Quale spirito di riforma per la giustizia amministrativa?
Un articolo a firma di Pierluigi Mantini, apparso sull’Unità l’11 settembre 2015, stimola inevitabilmente alcune riflessioni.
Mantini si interroga sulle riforme necessarie alla giustizia amministrativa e si chiede come correggere il fenomeno della giustizia creativa, del giudice che crea la norma: fenomeno moderno, sicuramente non previsto dai teorici del potere diviso, talvolta chiamato giornalisticamente “supplenza” del mondo giudiziario rispetto alla politica.
Per comprendere il tema – spiegandolo a chi giurista non è – occorre partire dall’assunto che l’ordinamento giuridico vivente è una catena di proposizioni linguistiche che muove dall’astratto (la norma giuridica) al concreto (l’atto amministrativo e la sentenza del giudice). In mezzo c’è l’attività degli interpreti: amministratori e giudici.
Al cittadino interessa il concreto, il mondo della vita, il modo in cui sono amministrati i suoi interessi; al legislatore dovrebbe interessare solo fissare gli scopi (generali) dei poteri pubblici; all’amministrazione (guidata dalla politica) curare imparzialmente i pubblici interessi; al giudice spetterebbe solo di verificare la legittimità – ossia la rispondenza alle norme – dell’attività amministrativa di cura concreta degli interessi pubblici.
In uno Stato armonioso questi poteri differenti stanno ciascuno nel proprio campo e non debordano ed il tasso creativo inevitabilmente connesso all’interpretazione delle leggi è accettabile.
Certo, se, anziché fare leggi generali ed astratte, il legislatore pone in essere leggi ad personam; se l’amministrazione non riesce ad essere imparziale per la debolezza delle élites che la dirigono; se i giudici divengono protagonisti della politica; qualche cosa non va nella divisione dei poteri (chi è senza peccato scagli la prima pietra).
Dalla concorrenza armoniosa dei poteri nasce una convivenza civile; una società non diciamo giusta (questa aspirazione umana legata alla politica moderna è spesso illusoria), ma decente.
Economicismo, capitalismo finanziario, sviluppo tecnologico, dinamiche della globalizzazione stanno svuotando di senso lo Stato nato dalle rivoluzioni borghesi. Il Consiglio di Stato, collocato al delicato snodo fra politica, giustizia ed amministrazione, con le funzioni di consulenza giuridica rispetto all’amministrazione e di giustizia nell’amministrazione, risente in pieno di queste dinamiche.
Può ritenersi che queste dinamiche cancellino la politica, la confinino nel novero dei fenomeni irrilevanti o simili allo spettacolo. Per il nostro futuro non sarebbe però un esito umanamente accettabile; né la giustizia potrebbe mai supplire all’assenza o alla cancellazione della politica.
Non vi è dubbio che la politica certo possa essere demoniaca (lo sapeva bene Ritter e purtroppo vediamo le sue pretese di violenza risorgere nel caos contemporaneo). Nella civitas umana essa è però anche, nello stesso tempo, l’unico deposito di valori che possa fungere da limite al dilagare dell’interesse economico o dei fanatismi religiosi quali criteri di governo del mondo. Sono fenomeni che, se non debitamente governati, aumenteranno il disordine, la disuguaglianza e le minacce alla coesione sociale (“il potere che frena” al quale Cacciari ha dedicato un aureo libretto).
La politica e lo Stato hanno bisogno di esercitare il loro ruolo.
Tanto può avvenire, sta tentando di avvenire, in vari modi : con l’emergere di leader forti e carismatici, con la riforma degli apparati amministrativi, con la creazione di spazi politici sovranazionali.
Ma tutto questo può non bastare: la società oggi richiede che poteri pubblici siano legittimi e non solo legittimati.
Il principio di legittimazione è l’investitura democratica, il collegamento con la sovranità che nel regime delle democrazie di massa è spesso inestricabilmente legata a populismo e ruolo dei mass media.
La legittimità è tutela delle posizioni giuridiche dei singoli e degli amministrati e controllo dell’uso legittimo del potere.
Il potere pubblico democratico ha bisogno dell’una e dell’altra delle forme di suo fondamento, deve essere legittimato ma anche legittimo.
La cosa si spiega con Weber e con la teoria realista della politica: anche la democrazia crea divisione nei processi decisionali, fra i pochi ed i molti, fra rappresentanti e rappresentati e questa divisione per essere accettata deve trovare sempre una forma di giustificazione legale-razionale.
Il sistema della giustizia – o delle Corti che oggi sono anche sovranazionali – è preposto a garantire la legittimità dell’uso del potere amministrativo ed a garantire i diritti e le posizioni giuridiche dei cittadini.
Esso tuttavia non deve mai scambiare il suo ruolo con il ruolo del titolare del potere sovrano. Deve, esercitando pienamente la sua funzione di controllo, sapersi fermare un attimo prima, deve fermarsi all’esercizio di una funzione veritativa ed astenersi dal diventare in prima persona elemento del dibattito politico; garante di forme di legittimazione o peggio giudice che si sostituisce all’amministrazione (dovrebbe evitarsi di discutere delle sentenze sempre come se fossero politicamente ispirate). Nello stesso tempo deve sempre inflessibilmente garantire il rispetto delle leggi.
Questo in una democrazia matura.
Il sistema giudiziario, nel suo complesso, ivi compresa la magistratura amministrativa, deve inoltre essere ed apparire indipendente.
Per essere ed apparire indipendente la magistratura amministrativa deve migliorare la sua deontologia, rafforzare il giudizio disciplinare, assumere un esemplare codice di condotta nel rapporto con i mass media da offrire anche alle altre magistrature, saper esercitare con equilibrio il proprio ruolo di controllo della legalità a tutela del singolo ma anche del pubblico generale interesse, perseguito nelle forme costituzionalmente legittime.
Deve rendersi conto culturalmente che l’amministrazione è entrata nell’era della responsabilità (e del risarcimento dei danni procurati dall’esercizio illegittimo del potere) nello stesso tempo con la consapevolezza che poteri privati fortemente organizzati cercano sempre di svolgere un ruolo da free rider nei procedimenti di aggiudicazione dei beni pubblici, talvolta abusando del processo per finalità non protette dalle norme di legge ossia cercando di ottenere un lucro loro non spettante attraverso l’esercizio del diritto di agire in giudizio.
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