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Reti, infrastrutture, territorio. Percorsi difficili tra molte asperità

di - 31 Gennaio 2011
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3. Le «compensazioni» per risolvere le criticità della decisione
Questa delle misure di compensazione è una problematica molto delicata. Se non negoziate da subito, nella tipologia e nei costi, possono essere fonte di distorsione del processo decisionale oltre che causa di superamento significativo delle previsioni di spesa.
Con il rischio anche d’incorrere in sanzioni della magistratura contabile, ma soprattutto di alterare la fisiologica allocazione delle risorse pubbliche.
Attualmente, le misure di compensazione – quando lo sono – vengono definite solo per via dell’incidenza economica massima ammissibile. Occorrerebbe definire meglio la tipologia delle opere – secondo il principio che le misure di compensazione debbono essere «in link» con l’opera principale -, ed il momento nel quale si decidono, cioè sono negoziate.
Proporle al momento del progetto definitivo, quando cioè normalmente si devono acquisire le diverse approvazioni, nell’esperienza è risultato assolutamente poco funzionale.
Altrettanto poco funzionale è risultato proporle all’atto del concepimento dell’opera.
Nel primo caso è «troppo tardi»; nel secondo, è «troppo anticipata» la loro definizione. Tanto più che non si è provveduto ancora a definire preventivamente la loro natura e la misura finanziaria sopportabile[8].
Il ricorso sempre più frequente all’uso delle misure di compensazione è poi un indicatore molto significativo del grado di sconnessione che esiste a livello decisionale. Perché si deve compensare? Evidentemente l’opera della quale si deve compensare l’impatto territoriale non nasce da una logica di pianificazione o, per lo meno, «di sistema».
Costruire la politica del territorio e delle infrastrutture (di trasporto e non solo), presuppone di aver definito il quadro delle esigenze e quello delle priorità. Operazioni entrambe primariamente negoziali tra i soggetti in gioco che sono molteplici, come noto. Ciò per via del tradizionale «policentrismo decisionale» istituzionale italiano e per via della presenza di numerosi altri portatori di interessi oltre quelli istituzionali.
La compensazione (oggi si tende a definirla anche come perequazione), dovrebbe essere implicita alle scelte operate con il piano e nel piano, in quanto l’obiettivo dell’equilibrio e/o della «compensazione redistributiva» è stato perseguito esplicitamente, ed accettato perché realizzabile.
Ritornano le questioni di sempre: a quali infrastrutture dare priorità e quindi, ancor prima, a quali modalità di trasporto (terrestri – e, se sì, stradali o ferroviarie?- aeree, marittime, fluviali); che grado di interconnessione ricercare rispetto alla monomodalità; quali tra i segmenti di domanda privilegiare (persone, merci) e quali spostamenti rispetto alla lunghezza degli stessi (lunghi o locali).
Tutte questioni che attengono al gioco combinato tra ambiente, sviluppo economico, assetto del territorio e politica dei trasporti: problema non certo semplice da governare, ma non per questo eludibile.
Un problema che fa apparire comunque insoddisfacente anche la posizione, peraltro condivisibile per molti aspetti, che sostenne il ministro Paolo Costa con il famoso rapporto dal titolo: Le infrastrutture? Tutte quelle che servono, solo quelle che servono.
Appunto: quali sono quelle che servono? chi lo decide? in rapporto a quale politica dell’ambiente e del territorio? in rapporto a quale grado di copertura della domanda ed a quale forma e livello di «perequazione infrastrutturale»[9] raggiungere?
L’imperfetto processo di presa delle decisioni è senz’altro alla base di conflitti interistituzionali – favoriti, peraltro, dalla ripartizione delle funzioni tutt’altro che perfetta –, che contribuiscono notevolmente all’allungamento dei tempi di realizzazione delle opere nonché allo stesso aumento dei costi.
In corso d’opera si rendono infatti necessarie varianti e compensazioni non previste e, soprattutto, si alimenta una conflittualità che dal livello istituzionale passa a quello sociale (e viceversa), quest’ultimo proposto spesso come «conflitto ambientale», anche se non sempre è veramente tale. Molte le ragioni del conflitto: mancato coinvolgimento nel processo decisionale, cattiva comunicazione del progetto quando non addirittura disinteresse per la informazione e comunicazione, scarsa attenzione per le esigenze locali, budget ridotti per le compensazioni ambientali, sociali ed economiche, etc.
Un insieme di cose, purtroppo legittimato da esperienze precedenti non edificanti, che favorisce la conflittualità. Alla quale si può aggiungere il ruolo dei sistemi di comunicazione, interessati più all’enfatizzazione del conflitto che non alla sua risoluzione – posizione che spesso coincide con l’interesse primo degli oppositori -, tanto che nella gestione dei conflitti ambientali la prima cosa da fare è proprio quella di (cercare di) separare chi è interessato al conflitto in quanto tale da chi, al contrario, è interessato alla risoluzione dello stesso, previo il «miglioramento» del progetto e, più in generale, della decisione.
Una volta deciso il quadro politico pianificatorio–programmatorio, la cui definizione è resa peraltro sempre più complessa per via della crescente importanza dell’esistente (la marxiana questione del capitale fisso sociale ritorna di grande attualità!), pianificabile soprattutto come «management» dell’esistente, anziché come pianificazione ex novo del nuovo, inizia il ciclo vero e proprio dell’opera pubblica: studio di fattibilità, documento di progetto, progetto preliminare e verifiche, progetto definitivo e verifiche, progetto esecutivo e validazione. E quindi la realizzazione anch’essa molto articolata sia proceduralmente sia per la quantità dei soggetti in gioco.
Quindi le collaudazioni in corso d’opera e finali.
In linea di massima il ciclo è attraversato dalle procedure approvative, solitamente incardinate sul progetto definitivo per quanto riguarda i soggetti competenti, esterni alla amministrazione procedente.

Note

8.  Avendo avuto qualche responsabilità nella loro introduzione nella pratica di decisione e conduzione dei progetti pubblici in Italia (ad esempio: Proposta e conduzione dell’Osservatorio ambientale sulla realizzazione dell’autostrada Aosta – Courmayeur; F. Karrer, “Le misure di compensazione nella negoziazione dei conflitti ambientali”, «VIA», n. 19/1991), mi sento costretto a ricordare lo sforzo che feci per chiarire le differenze tra le misure di compensazione e quelle di mitigazione e/o di attenuazione dell’impatto e la richiesta (vana) di mutuare, vista la incapacità di darcene una propria, la «regulation» in uso in altri paesi: personalmente proponevo di ispirarci alla regolazione, opera per opera, che accompagnava la legge francese sugli «études d’impact». La regolazione delle misure di compensazione risale al periodo 1976-1978!

9.  Questa espressione è stata introdotta con la l. n. 42/2009 sul «federalismo fiscale». L’obiettivo richiede una profonda riflessione, fermo restando che quella fisica, cioè di dotazioni, non è una forma di perequazione realizzabile. Si tratterà di definire livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti per ogni territorio, probabilmente indipendentemente dalle modalità di soddisfazione dei bisogni. Con evidenti riflessi per quanto riguarda la questione dei cosiddetti «costi standard» e quindi per l’allocazione delle risorse finanziarie.

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