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La questione femminile a 150 anni e oltre dall’Unità d’Italia*

di - 7 Luglio 2012
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La guerra propone un primo radicale mutamento della figura femminile. Da un lato, esalta l’emancipazione, attraverso l’impegno delle donne in fabbrica per la produzione di armi e munizioni. Dall’altro, continua a valorizzare l’immagine femminile classica della bellezza e del lavoro domestico, attraverso le “cartoline in franchigia” e la produzione di vestiario per i soldati al fronte; anche per questa via si contribuisce alla modernizzazione dell’immagine della donna.
Infine, mentre si accentua nel dopoguerra il movimento pro-suffragio universale, l’autonomia prevista per le donne da una legge del 1919 – che riconosce loro piena capacità giuridica, cancellando definitivamente l’autorizzazione maritale – conclude il percorso del primo Risorgimento verso la cittadinanza compiuta.

3. La vicenda fascista segna un evidente regresso nella condizione femminile, rispetto alle faticose conquiste del primo Risorgimento. Il fascismo è tendenzialmente contrario al lavoro femminile, alla emancipazione della donna, al suo impegno in ruoli di responsabilità; tende ad esaltare la figura della madre e della moglie, in una retorica di regime legata alla tradizione rurale; premia le famiglie numerose e promuove i matrimoni, attuando contestualmente una politica di tutela sociale e di assistenza. Tuttavia la volontà di accrescere la produttività economica, mobilitando tutte le risorse, porta alla promozione di cambiamenti sociali; ad essi contribuiscono l’associazionismo femminile e la diffusione della cultura: così da condurre ad una nuova immagine della donna, contrastante con quella della propaganda di regime.
Con la nuova guerra, le donne vengono nuovamente chiamate a prendere il posto degli uomini, richiamati sotto le armi. Ma é con la sconfitta e l’inizio della Resistenza che esse divengono protagoniste del secondo Risorgimento nella lotta contro l’occupazione nazista e fascista, dopo l’iniziale partecipazione di molte di loro (come Camilla Ravera, Teresa Noce, Rita Montagnana) alla lotta politica e clandestina contro il fascismo.
Nel secondo conflitto si dissolve definitivamente la distinzione fra fronte interno, in cui sono attive le donne, e fronte di combattimento. La prima forma di resistenza, da parte loro, si esprime attraverso il rifiuto della guerra; la partecipazione agli scioperi del marzo 1943, con la manifestazione a Torino in occasione della Giornata internazionale della donna; l’aiuto agli sbandati e ai soldati fuggiaschi. Seguono la partecipazione alla liberazione di Napoli e poi alla lotta nel Centro-Nord, come partigiane combattenti o continuando a svolgere il loro “mestiere di donne” nella famiglia, con un’assistenza continua e indispensabile a chi combatte; la rinascita dell’associazionismo femminile, con l’Unione Donne Italiane e il Vostro Centro Italiano Femminile nel 1944.
La partecipazione femminile alla lotta clandestina si articola in varie forme: dai servizi logistici, di staffetta e di collegamento, alla formazione di nuclei armati e distaccamenti partigiani femminili (come l’Alice Noli, a Genova); all’aiuto dato a molti, nell’anonimato, per nascondere, aiutare e curare chi ha bisogno; alla creazione e diffusione di una stampa femminile clandestina, per invitare le donne alla lotta e al dibattito sulla democrazia.
Nel novembre 1943 nascono a Milano i Gruppi di difesa della donna, con il compito di organizzare la resistenza nelle fabbriche, nelle scuole e nelle campagne; le loro rappresentanti collaborano con il CLN. Sono molte le donne – contadine, operaie e mondine; ma anche impiegate, professioniste e casalinghe, rappresentanti di tutte le classi sociali – che danno carattere di massa alla partecipazione femminile alla Resistenza: 35.000 cui è riconosciuto il titolo di partigiane/combattenti; 4.500 arrestate e torturate; 2.750 deportate in Germania; 600 fucilate o cadute in combattimento; 19 decorate di medaglie d’oro al Valor Militare. Tuttavia è giusto ricordare anche le donne che scelsero di stare dall’altra parte o furono costrette a farlo, entrando nel Servizio ausiliario femminile della Repubblica di Salò, con il compito di “pulitrici, cuciniere, magazziniere, dattilografe, telefoniste” e con la divisa militare grigio-verde.
Una organica storia della Resistenza al femminile è probabilmente impossibile, per molteplici ragioni: l’oralità di essa e la quotidianità delle azioni svolte dalle donne; l’ottica prevalentemente, se non esclusivamente, maschile con cui è stata vista la guerra di liberazione, durante il suo corso e successivamente; la mancanza di fonti scritte e orali sul contributo femminile alla Resistenza; la considerazione di fondo che la guerra – anche quella partigiana, nonostante la sua novità – è una questione maschile, così da relegare le donne in secondo piano. Tuttavia, la presenza di massa e insostituibile delle donne emerge con chiarezza: sia nella Resistenza armata; sia nella Resistenza civile, attraverso compiti di sussistenza, assistenza quotidiana, trasporto, comunicazione, stampa e proselitismo, diffusione e sanità, grazie anche al minor sospetto destato da una presenza femminile.
Nella memoria storica della Resistenza si tende a sottolineare il carattere tradizionalmente femminile dei compiti svolti dalle donne, nella collaborazione alla lotta partigiana. Ma in realtà vi è anche – ed è fondamentale – un duplice impegno combattente e politico: con la partecipazione alla Resistenza le donne acquisiscono consapevolezza del proprio valore e della propria capacità. La lotta di liberazione contro i nazisti e i fascisti si coniuga strettamente con quella per conquistare sul campo la parità e per difendere i diritti della donna, in un contesto che agevola il riconoscimento di quel valore e di quella capacità, grazie alla rottura del controllo sociale provocata dalla guerra. Anche se la promiscuità delle bande e la rottura degli equilibri tradizionali nel rapporto con l’altro sesso aprono la via alla diffidenza, al moralismo, al pregiudizio antifemminile, a partire da manifestazioni esteriori come le sfilate per celebrare la liberazione.
In questo senso la Resistenza – ben più del primo Risorgimento – è per la questione femminile l’innesco di una profonda trasformazione. L’esperienza partigiana assume per le donne un significato più ampio e incisivo di quelle precedenti, a partire dal primo ‘900, nel confronto con i temi della politica e del lavoro, del rapporto fra pubblico e privato.
Si comprendono quindi, le molteplici sfaccettature e contraddizioni della memoria collettiva sull’esperienza partigiana femminile. Da un lato, vi è l’esaltazione delle aspirazioni alla giustizia e alla libertà, insieme a quella della femminilità di madri, mogli e sorelle. Dall’altro lato, vi è il timore per la spregiudicatezza di chi infrange le convenzioni, contraddice gli stereotipi di una femminilità tradizionale e remissiva, invade ruoli e territori del maschio, a cominciare da quello delle armi.
Probabilmente per questa ragione la Resistenza femminile – complice anche il silenzio sulle violenze subite dalle donne, per opera dei tedeschi come di alcune delle truppe alleate coloniali; e complice la cautela dei politici e degli alleati, di fronte a un fenomeno che appare doppiamente rivoluzionario – subisce la sordina di una memoria lacunosa.

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