La governance ambientale: alla ricerca di un equilibrio instabile

Sommario:  – 1. La tensione come elemento caratterizzante. – 2. Le tensioni sul piano orizzontale. – 3. Le tensioni sul piano verticale.-  4. Linee di evoluzione: dalla logica per materie a quella dell’integrazione.

1. La “tensione” come elemento caratterizzante
Se si dovesse scegliere una parola chiave per riassumere il sistema della governance in materia ambientale si dovrebbe scegliere la parola “tensione”: in fisica si ha tensione quando una corda viene sottoposta a trazione, in chimica la tensione indica la reazione delle molecole di un corpo solido soggetto ad una forza deformante, in fisiologia viene indicato in alcuni testi in luogo di sollecitazione interna.
Ebbene la governance ambientale ossia l’insieme dei soggetti che si occupano di tutela dell’ambiente si caratterizza proprio per la presenza di trazioni, di forze deformanti e di sollecitazioni interne assai più rilevanti che in altri contesti istituzionali.
Tali tensioni si sviluppano su vari piani: innanzitutto orizzontalmente tra i vari Ministeri che a vario titolo vengono chiamati a tutelare l’ambiente; in secondo luogo all’interno dello stesso Ministero dell’ambiente della tutela del territorio e del mare, per esempio nei rapporti tra politica e amministrazione; poi tra il livello internazionale e quello nazionale (si pensi ai rapporti tra ICNIRP e normative nazionali); ancora tra il livello comunitario e quello nazionale (il problema della legislazione di maggior favore rispetto a quella comunitaria), tra le attribuzioni dello Stato e quelle delle Regioni (i contenziosi attualmente pendenti avanti alla Corte Costituzionale sulla legittimità del Codice dell’ambiente) e così via sino agli enti locali.
E tutto ciò senza contare il ruolo degli altri stakeholders come le imprese, gli organismi collettivi e i singoli cittadini che sono portatori di specifici interessi assai spesso confliggenti con gli altri interessi in gioco.
Si tratta di un sistema di forze contrapposte e di equilibri assai precari, che non ha caso è stato definito come caratterizzato da complessità o come “organizzazione a rete”.

2. Le tensioni a livello orizzontale
Le prime tensioni nel sistema della governance ambientale si sono manifestate a livello orizzontale.
Negli anni settanta il sistema poteva configurarsi come “pubblicistico orizzontale disaggregato” dal momento che, non esistendo ancora un Ministero dell’ambiente, le funzioni erano distribuite tutte a livello statale (per questo mancava la complessità verticale) e tra i vari Ministeri.
Si avevano funzioni ambientali in capo al Ministero per i beni culturali e ambientali istituito nel 1975 per quel che riguarda la tutela delle bellezze naturali; il Ministero della Sanità era investito di poteri contro la lotta all’inquinamento; il Ministero dei lavori pubblici si occupava del suolo e della tutela delle risorse idriche; il Ministero dell’Industria esercitava competenze in materia di energia, di produzione industriale e di cave e torbiere.
La cura dell’interesse ambientale veniva distribuita a livello orizzontale tra i vari Ministeri senza che vi fosse un unico soggetto deputato alla cura del medesimo.
Con l’istituzione del Ministero dell’ambiente non si è, quindi, rivoluzionato il sistema preesistente: si è solo aggiunto un Ministero in più. Solo una parte delle competenze degli altri Ministeri, infatti, sono state trasferite nella nuova amministrazione: rifiuti, aree protette, inquinamento idrico, atmosferico e acustico. Ad essa sono state assegnate ulteriori competenze come l’accreditamento delle associazioni ambientaliste, la divulgazione delle informazioni sullo stato dell’ambiente, la prevenzione e la repressione delle violazioni compiute in danno dell’ambiente, i poteri di ordinanza, la proposta al Consiglio dei Ministri per la deliberazione di area ad elevato rischio ambientale, la VIA etc.
Per altre materie si è previsto che il Ministero dell’ambiente debba operare di concerto con altri Ministeri.
Si è così pervenuti ad una complessità organizzativa a livello orizzontale che non può non riverberarsi sul procedimento e determinare assai spesso un fattore di paralisi.
Il Ministero dell’ambiente, è uno degli ultimi nati nella famiglia dei Ministeri, si è dovuto quindi fare strada tra fratelli più grandi assai più navigati e pian piano conquistare nuovi spazi.
Di tale progressiva conquista costituiscono espressione i mutamenti di denominazione: dapprima Ministero dell’ambiente (l. 349/1986); poi, tredici anni dopo, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio (d.lgs. 300/1999); poi ancora, esattamente venti anni dopo l’istituzione, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (l. n. 233/2006).
Altre funzioni restano però in capo ad altri Ministeri: Ministero delle politiche agricole e forestali in materia di acque e di agricoltura biologica; Ministero della salute sulle biotecnologie; Ministero dei beni e delle politiche culturali sul paesaggio etc.
Da ciò le tensioni che tuttora permangono a livello orizzontale: tanto per fare un esempio, l’energia nucleare appartiene alla competenza dello sviluppo economico o dell’ambiente?

3. Le tensioni sul piano verticale
Se, dunque, dagli anni ’70 fino ad oggi le tensioni si concentrano perlopiù sul piano orizzontale, i periodi successivi sono caratterizzati dallo svilupparsi delle tensioni anche sul piano verticale.
Tali tensioni possono sintetizzarsi con riferimento fondamentalmente a quattro campi: rapporti tra normativa internazionale e nazionale; rapporti tra normativa comunitaria e nazionale; rapporti tra normativa statale e normativa regionale; rapporti tra i regolatori e le imprese.
Si pensi innanzitutto alle tensioni tra gli organismi internazionali preposti alla definizione di standard e alle autorità nazionali che di volta in volta vengono chiamate ad adottare o a discostarsi da tali standards.
I casi sono innumerevoli ma si possono citare gli standards precauzionali definiti dall’ICNIRP o le regole di sicurezza alimentare a cui si riferisce il Codex alimentarius.
Ma soprattutto, alle tensioni che si sono sviluppate tra la normativa comunitaria e quella nazionale.
All’interrogativo se gli Stati nazionali abbiano la possibilità di adottare norme meno “verdi” o più “verdi” di quelle comunitarie la giurisprudenza comunitaria ha risposto che le norme meno “verdi” possono essere adottate solo in via eccezionale e temporanea e che quelle più “verdi” possono essere adottate solo se giustificate da esigenze importanti o fondate su nuove prove scientifiche. Tali ultime disposizioni devono essere motivate e notificate dallo Stato membro.
Si pensi all’illogicità di normative differenziate sui requisiti di potabilità dell’acqua, di balneabilità o per il consumo umano o per la tutela di specie minacciate.
Il settore nel quale con maggiore evidenza si manifestano le tensioni è però quello dei rapporti tra Stato e Regioni.
Tale rapporto è stato fin dall’inizio altalenante con periodi ciclici di accentuazione della prevalenza del centro o della periferia.
In un primo tempo (metà-fine anni ’70) sembrava che il legislatore e la Corte Costituzionale dovessero muoversi nella linea della prevalenza della periferia (con il dpr 616/1977 si attribuirono molte competenze alle Regioni e la Corte Costituzionale con la sentenza n. 72/1977 assecondò tale spinta regionalistica).
In un secondo momento (anni ’80) vi fu una netta inversione di tendenza con la prevalenza del centro, dal momento che molte normative speciali riattribuirono competenze al centro (legge 431/1985, cd. legge Galasso, sulla tutela delle zone di particolare interesse ambientale; legge sulla difesa del suolo (l. 183/1989); legge sulle aree naturali protette (l. 394/1991)).
In un terzo momento (fine anni ’90) grazie soprattutto alle leggi Bassanini (d.lgs. 112/1998 emanato sulla base della l. n. 59/1997) si ritornò alla prevalenza della periferia: anche per la materia di protezione della natura e dell’ambiente tutte le funzioni amministrative non espressamente indicate come di rilievo nazionale vennero attribuite alle regioni, che a loro volta provvedono all’assegnazione agli enti locali come le Province.
Il Codice dell’ambiente, almeno a detta delle Regioni, avrebbe però non tanto confermato l’impianto delineato dal d.lgs. n. 112/1998 quanto invece riportato a livello statale competenze che prima erano di livello regionale. Da qui sono nate le contestazioni di cui la Corte sta discutendo in questi giorni.
Dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale sul punto si possono distinguere varie tappe.
In una prima tappa (fino al 2001) la Corte Costituzionale aveva già acquisito che la competenza in materia di ambiente dovesse essere distribuita tra Stato e Regioni.
Con la riforma del titolo V e con l’introduzione della competenza esclusiva dello Stato si era operata, almeno in astratto, una riattribuzione della competenza verso l’alto a livello statale.
Ma la Corte Costituzionale, praticamente sin da subito, ha affermato che una totale risalita delle competenze amministrative non era praticabile per la trasversalità della materia ed ha continuato a riconoscere ai legislatori regionali la possibilità di occuparsi di ambiente.
Si è posto quindi il noto problema di capire se una regione possa adottare norme meno “verdi” o più “verdi” di quelle statali.
In ordine al primo punto, pare escluso che una Regione possa adottare norme meno garantistiche a meno che, ovviamente, tale deroga non venga prevista direttamente dalla legislazione statale (v. ad es. art. 81, 86 e 89 cod.amb.).
In ordine al secondo punto, l’art. 3 quinquies cod. amb. afferma che le regioni possono adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive solo qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio e purché ciò non comporti un’arbitraria discriminazione anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali.
Tale norma ha aiutato la Corte Costituzionale (sent. 225/2009 e le successive dieci) ad uscire dalle oscillazioni che l’hanno caratterizzata in questi anni: in un primo tempo infatti aveva riconosciuto la possibilità di norme più “verdi” (sent. 407/2002) adottate dalle Regioni; poi aveva negato tale possibilità con riferimento al settore dell’inquinamento elettromagnetico (307/2003; 331/2003; 336/2005; 103/2006) o di rifiuti radioattivi (62/2005); poi ancora era tornata ad affermare la legittimità di norme regionali di maggiore protezione ambientale (182/2006 e 246/2006).

4. Linee di evoluzione: dalla logica per materie a quella dell’integrazione
Ancora una volta, come è capitato per il principio di sussidiarietà, per quello di leale collaborazione, per l’accesso, per la partecipazione, per la legittimazione ad agire dei soggetti collettivi, per i modelli consensuali, per gli interessi collettivi, il diritto ambientale sta giocando il ruolo dell’apripista.
Ci dice che i modelli tradizionali di organizzazione che vengono disegnati a tavolino o comunque in modo rigido e permanente sono destinati ad essere superati.
Le spinte per la “risalita” delle competenze verso l’alto (la maggior parte dei fenomeni oggetto di tutela ambientale non sono confinabili entro l’ambito di un territorio delimitato; l’esercizio delle competenze in materia ambientale presuppone la disponibilità di un alto grado di conoscenze specialistiche di carattere tecnico-scientifico da parte degli enti e degli organi chiamati a esplicarle) o quelle verso il basso (il ruolo della società civile, il ruolo degli enti locali etc.) tendono a trovare assetti fluttuanti, mobili, non stabili.
Il diritto ambientale si muove e convive in un contesto di profonda incertezza e in tale contesto gli assetti possibili sono molteplici, per evitare la paralisi occorre sceglierne necessariamente uno.
E dunque quello che conta è che le istituzioni che si muovono nel contesto ambientale abbiano la capacità di “apprendere”, che si abbandoni la logica di stabilire quale livello debba prevalere sull’altro e quella di difendere astratti spazi di potere.
L’unica via per uscire dall’impasse è quella di mettere in rapporto il bene da conseguire: in questa linea è logico che allo Stato si attribuisca perlopiù la competenza ad emanare provvedimenti a contenuto generale, specialmente di natura tecnica, come la fissazione di standard, obiettivi di qualità etc.  e che solo raramente vengano mantenute ad esso competenze puntuali, come quella per la VIA o per l’AIA per determinati impianti.
È del tutto pacifico poi che alle Regioni debbano essere attribuite le funzioni di pianificazione oltre a quelle puntuali che comportano scelte di livello territoriale ampio (l’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio di impianti di gestione dei rifiuti, quelle relative alla valutazione dei rapporti di sicurezza, le autorizzazioni alle emissioni in atmosfera; all’approvazione dei piani di bonifica per i siti inquinati).
Così come è logico che alle Province spetti un ruolo principe a partire dall’art. 14 l. 142/1990, a seguire con l’art. 19 d.lgs. 267/2000, fino al Codice dell’ambiente (spettano ad esse l’individuazione delle zone idonee e di quelle non idonee per la localizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti, sugli scarichi, in materia di via etc.) e che agli enti locali vadano attribuite funzioni di controllo.
La regolazione di materie fortemente connotate da aspetti tecnici e tecnologici implica che l’assetto delle competenze non sia eccessivamente blindato e comunque tale da consentire a tutti gli attori di non perdere di vista il risultato finale in vista dell’effetto utile che deve comunque essere garantito.
Occorre dunque prendere atto che il sistema della governance ambientale è un sistema “adattativo” disegnato in relazione ai singoli beni che devono essere tutelati (principio di adeguatezza per il quale si costruiscono ambiti come i bacini, i parchi, le aree protette che sono del tutto indipendenti dalla circoscrizioni amministrative tradizionali) e “integrativo” dal momento che tende a superare la logica della divisione di competenza per materia.
Per rispondere alle nuove sfide dell’incertezza, della volatilità e della provvisorietà occorre, quindi, modificare i punti di vista, le prospettive, i paradigmi tradizionali e che tutti gli attori istituzionali (dai singoli cittadini, alle imprese, alle istituzioni) si mettano in “umile” e “sacrificato” ascolto della realtà.