diritto calcolabile che è crisi del legislatore e della legislazione (forse irreversibile: tanto che possiamo ragionare anche di prospettive di estinzione del “politico” di fronte alla tecnica o di riscosse del “politico” su nuovi versanti inediti di stampo populistico).
L’invadenza del giudiziario è coltivata nelle corti con un horror vacui rispetto all’effettività della giustizia che non si interroga mai sui limiti del potere giurisdizionale e ritiene giustiziabile qualsiasi pretesa.
Ciò indice al mutamento di principi consolidati della democrazia e della divisione dei poteri per effetto della forma economica dominante storicamente in questo passaggio della storia del capitalismo (crisi del legislativo; espansione del giudiziario; autoreferenzialità crescente degli apparati tecnico-amministrativi).
In un’ottica più modesta ed incentrata sul processo amministrativo ciò muta paradigmi tradizionali.
Difficile anche tener fermo il tradizionale modo di affrontare l’ordine logico delle questioni se guardiamo alla sentenza Fastweb della Corte UE ed alla nota e travagliata problematica del rapporto fra ricorso principale e ricorso incidentale.
Dialogo fra le Corti o deferenza verso i giudici europei?
Difficile dire che esista un dialogo quando un ordinamento si pone come un vincolo rispetto ad un altro (art. 117 Cost e sentenza Costa Enel della Corte di Lussemburgo nella quale si sostenne che con l’istituzione della Comunità gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi; tale limitazione di sovranità ha come corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere contro tale ordinamento un provvedimento unilaterale ulteriore; se ciò accadesse sarebbe scosso lo stesso fondamento giuridico della Comunità).
La deferenza tuttavia non può essere chiesta senza una pars costruens.
Se i vincoli (crescenti) non producono il benessere delle comunità alla fine vengono contestati e travolti.
La post-modernità quindi oscilla fra ordine e caos.
Ed in questo quadro quale sorte ha il potere pubblico di cui il potere amministrativo è magna pars?

Potere deriva da ποὶειν (fare). Il ποὶειν è anche la radice della parola poesia. Potere e parola poetica hanno la stessa radice.
Il potere viene quindi declinato come cultura del fare.
Ma fare cosa? Fare per fare o saper fare? Fare senza oggetto o fare qualcosa di determinato? La prevalenza del fare senza oggetto è il frutto della deriva nichilistica dell’uomo occidentale.
Occorre quindi, per limitare tale deriva, recuperare un corretto rapporto fra il sapere ed il fare.
Fra la politica e la tecnica. Sentire sempre la necessità del loro equilibrio. Nell’epoca in cui tutto cambia vorticosamente.
I mercati chiedono la riduzione della spesa pubblica e dettano regole agli Stati (monitorando i loro debiti); la responsabilità civile estende la sua portata a sempre nuovi campi di attività umana (si pensi alla responsabilità da contatto nella giurisprudenza ed al crescere dell’ambito delle azioni umane regolate contrattualmente); il contratto domina incontrastato e diviene, nella lex mercatoria, fonte del diritto; il potere autoritativo diviene invisibile (nelle s.c.i.a.; nei silenzi assensi; nell’autotutela limitata temporalmente e sottoposta a precise condizioni; nella tecnicizzazione delle regole; nella generalizzata riduzione della discrezionalità ormai rinvenibile – nel suo grado medio – solo negli atti aventi portata generale o negli atti pianificatori).
Ma il potere non può scomparire.
La sua scomparsa è un’illusione ideologica.
Il potere è dotato di una sua forza e realtà ontologica.
Le norme lo travestono (come scia o come potere tacito) ma non lo annullano.
Esso riemerge comunque ed ovunque.
Come tutela del terzo nella s.c.i.a. Come autotutela in senso forte di fronte al mendacio dei privati. Come tutela di interessi sensibili nei silenzi assensi. Come interesse pubblico nelle pianificazioni e nei programmi.
Al giurista, come intellettuale specifico del nostro tempo, cosa resta?
Dare testimonianza della permanente validità del diritto pubblico e del diritto costituzionale; e scrivere, scrivere, scrivere, per ricordare.
Scrivere per non rimanere vittime dell’amara postuma constatazione che ci abbaglia nelle parole paradossali di Edmod Jabès: “si conosce solo quello che si distrugge”. Può non essere così; dobbiamo volere che non sia così.

Note

1.  Prima versione del testo dell’intervento svolto alla tavola rotonda su “Tradizione Giuridica e Deferenza europea: quali paradigmi per il diritto amministrativo italiano?” tenutasi nell’ambito del convegno leccese dedicato a “L’amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia”; convegno nazionale di Studi del 28 e 29 ottobre 2016. Gli atti del Convegno leccese saranno pubblicati dall’Università del Salento a cura del prof. Portaluri.