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Fiducia e mercati finanziari

di - 30 Gennaio 2009
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2.     La finanziarizzazione dei sistemi economici non è certo fenomeno recente. Se il mercato, metafora di luoghi (economici, giuridici, etici) concettualmente non neutri, si basa sull’assunto che il lavoro va diviso per corpi specializzati, spetta ai sistemi finanziari occuparsi dell’allocazione delle risorse e “socializzare” il capitale ed il suo rischio. Essi sono quindi elemento intrinseco dell’economia capitalistica, che, di stagione in stagione, per così dire, muta veste, struttura, carattere. Basti pensare a quello che erano nell’Ottocento – epoca non solo storicamente a noi più prossima, ma in cui i fenomeni di apertura dei mercati e della “globalizzazione” si manifestarono in modi addirittura più accentuati di quelli attuali – rispetto ad oggi. L’elemento di maggior distinzione è probabilmente la loro fortissima spersonalizzazione, dovuta all’origine del risparmio, oggi capillarmente diffuso ed immesso sui mercati finanziari da investitori finali di piccole o piccolissime dimensioni.

In parallelo, si deve registrare una marcata differenza nell’intermediazione: se nel corso dell’Ottocento le banche erano i principali gestori del risparmio, che lo investivano in progetti di cui erano in grado di valutare direttamente la qualità (redditività, sicurezza), nella scelta dell’investimento gli investitori istituzionali seguono oggi parametri di diversificazione del rischio, teorie sulla probabilità degli eventi, l’andamento del mercato attraverso indici sintetici, secondo approcci metodologici in cui il prezzo diviene la informazione determinante.

Se fiducia quindi poteva un tempo significare quasi condivisione di responsabilità nell’investimento, anche quando si trattasse di solo capitale finanziario, e l’affidamento era generato dalla reputazione individuale e dall’esperienza maturata sul campo di chi gestiva il risparmio, oggi parametri e modelli matematici di cui si assume a priori una sorta di scientificità assoluta garantiscono l’affidabilità dell’investimento, sostituendosi all’esperienza e alla reputazione individuali. In questo contesto, la fiducia si trasferisce sul prezzo-informazione, riducendo a valori e livelli indefinibili la componente di affidamento individuale o reciproco, sostituito con quello nella scienza collettiva, nel valore del suo linguaggio per indici, nella capacità di predizione del futuro. Sull’equivoco, in qualche modo, che il futuro non sia costruito, ma predetto.

Ne deriva una conseguenza di grandissimo rilievo. Se questa è la premessa, la chiave della fiducia risiede in massima parte nella trasparenza: più il mercato è trasparente, ovvero più gli indici sono conosciuti (anche se non interpretati) e le informazioni rese “pubbliche”, cioè potenzialmente acquisibili da chiunque (anche appunto se incapace di decifrarle o di usarle), più si creano le premesse per la fiducia.

3. E’ ben noto come il diritto abbia risposto a queste forme di “socializzazione” ed alle mutazioni nel controllo del capitale a livello societario. Specialmente la dottrina americana ha studiato il fenomeno delle corporations, società quotate ove il capitale azionario è talmente diffuso nel mercato da non poter esprimere un nucleo “proprietario” che si assuma la responsabilità della gestione dell’impresa. Non si può non sottolineare, sia pur quasi incidentalmente, come queste imprese vengano definite “public companies”, con un vero mutamento di linguaggio, nel senso che il concetto di “pubblico” viene svuotato di qualsivoglia dimensione effettivamente collettiva o comune. Il modo per leggere giuridicamente il fenomeno è infatti quello di considerare che la dirigenza dell’impresa sia vincolata da un rapporto di agenzia verso gli azionisti, così “privatizzando” la responsabilità della gestione in un rapporto di principal-agent, che imporrebbe al manager di massimizzare il valore delle azioni: delle azioni sul mercato, non dell’azienda, poiché l’incremento del valore delle azioni va a beneficio dell’azionista “diffuso”, interessato alla remunerazione dell’investimento nel breve periodo. Come è evidente, tutto ciò implica una serie di modifiche, se non addirittura stravolgimenti sotto vari aspetti, incluso in qualche misura il ruolo dei bilanci, utilizzati per segnalare al mercato lo stato dell’impresa come bene finanziario.

D’altra parte, davanti alla constatazione che il rapporto principal-agent contiene tensioni dovute a intrinseci conflitti di interesse, anche il rapporto “privatistico” tra principal ed agent viene sottoposto al controllo “pubblico” del «mercato». I bilanci-segnalazione vengono certificati, da soggetti terzi e quindi supposti neutri. Tali giudizi qualitativi si trasformano poi in rating quantitativi che ne permettono la comparazione con altri beni finanziari. La fiducia che sorregge queste valutazioni non dipende quindi necessariamente (o comunque non solo) dalla reputazione della singola società di revisione, ma appunto dalla scientificità dei parametri utilizzati nel valutare l’impresa. Che esistano poi dei conflitti di interesse anche relativamente a queste società di revisione o rating, è informazione ora diffusa, ma principalmente perché l’ingordigia ha prevalso e drammatiche truffe sono così emerse alla cronaca. Dell’endemicità di tali conflitti è invece stato scritto,[2] a nuova conferma dell’insufficienza, o addirittura della mistificazione della lettura giuridica.

Note

2.  Noto a tutti, tra gli altri, lo scritto di Guido Rossi, Il conflitto epidemico, Adelphi 2003.

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