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Era morto e non lo sapeva.
Intorno al regolamento di giurisdizione

di - 2 Marzo 2009
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Il secondo fatto accadde nel 1890. Dopo lunghe discussioni, si decise di dare un giu­dice anche alle controversie riservate alla decisione dell’autorità amministrativa – che non riguardavano cioè diritti civili e politici. Presso il Consiglio di Stato, massimo organo consultivo del governo, venne istituita una sezione “per la giustizia amministrativa”, cui venne conferito il potere di annullare i provvedimenti amministrativi viziati da illegittimità o eccesso di potere, che “abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici“. Delle controversie tra cittadini ed amministrazioni pubbliche potevano dunque occuparsi due giudici, di­versi quanto si vuole, ma giudici.
Sul ruolo di questi due giudici si deve fermare brevemente l’attenzione. Come la sua natura e le sue funzioni istituzionali volevano, al giudice ordinario era affidato il compito di decidere con pienezza di poteri le controversie tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini, aventi ad oggetto “diritti civili o politici” di questi ultimi. Cittadini ed amministrazione venivano posti in un certo senso su un piano di parità: come le obbligazioni dovevano essere adempiute, così veniva risarcita la lesione dei diritti. La legge del 1865 poneva un solo limite ai poteri del giudice ordinario: non poteva modificare, annullare, revocare, il provvedimento da cui la controversia era scaturita o comunque intorno al quale si era sviluppata. Al giudice ammi­nistrativo era viceversa demandato proprio il sindacato sulla legitti­mità degli atti impugnati: poteva quindi annullarli (non modificarli), se li riteneva illegittimi, senza però poter condannare l’amministrazione al risarcimento del danno.
Erano dunque due giudici con funzioni profondamente diverse, mirate a soddisfare bisogni di giustizia altrettanto diversi. Ridotto il discorso ai suoi termini essenziali, il giudice amministrativo poteva soddisfare il bisogno di veder rimosso un atto amministrativo lesivo (la concessione negata o assentita ad un terzo, ad es.); il giudice ordinario garantiva il rispetto dei diritti.
Il terzo accadimento è dell’anno successivo. Nessuna norma di legge si era preoccupata di definire i rapporti tra il giudice ordinario ed il neo-istituito giudice amministrativo. Ma non per questo il problema cessava di esistere. Tanto esisteva, che già nel 1891 il giudice dei conflitti (le sezioni unite della Cassazione di Roma) venne investito della questione se il cittadino potesse scegliere quale giudice adire, in funzione dell’interesse che intendeva far valere: il ri­sarcimento del danno, di fronte al giudice ordinario, o l’annullamento dell’atto lesivo, di fronte al giudice amministrativo.
La Cassazione disse che nessuna scelta era data. Si doveva adire il giudice che l’ordinamento aveva predisposto a tutela della situazione giuridica – diritto soggettivo o inte­resse legittimo – di cui in una data controversia si trattava. Prima di rivolgersi ad un giudice, occorreva dunque stabilire se la situazione giuridica soggettiva entro cui andava collocato l’interesse che si voleva far valere in giudizio andava qualificata come “diritto soggettivo” o “interesse legittimo”. Se ci si era sbagliati … errore fatale!
3. Ne derivarono due conseguenze. La prima è semplice e ben nota. Costretti nel perimetro della giurisdizione amministrativa, gli “interessi di individui e di enti morali giuridici” – gli interessi legittimi – divennero irrisarcibili, perché … il loro giudice poteva sì annullare i provvedimenti dell’amministrazione che li aveva lesi, ma non gli era consentito conoscere di una domanda di risarcimento del danno, quale che ne fosse la natura o l’entità. Questa è stata irremovibile giurisprudenza della Cassazione, fino alla “sentenza del pentimento”, di 109 anni dopo, con cui affermò il principio esattamente opposto: gli interessi legittimi sono risarcibili. È la celeberrima sentenza n. 500/1999, delle sezioni unite.

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