La governance ambientale: alla ricerca di un equilibrio instabile
4. Linee di evoluzione: dalla logica per materie a quella dell’integrazione
Ancora una volta, come è capitato per il principio di sussidiarietà, per quello di leale collaborazione, per l’accesso, per la partecipazione, per la legittimazione ad agire dei soggetti collettivi, per i modelli consensuali, per gli interessi collettivi, il diritto ambientale sta giocando il ruolo dell’apripista.
Ci dice che i modelli tradizionali di organizzazione che vengono disegnati a tavolino o comunque in modo rigido e permanente sono destinati ad essere superati.
Le spinte per la “risalita” delle competenze verso l’alto (la maggior parte dei fenomeni oggetto di tutela ambientale non sono confinabili entro l’ambito di un territorio delimitato; l’esercizio delle competenze in materia ambientale presuppone la disponibilità di un alto grado di conoscenze specialistiche di carattere tecnico-scientifico da parte degli enti e degli organi chiamati a esplicarle) o quelle verso il basso (il ruolo della società civile, il ruolo degli enti locali etc.) tendono a trovare assetti fluttuanti, mobili, non stabili.
Il diritto ambientale si muove e convive in un contesto di profonda incertezza e in tale contesto gli assetti possibili sono molteplici, per evitare la paralisi occorre sceglierne necessariamente uno.
E dunque quello che conta è che le istituzioni che si muovono nel contesto ambientale abbiano la capacità di “apprendere”, che si abbandoni la logica di stabilire quale livello debba prevalere sull’altro e quella di difendere astratti spazi di potere.
L’unica via per uscire dall’impasse è quella di mettere in rapporto il bene da conseguire: in questa linea è logico che allo Stato si attribuisca perlopiù la competenza ad emanare provvedimenti a contenuto generale, specialmente di natura tecnica, come la fissazione di standard, obiettivi di qualità etc. e che solo raramente vengano mantenute ad esso competenze puntuali, come quella per la VIA o per l’AIA per determinati impianti.
È del tutto pacifico poi che alle Regioni debbano essere attribuite le funzioni di pianificazione oltre a quelle puntuali che comportano scelte di livello territoriale ampio (l’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio di impianti di gestione dei rifiuti, quelle relative alla valutazione dei rapporti di sicurezza, le autorizzazioni alle emissioni in atmosfera; all’approvazione dei piani di bonifica per i siti inquinati).
Così come è logico che alle Province spetti un ruolo principe a partire dall’art. 14 l. 142/1990, a seguire con l’art. 19 d.lgs. 267/2000, fino al Codice dell’ambiente (spettano ad esse l’individuazione delle zone idonee e di quelle non idonee per la localizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti, sugli scarichi, in materia di via etc.) e che agli enti locali vadano attribuite funzioni di controllo.
La regolazione di materie fortemente connotate da aspetti tecnici e tecnologici implica che l’assetto delle competenze non sia eccessivamente blindato e comunque tale da consentire a tutti gli attori di non perdere di vista il risultato finale in vista dell’effetto utile che deve comunque essere garantito.
Occorre dunque prendere atto che il sistema della governance ambientale è un sistema “adattativo” disegnato in relazione ai singoli beni che devono essere tutelati (principio di adeguatezza per il quale si costruiscono ambiti come i bacini, i parchi, le aree protette che sono del tutto indipendenti dalla circoscrizioni amministrative tradizionali) e “integrativo” dal momento che tende a superare la logica della divisione di competenza per materia.
Per rispondere alle nuove sfide dell’incertezza, della volatilità e della provvisorietà occorre, quindi, modificare i punti di vista, le prospettive, i paradigmi tradizionali e che tutti gli attori istituzionali (dai singoli cittadini, alle imprese, alle istituzioni) si mettano in “umile” e “sacrificato” ascolto della realtà.