Riforme amministrative in cambio di flessibilità sul Patto di Stabilità in Europa?
La crisi economica attuale, iniziata nei Paesi europei già nel 2008, nata in seguito alla crisi del mercato immobiliare americano con il crollo dei cosiddetti subprime, oltre a produrre le ben note conseguenze di carattere finanziario sui bilanci pubblici dei principali Stati europei, ha dato vita, in Italia, ad un proliferare “patologico” di norme da parte di tutti i governi che si sono alternati alla guida del Paese dal 2008 al 2014.
La specifica patologia da cui l’ordinamento italiano è affetto è stata ben studiata da Luciano Vandelli che l’ha diffusamente esaminata nel suo arguto libro “Schizofrenia delle riforme quotidiane”.
Espressioni come “decreto salva Italia”, “decreto semplificazioni”, “decreto liberalizzazioni”, “decreto sviluppo”, “decreto del fare” sono entrate a far parte del linguaggio utilizzato non solo dalla carta stampata, ma anche dalla pubblica amministrazione, che oramai considera tali abbreviazioni quasi come patrimonio giuridico comune di ogni ufficio pubblico.
In realtà, ogni singolo provvedimento di legge, comunque lo si chiami, contiene al suo interno decine e in alcuni casi, centinaia di norme che, nella visione del Governo che le ha approvate, avrebbero dovuto consentire il raggiungimento dei seguenti macro obiettivi:
1. Superamento della crisi economica e rilancio dell’economia;
2. Riduzione del debito pubblico e della spesa della pubblica amministrazione;
3. Semplificazione e ammodernamento dell’amministrazione statale e delle sue procedure.
A distanza di sei anni dall’inizio della crisi si possono contare circa trenta decreti legge, intervenuti nei tre settori appena citati. Essi hanno introdotto nell’ordinamento una sovrabbondanza di norme, molte delle quali hanno obbligato la pubblica amministrazione ad intraprendere strade di direzione opposta.
I decreti contano più di mille articoli, al cui interno si possono contare decine di migliaia di norme alle quali la pubblica amministrazione è chiamata a dare concreta attuazione con il serio rischio di “ingolfare” la macchina amministrativa che non riesce a stare dietro a questi continui cambiamenti.
Tutto ciò prescindendo dalle valutazioni di come tale schizofrenia normativa abbia contribuito a modificare il ruolo del Parlamento nel decidere le soluzioni più adatte per affrontare la crisi economica, visto il sovente ricorso al “voto di fiducia” nell’approvazione dei decreti legge.
Il continuo cambiamento normativo è il miglior alibi concesso alla pubblica amministrazione per la mancata attuazione delle previsioni legislative, in quanto una collettività non si concentra sull’esecuzione delle leggi, quando, nel dibattito pubblico, si succedono convulsamente idee volte a rinnovare continuamente i programmi e gli obiettivi sociali mediante l’introduzione di nuove norme.
La situazione economica permane nella sua gravità ed anzi vi sono segnali di peggioramento (specie nell’andamento della crescita o meglio si dovrebbe dire “decrescita” del PIL).
I vincoli europei (Patto di stabilità e crescita e fiscal compact) impongono, nel frattempo, ulteriori interventi normativi nel segno dell’austerità e della riduzione della spesa che non produrranno altro – si può essere facili profeti – che un aggravamento della recessione in corso.
In questo senso la strategia di concentrare l’attenzione sulle riforme costituzionali ed istituzionali appare finalizzata a creare le condizioni destinate ad incentivare maggiori investimenti esteri in Italia, dando, nelle relazioni internazionali, la sensazione e poi il preciso messaggio che il Paese torna ad essere attrattivo perché connotato da un ambiente istituzionale moderno.
Nel proseguire tenacemente nell’opera di ammodernamento dell’amministrazione tuttavia occorre forse cambiare filosofia: iniziare a diffidare delle norme per affidarsi maggiormente alla buona amministrazione, alla concreta attività di esecuzione delle leggi, al “far arrivare i treni in orario”; in ciò aiuterebbe l’effettiva restaurazione di principi gerarchici e meritocratici troppo spesso disattesi.
Una democrazia decidente si accompagna necessariamente ad una capacità dell’amministrazione di concludere i propri procedimenti con decisioni effettive e ben istruite.
Qualche spunto viene anche dall’esperienza americana: nel suo ultimo libro, “Semplice. L’arte di governo nel terzo millennio”, Cass Sunstein, lo zar della regolazione degli Stati Uniti, descrive la sua esperienza di consigliere del Presidente Obama, che gli affida la mission di vigilanza sulla effettiva necessità di nuove norme, alla luce della quale gli viene consentito di interdire l’iniziativa diretta ad introdurre nuove leggi di qualsiasi agente pubblico.
La continua decretazione d’urgenza in Italia va in senso diverso, dando luogo ad un diluvio normativo senza pari. In termini di indicatori di efficienza amministrativa i risultati sembrano decisamente divergenti (in peggio) rispetto alla media OCSE. Ciò va detto anche senza nutrire eccessiva fiducia nella valutazione economica (mai ideologicamente neutrale) delle politiche pubbliche fatta dalle agencies internazionali (che hanno talvolta sgovernato il mondo globale).
La Corte Costituzionale fa quel che può per arginare il fenomeno (ed i moniti del Presidente della Repubblica sono spesso richiamati dalla giurisprudenza della Consulta), ma è evidente che ci vuole un più forte senso di autolimite dei Governi per cambiare strada.
In questa direzione la riforma della pubblica amministrazione proposta dal Ministro Madia va valutata nella sua effettiva portata: essa mira per la prima volta da lungo tempo al ricambio generazionale, si propone di contrastare la corruzione e di semplificare l’amministrazione.
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